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Non ci sono i soldi: la manovra di Meloni si scontra con la realtà

22 Ottobre 2024 14 min lettura

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Non ci sono i soldi: la manovra di Meloni si scontra con la realtà

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Martedì 15 ottobre il Consiglio dei Ministri si è riunito per il Disegno di Legge di Bilancio del 2025 e il relativo Documento Programmatico di Bilancio, inviato al Parlamento e alla Commissione Europea. Il giorno successivo il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e il sottosegretario Maurizio Leo hanno presentato alcune delle misure in una conferenza stampa congiunta. Come si legge nel comunicato stampa della Presidenza del Consiglio:  

Il disegno di legge di bilancio, in linea con l’approccio serio e responsabile dei provvedimenti economici approvati finora dal Governo, dispone interventi con effetti pari, in termini lordi, a circa 30 miliardi nel 2025, più di 35 miliardi nel 2026 e oltre 40 miliardi nel 2027.

Il governo ha inoltre sottolineato che, a causa dell’incertezza macroeconomica, di nuove regole europee sul debito e delle possibili ripercussioni del conflitto in Medio Oriente e dell’invasione russa dell’Ucraina, la manovra si concentra su una riduzione della pressione fiscale sulle fasce più deboli e sulla classe media, oltre a incentiva alla natalità. 

Se l’approccio prudente del governo non è di per sé problematico, una prospettiva di più ampio respiro restituisce tuttavia un quadro ben poco ottimista. La manovra, infatti, concentra le risorse su provvedimenti che nel corso degli anni  si sono dimostrati scarsamente efficaci, se non addirittura dannosi. Inoltre, se è vero che la situazione del nostro paese sul fronte delle finanze non è da imputare completamente al governo Meloni, l’esecutivo in carica non può di certo nascondere le proprie responsabilità. 

Il contesto di partenza

 La Legge di Bilancio arriva in un contesto mutato per le regole europee su debito e deficit, il cosiddetto Patto di Stabilità. Questo era stato sospeso durante gli anni della pandemia. Se da una parte le regole stringenti sulla spesa non permettevano agli Stati di mobilitare le risorse necessarie per fronteggiare la crisi economica indotta dalla diffusione del SARS-CoV-2, dall’altra non si può negare l’inadeguatezza delle regole precedenti, come sottolineato anche da vari economisti.  

Così, negli ultimi anni, la Commissione ha lavorato a una revisione del Patto di Stabilità. Ciò che veniva criticato al precedente impianto era una visione pro-ciclica, che non lasciava abbastanza spazio fiscale agli Stati per intervenire nell’economia, facendo leva sul debito, in caso di recessioni. La Commissione Europea aveva proposto una riforma del Patto di Stabilità nell’aprile del 2023 che è stata poi modificata dal Consiglio dell’Unione Europea.  

A prevalere, dopo lunghi negoziati, fu un inasprimento delle regole volute dalla Commissione, grazie alla pressione fatta dai paesi frugali. Se la proposta della Commissione prevedeva dei piani tagliati appositamente per i paesi più indebitati, le richieste dei frugali che sono state accolte riguardano i parametri di riduzione del debito, che quindi restano anche se indeboliti rispetto alla versione pre-riforma. 

Al Consiglio Economia e Finanza il ministro Giorgetti non pose il veto sulla riforma del Patto di Stabilità. E quando questa arrivò al Parlamento Europeo per essere approvata, tutti i partiti italiani si astennero al di fuori del Movimento 5 Stelle, che votò contro. 

Il nostro paese ha un debito molto elevato che richiede, per le regole Europee, un rientro graduale. Ciò pone delle condizioni stringenti sul deficit, ovvero sulla spesa a debito. I governi si ritrovano così le mani legate, poiché non sono più finanziare gli interventi principali di una manovra emettendo debito, come fatto l’anno scorso dal Governo Meloni.

Questo emerge anche dal Piano Strutturale di Bilancio, un nuovo documento inviato dal MEF alla Commissione Europea per dare una prospettiva su cinque anni dell’economia italiana. Nei prossimi anni il governo italiano comincerà una fase di normalizzazione delle finanze pubbliche, che vedrà il deficit calare dal 3,8 per cento del 2024 all’1,8 per cento del 2029. Ad aumentare sarà anche il cosiddetto avanzo primario, cioè la differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi, che tornerà in positivo dopo anni, e andrà crescendo dal 2024 al 2029. Numeri meno positivi arrivano però dalla crescita del PIL, che sfiorerà raramente l’uno per cento, mostrando ancora una volta i problemi del nostro paese nell’uscire da una dinamica fiacca della crescita. 

Il ritorno del Patto di Stabilità con margini di flessibilità limitati, però, è dovuto anche all’atteggiamento isolazionista del governo Meloni in Europa. Durante le trattative sulla riforma del Patto di Stabilità c’erano infatti paesi come Francia e Spagna che chiedevano un approccio meno rigorista. L’Italia ha invece preferito giocare una partita in solitaria, astenendosi.  

Inoltre, già durante la passata Legge di Bilancio il governo Meloni non aveva sfruttato la situazione favorevole per ridurre il debito. Con un’elevata inflazione, infatti, c’era la possibilità di una riduzione più considerevole. In tale contesto, il debito pubblico tende a ridursi più facilmente rispetto al PIL, poiché l'inflazione aumenta il valore nominale del PIL, riducendo così il rapporto debito/PIL. Questo effetto è chiamato “snowball”, e rappresenta una finestra di opportunità per ridurre il debito pubblico in modo meno doloroso per l'economia. Il governo, a quel tempo, decise invece di fare leva comunque sull’indebitamento, arrivando a una manovra fortemente espansiva, che non ha aiutato la traiettoria del debito pubblico.  

Cuneo fiscale e scaglioni IRPEF: sono davvero la soluzione? 

Veniamo quindi ai due interventi principali della nuova Legge di Bilancio. A tutti gli effetti, si tratta di confermare - ampliando in certi casi e modificando in altri - i provvedimenti cardine che hanno contraddistinto le manovre del governo Meloni in questi anni.  

Il primo è il taglio del cuneo fiscale per chi guadagna fino a 35 mila euro, nonostante Giorgetti abbia dichiarato in conferenza stampa che l’obiettivo è alzare questa soglia a 40 mila. Il governo sembra intenzionato a modificare la struttura del taglio. In precedenza infatti aveva fatto leva su un taglio dei contributi a carico del lavoratore, con uno sconto del 7 per cento fino a 25 mila euro e del 6 per cento fino ai 35 mila. Quest’anno fino a 20 mila euro continuerà lo sconto sui contributi, mentre al di sopra ci sarà un aumento  delle detrazioni per lavoro dipendente fino a 35 mila euro, che potrebbero diventare 40 in base al ricavato del concordato preventivo e di altre misure.  

Per comprendere meglio i benefici e allo stesso tempo le perplessità del  provvedimento è utile fare un confronto con altri paesi.  A tale scopo, prendiamo l'indicatore fornito dall’OECD, che prende in considerazione il rapporto tra l'ammontare delle tasse pagate da un lavoratore medio single senza figli e il corrispondente costo totale per il datore di lavoro. Analizzando questo indice, l’Italia presenta un valore particolarmente elevato, tuttavia più basso rispetto a Francia e Germania, ovvero due paesi europei che hanno un sistema di welfare simile al nostro.  

Questo è infatti un punto importante da sottolineare: l’imposta sul reddito e i contributi a carico del datore di lavoro e del lavoratore vanno ad aumentare il gettito, quindi a finanziare ambiti come sanità, istruzione, infrastrutture. Non è un caso se i paesi con un cuneo fiscale nettamente inferiore a quello italiano - gli Stati Uniti sono un esempio paradigmatico - abbiano un welfare completamente diverso rispetto a quello europeo. Quando si discute di taglio del cuneo fiscale bisogna quindi valutare i possibili effetti: tra i positivi troviamo il rilancio dei consumi e della domanda, in quanto il taglio va ad aumentare lo stipendio netto percepito dal lavoratore o dalla lavoratrice, tra i negativi c’è il costo per il bilancio dello Stato.

Proprio quest’ultimo aspetto è la criticità più contingente. Nella precedente Legge di Bilancio, il taglio del cuneo fiscale veniva finanziato a deficit, cosa oggi impossibile viste le regole europee. Il governo Meloni dovrà quindi impegnarsi a trovare le coperture per rendere strutturale questo provvedimento, senza però avere effetti negativi sulla crescita. Di per sé, infatti, il provvedimento sembra non aver avuto effetti considerevoli: secondo le stime delle simulazioni dell’ISTAT, a livello strutturale (quindi tagliando altre spese) avrebbe impatti negativi sul PIL.  

Ci sono rischi anche sulla leva utilizzata dal governo per i redditi inferiori ai 20 mila euro, quella contributiva. Secondo Sergio Nicoletti Altimari di Banca d’Italia, ascoltato durante l’audizione preliminare all’esame del Documento di Economia e Finanza 2024, se si rendessero strutturali misure come il taglio contributivo “verrebbe meno a livello aggregato l’equilibrio tra entrate contributive e uscite per prestazioni che, nel medio periodo, caratterizza il nostro sistema previdenziale e ne rappresenta un punto di forza”.  

Quando lo Stato riduce il cuneo fiscale attraverso la leva contributiva, diminuiscono i versamenti dei lavoratori agli enti previdenziali come INPS e INAIL. Questo comporta una riduzione delle entrate per questi enti, che devono comunque garantire le prestazioni previdenziali. Per compensare la perdita, lo Stato deve trasferire risorse a questi enti. Potrebbe però derivarne uno squilibrio tra quanto un lavoratore versa durante la carriera e quanto riceve in pensione. Si perde quindi l’equilibrio di cui parla Banca d’Italia, con le entrate che non corrispondono più alle uscite necessarie. 

La seconda critica è per l’appunto di natura strutturale. I salari reali (cioè quelli misurati in base all’inflazione) sono calati in questi anni. Il loro tracollo si innesta però su una dinamica stazionaria. Da 30 anni a questa parte, rispetto agli altri paesi, gli stipendi degli italiani crescono pochissimo, al netto dell’inflazione. Si tratta di un problema che il governo Meloni però sembra voler gestire soltanto con strumenti discutibili. 

Con manovre come il taglio del cuneo fiscale, il governo punta ad aumentare gli stipendi netti, senza tener conto di quelli lordi. L’alternativa, infatti, sarebbe un piano d’azione di ampio respiro che intervenga sul tessuto economico del paese. Uno strumento per farlo è il salario minimo. Un provvedimento che porrebbe un limite agli stipendi bassi, su cui le imprese fanno profitto invece di investire in innovazione e formazione del capitale umano. Il punto, ancora una volta, è creare attraverso regole e investimenti un sistema economico in cui i profitti delle aziende sono legati all’efficienza produttiva. Sotto questo governo, non si è ancora assistito ad alcuna proposta in merito; abbiamo invece avuto una narrazione sul turismo come traino della crescita, che però non corrisponde alla realtà. 

Il secondo pilastro della Legge di Bilancio è la riforma degli scaglioni IRPEF. Come per l’anno scorso, avremo tre aliquote. Dopo una no tax area che arriva a 8,500 euro, fino alla soglia di 28 mila euro, l’aliquota applicata sarà del 23 per cento; dai 28 mila ai 50 mila sarà invece del 35 per cento; sulla parte di reddito eccedente i 50 mila euro sarà invece applicata un’aliquota al 43 per cento.  

Il primo problema risiede nel differenziale tra le varie aliquote. Aliquote troppo distanti potrebbero infatti disincentivare aumenti salariali. I lavoratori sulla soglia, infatti, vedrebbero da una parte il loro stipendio lordo aumentare, ma questo aumento sarebbe ridimensionato perché passando da uno scaglione all’altro vedrebbe aumentare la tassazione. 

La caratteristica principale dell’IRPEF risiede proprio nella progressività, che avrebbe permesso una maggior tassazione delle fasce più abbienti e finanziato il Welfare State. Ma nel corso degli anni l’imposta, che nelle intenzioni originarie avrebbe dovuto inglobare tutte le forme di reddito, è diventata sempre di più un’imposta speciale su lavoratori dipendenti e pensionati, mentre vari redditi sono stati assoggettati a forme di tassazione piatta. 

Ciò ha comportato in parte vantaggi per le classi più abbienti della popolazione, pensiamo ad esempio alla rendita immobiliare o sulle plusvalenze. Allo stesso tempo, i regimi sostitutivi, come il regime forfettario, sono andati a impattare sull’evasione fiscale. Questo regime sostitutivo che si applica alle partite IVA permette una tassazione piatta sui ricavi fino a una soglia, che oggi è a 85 mila euro.  

Se questo ha permesso una crescita del contributo da parte delle partite IVA più piccole, quelle con ricavi intorno alla soglia sono incentivate a evadere per cercare di rientrare all’interno della fascia di applicazione. Ciò è confermato anche dal governo, che stimava un mancato gettito di un miliardo di euro quando, in precedenza, ha aumentato la soglia per l’applicazione del regime forfettario da 65 mila a 85 mila. Anche in questo caso, il governo Meloni, come già i suoi predecessori, non sembra intenzionato a intervenire sul tema.  

Un giudizio non entusiasta viene dall’analista per politiche fiscali dell’Oxfam Misha Maslennikov, che a Valigia Blu ha dichiarato:  

L’accorpamento delle aliquote IRPEF più basse che il Governo Meloni intende rendere strutturale dal 2025 è, con le parole del Prof. Alessandro Santoro, puro maquillage. Ha effetti medi e macroeconomici trascurabili e non risolverà i problemi di equità ed efficienza che contraddistinguono da tempo la più importante imposta del nostro sistema fiscale. Il tema centrale per l’IRPEF non attiene alla questione delle aliquote, ma alla sua base imponibile che necessiterebbe di un ampliamento. A partire dal riassorbimento della cedolare secca che ha costi significativi per l’erario e favorisce la grande proprietà immobiliare e del regime forfetario pur con una potenziale previsione di tutele per i piccoli lavoratori autonomi. Interventi che aiuterebbero a riportare il sistema impositivo nel solco del dettato costituzionale che appare violato tanto da recenti analisi empiriche quanto nella percezione della maggioranza dell’opinione pubblica italiana, indipendentemente dalle preferenze elettorali.

Banche, sanità e spending review 

Nella conferenza stampa, il ministro Giancarlo Giorgetti ha citato anche altri interventi che il governo ha intenzione di mettere in campo. Non sappiamo ancora i dettagli, ma quello più discusso è il cosiddetto “contributo volontario” delle banche che dovrebbe valere circa 3.5 miliardi di euro. Si tratta di una proposta da populismo all’acqua di rose. Come mostrano le rilevazioni di IPSOS, gli italiani non hanno fiducia negli istituti bancari. Probabilmente, questa sfiducia è più concentrata negli elettori di Fratelli d’Italia e Lega, che hanno una prospettiva politica più sociale rispetto a quelli di Forza Italia, che invece ha manifestato vari malumori riguardo la proposta.  

“Tassare le banche” appare quindi un ottimo strumento se si vuole fare campagna elettorale. Ma quanto ha promesso il governo Meloni, come scritto da Andrea Roventini, rappresenta una semplice partita a giro, più che un sacrificio. Non ci sono aumenti di imposte o correttivi, non c’è una strategia dietro. Alle banche si chiede soltanto liquidità per finanziare gli interventi del governo, il tutto con l’accordo delle banche e la delusione di molti ministri. Sui dettagli più tecnici bisognerà, appunto, attendere. 

L’aspetto positivo riguarda la destinazione delle risorse. Il gettito andrà infatti a finanziare la sanità, unico ministero non interessato dai tagli lineari oltre alla difesa.  

Su questo fronte, si è di nuovo aperta una questione rispetto alle dichiarazioni della Presidente del Consiglio. Meloni infatti vanta il record del finanziamento al Fondo Sanitario Nazionale, le associazioni di categoria come ANAAO-ASSOMED ritengono invece che gli sforzi non siano abbastanza per riportare i fondi alla sanità al livello degli altri paesi europei.  

Su Pagella Politica, Carlo Canepa offre una panoramica su questo tema. Il record vantato da Meloni è infatti sul finanziamento nominale: la quantità di euro destinati al Fondo Sanitario Nazionale è la più alta di sempre.  

Su questo, la Presidente del Consiglio ha sostanzialmente ragione. Tuttavia, il valore nominale non è un buon indicatore del finanziamento al Sistema Sanitario. Un indicatore più accurato è la spesa sanitaria in rapporto al PIL: questo permette di comprendere quanto uno stato stanzia per la sanità in base al suo livello di ricchezza. Come confermato anche dal Ministro dell’Economia Giorgetti, la spesa sanitaria rispetto al PIL rimane invariata. Non c’è quindi alcun record del governo Meloni. 

Questo però rischia di rendere il dibattito sul Sistema Sanitario Nazionale estremamente superficiale. Gli indicatori restituiscono un quadro che spesso non coglie problemi più specifici, come il calo dei medici di base e le problematiche nel reperire infermieri. 

Infine c’è il tema degli incentivi alla natalità, ormai un leitmotiv di ogni governo. Si legge nel comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri: 

Sono confermate e potenziate le misure sui congedi parentali. Introdotta anche una “Carta per i nuovi nati” che riconosce 1.000 euro ai genitori con ISEE entro i 40 mila euro. La manovra rafforza il bonus destinato a supportare la frequenza di asili nido, anche prevedendo l’esclusione delle somme relative all’assegno unico universale dal computo dell’ISEE. Tra le misure di carattere sociale, si rifinanzia per il 2025 la carta “dedicata a te”, nella misura di 500 milioni. Nel computo delle detrazioni si terrà conto del numero dei familiari a carico: più numerosi sono i componenti della famiglia, maggiori sono gli spazi per le detrazioni fiscali.

Sugli asili nido, più che bonus, il governo dovrebbe risolvere le disparità di offerta presenti nel paese. Le zone più ricche e centrali del Nord presentano un’offerta che in certi casi si attesta sugli obiettivi europei o almeno su quelli nazionali. Nel mentre però il mezzogiorno e le aree interne corrono a una diversa velocità. Questo va a creare una spirale negativa che fa sì che queste zone siano ancora più a rischio spopolamento, vista la mancanza di servizi essenziali. Gli aiuti alle famiglie, per quanto condivisibili, difficilmente avranno effetti sul declino demografico che attraversa il nostro paese da anni.  

Una manovra immobile che non guarda al futuro

Il quadro che dovrebbe emergere è quello di una manovra con poche risorse concentrate su interventi che hanno più il sapore di tamponare una situazione critica che non cercare di risolverla, con tutti i limiti e i possibili errori. 

Il giudizio sul governo Meloni dal punto di vista economico, d’altronde, è influenzato dall’ultima volta che una coalizione di destra andò alla guida del paese, portandolo sull’orlo della bancarotta. E infatti sarà estremamente complicato per l’opposizione attaccarsi ai provvedimenti del governo, visto il livello di tecnicità dei problemi.  

Ma il vincolo delle risorse, vista la situazione delicata dei conti pubblici, nasconde in realtà un vincolo politico della destra di governo: quello di non reperire risorse attaccando la rendita e le fasce più ricche della popolazione.  

Queste risorse, infatti, potrebbero venire da un aumento della tassazione sulla rendita e sulle fasce più abbienti- ad esempio con una forma di patrimoniale ben congeniata per evitare fughe di capitali, come raccomanda l’OECD - e da una razionalizzazione dei sussidi alle imprese, che valgono 55 miliardi. E, come già anticipato, da una riforma IRPEF di maggior respiro. D’altronde già oggi il nostro sistema fiscale è debolmente progressivo e arriva ad essere regressivo per le fasce più abbienti della popolazione.  

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Reperendo maggiori risorse, assieme ovviamente all’aspetto della regolamentazione, si dovrebbe quindi intervenire sul problema principale del nostro paese, quello della produttività. Per esempio,  con un maggior finanziamento dell’istruzione che è al di sotto della media europea, tenendo conto dei problemi di mismatch tra offerta e domanda nel mercato del lavoro o investimenti mirati di politica industriale, entro le regole europee.  

Questi interventi che guardando al futuro del paese sono completamente assenti nelle mosse del governo, più interessato a non scontentare nessuno che a intervenire, in maniera sistemica, per cambiare l’aspetto di un paese che ha smesso di crescere trent’anni fa.

Immagine in anteprima: frame video Palazzo Chigi via YouTube

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