La nuova strategia del governo contro le ONG che salvano vite in mare
8 min letturaAggiornamento del 29 dicembre 2022: Nella giornata di ieri il governo ha approvato “un decreto-legge che introduce disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori”, su proposta della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Il decreto istituisce un nuovo codice di condotta per le ONG che effettuano salvataggi in mare, con regole più stringenti. Come anticipato, tra le sanzioni il decreto prevede “il fermo amministrativo della nave (contro il quale è ammesso ricorso al prefetto) e, in caso di reiterazione della condotta vietata, la confisca della stessa, preceduta dal sequestro cautelare”. Sono previste sanzioni anche qualora il comandante e l’armatore di una nave “non forniscano le informazioni richieste dall’autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare o non si uniformino alle indicazioni impartite da quest’ultima”.
Tra le prime reazioni c’è quella dell’ONG Sea Watch, che all’agenzia Adnkronos ha dichiarato:
Il nuovo 'decreto Sicurezza' approvato dal Consiglio dei ministri del Governo Meloni non è altro che l’ennesimo tentativo di ostacolare e criminalizzare le attività delle navi della società civile. Nessun governo può impedire a una nave di sottrarsi all'obbligo di soccorso e nessuna nave si rifiuterà di accogliere chi chiede aiuto nel Mediterraneo centrale. Rispetteremo il diritto internazionale, come abbiamo sempre fatto.
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha annunciato una nuova legge per regolare l’operato delle organizzazioni non governative che si occupano di ricerca e soccorso nel Mediterraneo.
In un’intervista rilasciata a Il Foglio, Piantedosi ha detto che il regolamento sarà definito “nelle prossime settimane” e non introdurrà nuovi reati. Saranno invece previste sanzioni amministrative, irrogate dai prefetti, per chi violerà le nuove norme: multe, fermi amministrativi, fino alla confisca delle navi in caso di violazioni multiple.
Non è tuttavia chiaro in cosa consisteranno le regole, né se sarà possibile applicarle. Le attività di ricerca e soccorso in mare sono strettamente regolate dal diritto internazionale: qualsiasi legge volta a limitare le attività di salvataggio è destinata a scontrarsi con norme di rango superiore, i vari trattati internazionali sulla sicurezza della navigazione a cui l’Italia aderisce.
Per questo motivo, ha dichiarato Piantedosi a Sky News, il governo vorrebbe creare per legge “chiari elementi di distinzione” tra missioni di salvataggio e “ricerche sistematiche di persone che partono sotto l’iniziativa dei trafficanti”. Questo significa, in pratica, creare un diritto della navigazione a due corsie: una per chi migra, e una per il resto dei potenziali naufraghi. Si tratta, come vedremo, di un’ambizione coltivata da almeno un decennio da vari governi italiani che si sono succeduti negli anni.
Il tentativo di distinguere tra naufraghi più o meno degni di essere salvati, oltre a essere moralmente discutibile, crea enormi problemi giuridici e concettuali. Problemi che finora hanno frenato gli interventi legislativi a riguardo: il precedente tentativo di disciplinare l’operato delle ONG, da parte del governo Gentiloni nel 2017, prese la forma di un “codice di condotta” ad adesione volontaria. Piantedosi si è richiamato esplicitamente a questo precedente, promosso dall’allora ministro dell’Interno Minniti. Ma ha chiarito che il suo provvedimento sarà vincolante.
Le anticipazioni sul contenuto della norma sono state affidate alla stampa - che cita “fonti vicine al dossier” o non cita fonti - senza comunicati ufficiali. Dagli articoli finora usciti si possono evincere tre punti cardine del futuro decreto: l’obbligo per gli equipaggi delle navi di salvataggio di ricevere la richiesta di asilo dei naufraghi a bordo; l’obbligo di richiedere un porto di sbarco alle autorità competenti immediatamente dopo aver effettuato un salvataggio; e il divieto di procedere ai salvataggi in mancanza di “un effettivo pericolo” per l’imbarcazione dei migranti.
La domanda di asilo a bordo delle navi di salvataggio
Come riporta Rai News:
I soccorritori dovranno chiedere immediatamente ai soggetti a bordo, che sono stati messi in salvo, la manifestazione di interesse sull'eventuale domanda di protezione internazionale dei migranti, affinché sia il paese di bandiera della nave a farsi carico dell'accoglimento del migrante dopo lo sbarco.
La destra, e in particolare Salvini, ha sostenuto spesso che i naufraghi debbano sbarcare nel paese di bandiera delle navi di salvataggio. Questa proposta è in aperto contrasto con il diritto internazionale, che prevede che lo sbarco dei naufraghi avvenga “nel porto sicuro più vicino”. Il “porto sicuro” è quello in cui ai naufraghi è garantito il pieno esercizio dei propri diritti, compreso il diritto di richiedere asilo: per i salvataggi nel Mediterraneo centrale si tratta quasi sempre dell’Italia. La Tunisia, spesso geograficamente più vicina alla zona dei salvataggi, non garantisce appieno il diritto all’asilo e per questo non si considera porto sicuro.
L’idea di spostare la richiesta di asilo a bordo delle navi di salvataggio sembra escogitata precisamente per aggirare questo problema: l’Italia potrebbe continuare a essere il principale porto di sbarco per i naufraghi del Mediterraneo centrale, ma sarebbero poi gli stati di bandiera delle navi a farsi carico delle richieste d’asilo. La norma intende così forzare il regolamento di Dublino, che prevede che nell’Unione Europea il paese di primo ingresso del richiedente asilo debba gestire questa pratica. Il paese di primo ingresso, dice il governo, deve considerarsi quello a cui appartiene la nave di salvataggio.
Tuttavia, gli stati tradizionalmente sono disposti a considerare soltanto le richieste d’asilo effettuate all’interno dei propri confini territoriali. La decisione di considerare una nave come un’estensione del territorio dello stato di bandiera, ai fini del diritto d’asilo, può essere presa soltanto dallo Stato stesso. L’Italia non può costringere uno Stato terzo ad accettare richieste d’asilo a bordo delle proprie navi in acque internazionali. Per mettere in pratica la norma annunciata dal Viminale, insomma, ci vorrebbe l’improbabile consenso degli altri paesi europei.
Inoltre, per poter manifestare la propria volontà di richiedere asilo, secondo le linee guida dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, i migranti devono aver avuto accesso a tutte le informazioni giuridiche rilevanti e a un servizio di mediazione linguistica: obblighi che difficilmente potranno essere assolti dai ridotti equipaggi delle navi di salvataggio. Per questo alcuni giuristi considerano quest’aspetto della proposta di legge sostanzialmente impraticabile.
La richiesta immediata del porto di sbarco
Scrive ancora Rai News che dopo un soccorso in mare
i soccorritori dovranno chiedere immediatamente un porto di sbarco, verso il quale la nave sarà tenuta a dirigersi immediatamente dopo il salvataggio, senza restare giorni in mare in attesa di altri possibili soccorsi.
Chiunque abbia partecipato a missioni di salvataggio nel Mediterraneo sa che questa è già una prassi consolidata: le ONG richiedono un porto di sbarco subito dopo ogni operazione di soccorso. Se le ONG si ritrovano spesso a effettuare vari soccorsi durante una missione, questo accade perché, nel lasso di tempo che passa tra la richiesta e l’assegnazione del porto, o nel tragitto verso il porto di sbarco, arrivano nuove richieste di soccorso che impongono un intervento immediato da parte delle imbarcazioni nelle vicinanze. Il mancato soccorso determina, in caso di naufragio, la responsabilità penale dei comandanti delle navi negligenti. Inoltre, le ONG non restano per giorni in mare “in attesa di altri possibili soccorsi”: lo fanno perché il governo italiano tarda solitamente diversi giorni ad assegnare un porto di sbarco. È la strategia dei lunghi “stand-off” inaugurata da Salvini e proseguita con Lamorgese al Viminale.
Le anticipazioni di Piantedosi sembrano piuttosto annunciare l'abbandono di questa strategia: il governo sembra ora intenzionato ad assegnare alle navi delle ONG un porto di sbarco nel minor tempo possibile, dirigendole però verso porti molto lontani. Dopo il salvataggio delle ultime settimane, le navi delle ONG sono state inviate a Salerno, a Bari e a Livorno, a diversi giorni di navigazione dalla zona di ricerca e soccorso. In questo modo il governo limita il tempo che le ONG passano nel Mediterraneo centrale, e impone loro maggiori costi operativi (a seconda delle caratteristiche della nave, si stima che una giornata di navigazione possa costare tra i 15 e i 30mila euro).
Salvataggi solo in caso di “effettivo pericolo”
L’annuncio di un nuovo codice di condotta per le ONG era stato fatto a pochi giorni dall’insediamento del governo Meloni per mezzo di indiscrezioni affidate a Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera:
La regola principale da rispettare sarà di intervenire soltanto quando esiste un effettivo pericolo per i migranti. In sostanza non si potrà più segnalare la propria posizione a chi è in attesa di partire dalle coste africane in modo da effettuare il trasferimento dai barchini alle navi delle ONG.
Questa, più che una regola, è una calunnia bella e buona, che Sarzanini si sarebbe dovuta guardare dal riportare acriticamente: non esiste alcuna prova che le ONG abbiano mai segnalato la propria posizione alle barche in partenza dall’Africa. La posizione delle navi, peraltro, è un dato pubblico, visto che esiste l’obbligo, indispensabile per la sicurezza della navigazione, di trasmettere la propria posizione in tempo reale attraverso il sistema AIS (acronimo inglese di Sistema di Identificazione Automatico).
L’annuncio di questa pseudo-norma sembra funzionale a far passare l’idea che i barconi di migranti soccorsi dalle ONG non siano in condizioni di “effettivo pericolo”. Negare, contro ogni evidenza, che i barconi necessitino soccorso serve a creare un diritto del mare alternativo per i migranti: quello che, come si è detto, sembra essere l’obiettivo dell’intera operazione del governo. Lo si è visto anche nell'intervento della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a Porta a Porta: "Quelli che accogliamo noi sono banalmente quelli che hanno i soldi da dare agli scafisti, gli altri no. Io non credo che sia un modo intelligente di gestire il problema dei profughi e dei migranti", ha detto Meloni.
Nel 2017 l’allora Comandante generale della Guardia Costiera Vincenzo Melone aveva spiegato, in un’audizione della commissione difesa del Senato, che le imbarcazioni di migranti sono a rischio di naufragio sin dal momento della partenza:
I dati salienti sotto un profilo strettamente tecnico che il fenomeno migratorio presenta ai fini dell'esercizio della funzione SAR [acronimo inglese di Ricerca e Soccorso, NdA] sono così sintetizzabili: lo stato di periculum in re ipsa determinato dalla precarietà sempre più evidente delle unità utilizzate dai migranti, del tutto inidonee e fatiscenti, sovraccariche all'inverosimile, prive di equipaggio e delle più basilari dotazioni di sicurezza. Quindi necessitanti comunque di soccorso e tali da imporre un intervento immediato da parte di chi ne abbia notizia. Cioè, l'unità già di per sé, solo a vederla, è in una condizione di essere soccorsa, perché certamente non può fare una navigazione protratta nel tempo e nello spazio.
La tragica dimostrazione di questa affermazione sono le 25,351 persone morte o scomparse nel Mediterraneo dal 2014. Quasi otto vite perse ogni giorno. Una verità che le autorità italiane non hanno mai voluto ascoltare. Lo stesso Melone, in un altro intervento alla Camera, ha raccontato come nel 2015, sotto il governo Renzi, l’Italia avesse posto un quesito all’organizzazione marittima internazionale (IMO) per sapere se le leggi internazionali sui salvataggi in mare fossero “ancora attuali” nel contesto delle migrazioni dalla Libia. L’IMO rispose che sì, l’Italia doveva assolvere ai suoi doveri di salvataggio anche se si trattava di migranti.
A giungo 2021, con Draghi al governo, era stata la ministra Lamorgese a parlare di una “intensa attività operativa messa in atto per contrastare […] la simulazione di situazioni di emergenza per richiedere il soccorso in mare”. Le parole di Lamorgese facevano eco a un vecchio desiderio della Marina Militare Italiana.
Era il 23 Ottobre 2013, ed erano passati pochi giorni dai due devastanti naufragi che avevano ucciso quasi 600 persone, tra cui una settantina di bambini. In un incontro a porte chiuse presso la Direzione Nazionale Antimafia a Roma, svelato dalla testata americana The Intercept, il Capitano di Vascello Covino dello Stato maggiore della Marina chiedeva l’istituzione del reato di “SAR mascherato”, ossia una chiamata di emergenza effettuata “al solo fine di scaricare le responsabilità dello sbarco dei clandestini sullo stato rivierasco”. Un desiderio che a distanza di quasi dieci anni il governo Meloni potrebbe finalmente realizzare.
Immagine in anteprima: Hol and, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons