Misura di Inclusione Attiva: il governo Meloni modifica in peggio il Reddito di Cittadinanza
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Per anni il Reddito di Cittadinanza è stato al centro delle critiche, dalla politica fino ai giornali e alle discussioni in Rete. Non a caso, nel corso della campagna elettorale, tutti i partiti si sono detti favorevoli almeno a una riforma, se non a una cancellazione del provvedimento approvato dal governo Conte I, che vedeva Lega e M5S insieme. Con la vittoria della destra alle elezioni di settembre, è diventato subito chiaro che il provvedimento avesse i giorni contati. Infatti il Governo Meloni, dopo aver preso in considerazione la cancellazione già dal 2023, ha previsto un suo superamento per gli ultimi mesi di quest’anno.
In questi giorni, infatti, la ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Marina Elvira Calderone e la sua squadra di tecnici sta preparando la Misura di Inclusione Attiva (MIA), lo strumento che dovrebbe andare a sostituire il Reddito di Cittadinanza.
La storia del reddito minimo garantito in Italia
Questa non è la prima volta che si mette mano a misure di sostegno alla povertà in Italia. La storia del reddito minimo garantito nel nostro paese comincia addirittura negli anni ‘90, con il Reddito Minimo d’Inserimento voluto dall’allora governo di centrosinistra. In una prima fase nel biennio 1999-2000 era destinato a 39 comuni, esteso poi a 306 nei tre anni successivi. Il successivo governo guidato da Silvio Berlusconi smantella il Reddito Minimo d’Inserimento per varare un Reddito di Ultima Istanza che però non vedrà mai la luce. Si introducono però bonus più circoscritti per le famiglie meno abbienti.
Nel 2016 è la volta del Sostegno per l’Inclusione Attiva, con uno stanziamento di un miliardo di euro l’anno. Il trasferimento è destinato a famiglie in condizione di povertà in cui è presente o un membro minorenne o un membro disabile. Il beneficio però era vincolato a progetto personale di attivazione sociale e lavorativa: quindi corsi di formazione, ricerca attiva del lavoro, prevenzione e tutela della salute. Il provvedimento mirava quindi a superare la condizione d’indigenza dei destinatari.
Le risorse, però, non sono abbastanza. Quindi, anche per rincorrere i Cinque Stelle dal punto di vista elettorale, il governo di centrosinistra presieduto da Paolo Gentiloni vara il Reddito d’Inclusione (REI), con uno stanziamento di 3 miliardi all’anno. Pur avendo aumentato la soglia ISEE per rientrare nei criteri, anche il REI rappresentava uno strumento limitato per il contrasto alla povertà. Secondo i dati, infatti, l’importo massimo di trasferimento mensile per una singola persona era di 187 euro, 294 euro per coppia, 382 euro per tre persone, 461 euro per quattro persone: non abbastanza per una tutela dignitosa, anzi.
Per questo il governo Conte I l’ha sostituito con il Reddito di Cittadinanza, che aumenta sia la soglia ISEE sia l’importo mensile, arrivando a costare 8 miliardi all’anno. Ovviamente, proprio come le misure precedenti, il Reddito non si limita all’erogazione di un importo mensile, ma anche misure per le politiche attive sul lavoro. In particolare i centri per l’impiego pubblici, gestiti dalle regioni, in cui i consulenti, i famosi navigator, avrebbero aiutato a incrociare offerta e domanda di lavoro, trovando un impiego ai percettori del RdC.
Facendo leva sul clima riguardante il reddito di cittadinanza portato avanti nel dibattito pubblico, il governo Meloni ha deciso la sua archiviazione. Essendo entrato in carica negli ultimi mesi del 2022, l’idea di mandare in soffitta il RdC già dal 2023 è apparsa di difficile applicazione, preferendo una revisione per gli abili al lavoro, come avevamo spiegato al tempo della finanziaria, e una totale riforma in un primo tempo prevista per il 2024.
La proposta sul tavolo di Calderone, come prima cosa, riduce la spesa e restringe il bacino dei percettori diminuendo la soglia ISEE massima: secondo le simulazioni ci sarebbe un risparmio annuo di 2 miliardi con il passaggio da RdC a MIA. Il fulcro di questa proposta risiede nella distinzione tra occupabili e non occupabili. D’altronde, come mostrano i dati INPS, nel 2019 il 36.3% dei percettori del reddito di cittadinanza non poteva lavorare. Si tratta di quelle persone che hanno superato i 60 anni d’età, i minori di 18 e i disabili.
Per i Non Occupabili, il trasferimento dovrebbe essere (il condizionale è d’obbligo) intorno ai 500 euro, con un ulteriore trasferimento nel caso debbano pagare un affitto (che, ancora, non è quantificato). Per gli occupabili, invece, il trasferimento dovrebbe essere in media a 375 euro. I dati riguardanti il reddito di cittadinanza stimano come importo mensile senza canzone e mutuo un valore medio di 542 euro, per fare il confronto.
A cambiare è anche la durata del sussidio. Si parla di 12 mesi per gli occupabili con una proroga di 6 mesi, mentre per gli inoccupabili sarà di 18 mesi con uno stacco di un mese prima di fare nuovamente domanda.
La bozza sul tavolo della ministra valuta anche incentivi per le aziende che assumeranno i percettori della nuova misura. Nel caso di contratti a tempo indeterminato c’è un’esenzione dai contributi previdenziali fino a un massimo di 8 mila euro, mentre per i contratti a termine o stagionali il taglio dei contributi è del 50% e fino a 4mila euro. In caso di licenziamento, inoltre, il datore di lavoro dovrà restituire i soldi degli incentivi.
Ma erano davvero questi i problemi del Reddito di Cittadinanza?
La bozza sul tavolo della ministra Calderone sembra dettata soprattutto da esigenze politiche, ovvero ridurre la spesa sociale per indirizzarla verso proposte più vicine a quelle dell’elettorato della destra unita allo stigma nei confronti della misura.
Partiamo da una constatazione: non è possibile eliminare in toto il Reddito di Cittadinanza, nella misura in cui anche l’Europa raccomanda un forma di sostegno alla povertà come un reddito minimo garantito. Il nostro paese è stato uno degli ultimi a dotarsi di uno strumento simile. E nel contrasto alla povertà il reddito di cittadinanza voluto dal governo Conte I funzionava. Nel rapporto annuale dell’ISTAT del 2020 si legge infatti che, in assenza di misure come Reddito e pensione di cittadinanza, il numero di persone in stato di povertà assoluta sarebbe stato un milione in più, contribuendo anche a far scendere l’intensità della povertà, ovvero il cosiddetto poverty gap per come lo definisce l’OECD. Il nostro paese, d’altronde, è in testa alla classifica per quest'ultimo indicatore. Questo fa capire quanto fosse indispensabile una misura di questo tipo.
Veniamo appunto ai problemi. Il primo è meramente di calcolo: come mostrano i dati sono i single, non le famiglie, a essere avvantaggiati dal reddito di cittadinanza. Non sappiamo ancora, nel dettaglio, come la nuova riforma dello strumento voluta dal governo Meloni andrà a intervenire su questo punto.
Il secondo è, invece, quello più importante: le politiche attive del lavoro. Come spiegato in precedenza, il Reddito di Cittadinanza non riguardava soltanto un trasferimento monetario per contrastare la povertà, ma anche il tentativo di reinserire i beneficiari occupabili in un percorso lavorativo. Questo compito veniva affidato ai centri per l’impiego ma, anche per via di situazioni contingenti come la pandemia, non pare aver funzionato. Su una riforma delle politiche attive del lavoro c’era un accordo pressoché unanime tra le forze politiche. Anche il Movimento 5 Stelle, che ha fatto del Reddito di Cittadinanza uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale, si era dichiarato d’accordo nel suo programma elettorale.
La linea seguita dal nuovo governo pare invece diversa, sposando la tesi secondo cui il reddito di cittadinanza scoraggerebbe i beneficiari dalla ricerca di un lavoro e quindi porterebbe alla carenza di forza lavoro di cui lamentano le aziende. Non a caso la novità più importante riguarda, appunto, la distinzione tra occupabili e non occupabili. Per gli occupabili, infatti, vi è un brusco taglio del trasferimento, di poco meno di 200 euro.
Non abbiamo dati che stimino l’effetto del reddito di cittadinanza sull’offerta di lavoro. In maniera intuitiva si potrebbe pensare che, garantendo una fonte di reddito, i lavoratori sarebbero meno disposti ad accettare un impiego. Si innalzerebbe quello che è detto “salario di riserva”.
Tuttavia la questione non è così semplice. In primo luogo ci si può chiedere se ciò sia, davvero un male. Come abbondantemente spiegato, i salari in Italia sono già bassi. Misure come il Reddito di Cittadinanza contribuirebbero a modificare la composizione dell’occupazione, spingendo verso i buoni lavori.
Inoltre, il salario non è l’unico determinante per accettare un lavoro. Vi è una folta corrente di ricerca che studia gli effetti psicologici dell’occupazione. In uno studio svolto su dati tedeschi, ad esempio, i ricercatori hanno stimato che, quando verso la fine della carriera lavorativa si passa da disoccupati a occupati, si assiste a un aumento della soddisfazione personale. Il lavoro non sarebbe quindi solo una fonte di reddito, ma anche una componente fondamentale per l’identità dell’individuo e si deve tenere in considerazione questo aspetto.
C’è, infine, un ulteriore aspetto di criticità: come deve essere l’offerta di lavoro? Al tempo dell’approvazione, si era dibattuto aspramente sulla definizione di offerta di lavoro congrua, tra i criteri necessari per valutare o meno la revoca del reddito di cittadinanza. Su questo pare che il governo voglia agire soltanto con la leva degli incentivi, come abbiamo spiegato sopra, garantendo uno sconto contributivo più corposo alle aziende che offrono agli occupabili dei contratti a tempo indeterminato.
Diversa la strada seguita invece dalla Germania che ha recentemente riformato l’equivalente del reddito di cittadinanza tedesco: Hartz IV. Nato come provvedimento per contrastare la precarietà, si è rivelato tuttavia più utile agli imprenditori, che potevano impiegare i precettori del sussidio usando mini jobs (ovvero lavori per cui il salario non è oltre i 520 euro e dalla durata di settimane o mesi), abbattendo così i costi del lavoro.Per questo motivo il Governo Scholz, dopo varie limature, ha passato una riforma che garantisce la possibilità di beneficiare dell’aiuto economico fino a quando non si è inseriti in un percorso lavorativo stabile concordato con il centro per l’impiego.
Ci sarà da capire se gli incentivi alle assunzioni previsti dalla MIA saranno o meno efficaci nel raggiungere questo obiettivo. A questo però vanno aggiunte le differenze regionali: il RDC oggi va perlopiù al Sud, dove il lavoro molto spesso non c’è. Oltre alla povertà, infatti, il problema è anche l’occupazione: nonostante i numeri di questi ultimi mesi, il tasso di disoccupazione rimane saldamente tra i più alti d’Europa.
La bozza del governo Meloni, secondo gli economisti Cristiano Gori e Massimo Baldini, presenta due ulteriori problematiche. La prima riguarda proprio la distinzione tra occupabili e non occupabili. Poiché l’occupabilità è definita solo in base alla presenza o meno di disabili, minorenni o per soglie d’età, si rischia di inserire in questa categoria anche persone che non lo sono neanche lontanamente e che non riuscirebbero, in alcun modo, a inserirsi nel mercato del lavoro.
C’è poi l’abbassamento della soglia ISEE. Aver abbassato la soglia, secondo gli esperti, contribuisce a tagliar fuori i cittadini poveri del nord che presentano un ISEE più alto a fronte però di un costo della vita più elevato.
Il governo quindi, sospinto più da motivi politici che altro, si appresta a un peggioramento del reddito di cittadinanza. Non c'erano grandi aspettative su quanto fosse “sociale” la destra di Meloni. A fronte di una spesa non troppo dissimile, la MIA peggiorerà la situazione di migliaia di persone senza aver effetti positivi. Se non, forse, quello di garantire manodopera a basso costo alle imprese, ammesso che sia un bene.