Grandi Dimissioni? Ma se siamo una generazione di “disoccupati freelance”
4 min letturadi S.O.
Abbiamo ricevuto questa lettera da una persona che preferisce rimanere anonima. Noi conosciamo l'identità di questa persona e abbiamo verificato la sua testimonianza.
Oggi, rileggendo l'articolo a proposito delle “Grandi dimissioni” negli USA, con un focus finale sullo stato delle cose in Italia, ho notato che l’autrice in una postilla chiede testimonianze di chi si è dimesso o ha intenzione di farlo.
Mi è venuto amaramente da ridere perché qua manco ci arriviamo alle dimissioni. “Qua” è la mia cerchia personale di uomini e donne, tutti con più di 30 anni, me compresa. Il lavoro, volente o nolente, è purtroppo un tema ricorrente nelle nostre conversazioni, e quasi mai con accezione positiva. Ho deciso di unire le nostre voci e raccontare la nostra storia collettiva perché è ora che tutto questo smetta, perché la rassegnazione e la solitudine ci rendono tutti più soli e deboli.
Parto da me. Ho lavorato questo autunno due volte come cameriera, per un totale di sei giorni. La prima volta il datore di lavoro mi anticipa che sarà un lavoro in regola: mi chiede tutti i dati personali e meno di un mese dopo mi arriva anche il cedolino vidimato dall'Inail a testimonianza della veridicità delle sue parole. Diciassette ore, in busta paga ci sono, lordi, 165,53 euro.
Sono entusiasta, il trattamento è stato ottimo, il pagamento puntuale, decido di accettare nuovamente la sua proposta di ripetere l’esperienza il mese successivo. Il gestore però mi dice che a questo giro purtroppo non può rifarmi lo stesso contratto. Lui è comunque una persona che conosco, mi fido, lavoro con lo stesso entusiasmo e attenzione, facendo anche più ore. Stavolta però il pagamento tarda, devo sollecitarlo. E, quando alla fine arriva, ho solo un accredito e nessuna busta paga: 100,5 euro. Purtroppo ho perso il foglio dove avevo segnato le mie ore di lavoro e non ricordo più esattamente quante fossero, ma indicativamente diciotto o diciannove.
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Altro giro, altra storia. Un amico mi racconta della sua esperienza in un centro per l’impiego del sud Italia. L’impiegata, dopo aver scambiato due parole con lui e controllato il suo curriculum, gli dice chiaramente che lui è troppo qualificato. Lui si domanda come sia possibile essere “troppo qualificato” per un centro per l’impiego: non è un’azienda, ma un luogo in cui, in base alla qualifica, dovrebbe essere intercettata la posizione lavorativa adeguata. Come se già la situazione non fosse abbastanza surreale, l’impiegata durante lo stesso colloquio gli suggerisce di provare da qualche altra parte, forse al nord. Al che lui reagisce: «Scusi ma lei è un centro per l’impiego o un’agenzia viaggi? Perché io credevo di essere in un centro per l’impiego, ma devo essermi sbagliato». A conclusione del nostro dialogo lui si definisce sarcasticamente un “disoccupato freelance”.
Passiamo a questi ultimi giorni. La mia migliore amica mi racconta la storia successa di una ragazza che conosce, F. Nell'hub vaccinale vicino a casa di F. - circa cinque chilometri di distanza - cercano personale per raccogliere i nominativi di chi arriva a vaccinarsi. Le parlano di sei ore di lavoro al giorno, sei giorni su sette. Nel momento in cui si presenta per fare il colloquio, però, le cose cambiano. Nella stanza insieme a lei ci sono altre persone, tra cui altre due candidate, responsabili e assistenti. Dopo averle chiesto cosa volesse fare le dicono che sì, quel posto di lavoro c’è, però potrebbe esserci anche un’altra posizione aperta, come centralinista, a circa trenta chilometri di distanza rispetto all’altro posto di lavoro per cui si era proposta. Non viene menzionata nessuna tipologia di contratto. Di fronte a così tante persone, altri candidati compresi, non riesce a dire immediatamente di no. Il giorno dopo, in serata, le mandano alcuni fogli in bianco, senza farle ancora sapere né la paga né quale sarebbe la sede di lavoro, dicendole che dovevano essere firmati prima di conoscere il contratto. F. stavolta rifiuta.
L’ultima storia è quella di mio marito, che in questo momento è al lavoro all'estero: si occupa di falegnameria e carpenteria. È in una squadra insieme ad altre tredici persone, e il committente ha affittato un appartamento per loro: dieci posti letto, di cui sei in camera unica tra letti a castello e matrimoniali. Manca anche la pulizia basilare, convivono con i topi. Il capo della squadra ha quindi affittato di tasca sua un altro posto dove potessero stare.
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Quindi, ricollegandoci alla premessa iniziale, chi ci arriva alle dimissioni? Persino dimettersi sembra un lusso, in un mercato del lavoro come questo. Io e mio marito ci stiamo organizzando per ritirarci definitivamente dal mercato del lavoro, perché non vediamo altra strada. Sappiamo di essere dei privilegiati per avere delle famiglie stabili alle nostre spalle, ma quando il lavoro passa spudoratamente a sfruttamento è per noi un imperativo tirarcene fuori. Come sopravviveremo? Ancora non possiamo, non riusciamo a saperlo, ma riteniamo fondamentale finalmente raccontare tutto questo a voce alta per appropriarci e ribaltare finalmente la narrazione de “i giovani non vogliono lavorare”: sì, non vogliamo lavorare così, perché questo è sfruttamento e non lavoro.
Immagine anteprima via La città futura