Liste d’attesa, carenza di personale e divari tra Regioni: la sanità dimenticata dalla Legge di Bilancio
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In occasione del secondo anniversario dell’insediamento del suo governo, lo scorso ottobre la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha affermato che il suo esecutivo ha “destinato alla sanità un livello di risorse che mai nessun governo aveva destinato in precedenza” e sono state promesse “più risorse per ricostruire la sanità”. Nonostante ciò, però, la legge di bilancio 2025 ha ampiamente scontentato il mondo medico e sanitario, che ha parlato di interventi e finanziamenti insufficienti. “È un eufemismo definire deludenti le misure previste dalla legge di bilancio per la sanità”, hanno dichiarato ad esempio i sindacati dei medici ANAAO Assomed e CIMO-FESMED e quello della categoria infermieristica Nursing Up, che a novembre 2024 avevano organizzato uno sciopero di 24 ore proprio contro gli scarsi investimenti previsti per il settore e perché “stufi di proclami” che non vengono poi seguiti da azioni concrete.
Di cosa parliamo in questo articolo:
La legge di bilancio e le risorse per la sanità
Con la legge di bilancio 2025, il livello di finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard è incrementato di 1302 milioni di euro per il 2025, di .015,4 milioni di euro per il 2026, di 5734,4 milioni di euro per il 2027, di .605,7 milioni di euro per il 2028, di .667,7 milioni di euro per il 2029 e di .840,7 milioni di euro annui dal 2030. “Formalmente”, ha spiegato il Presidente della Fondazione GIMBE Nino Cartabellotta, “i fondi sono aumentati, ma in termini reali la situazione è peggiorata”.
Infatti, spiega Cartabellotta, “eccezion fatta per il 2026, gli incrementi percentuali del Fondo Sanitario Nazionale sono risibili”. Inoltre, per capire l’impatto reale di certi investimenti, più che guardare ai numeri in termini assoluti, è più utile considerarli in rapporto al PIL: “Il Fondo Sanitario Nazionale scenderà dal 6,12% del 2024 al 5,7% nel 2029”, ha detto Cartabellotta e “questo significa che, nonostante gli aumenti nominali, le risorse reali a disposizione non tengono il passo con i bisogni crescenti del Sistema Sanitario Nazionale”. Come già sottolineato anche dalla Corte dei Conti nell’audizione sul disegno di legge, le risorse messe a disposizione per la sanità appaiono dunque piuttosto limitate, ma c’è anche un problema di distribuzione delle stesse su “numerosi interventi di dimensione contenuta” oltre che di un approccio poco chiaro o troppo blando sui problemi più urgenti del sistema sanitario.
Le condizioni lavorative del personale sanitario
“Le risorse stanziate sono inferiori rispetto a quelle che erano state annunciate e ci sono diversi temi che restano irrisolti”, ha detto a Valigia Blu Carmelo Petraglia, professore di economia politica presso l’Università degli Studi della Basilicata UNIBAS. “L’impressione è che nessuno dei grandi temi che interessano la sanità pubblica sia stato attenzionato in maniera prioritaria”. Tra questi, vi è sicuramente la questione delle condizioni lavorative del personale sanitario, un tema centrale anche dello sciopero che si è tenuto a novembre: “L’annuncio dell’ingresso straordinario di nuovo personale medico non credo possa essere sostenuto in termini di risorse”, ha detto Petraglia. Il ministro della Salute Orazio Schillaci aveva infatti parlato di un piano triennale di assunzioni per medici e infermieri, ma in manovra manca una programmazione specifica al riguardo e ciò che si legge è che si estende al 2027 la possibilità di assumere medici specializzandi con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato con orario a tempo parziale.
La mancanza di programmazione è uno degli aspetti più criticati dal mondo sanitario, soprattutto in relazione alla gestione del personale. Quando si parla infatti di carenza di professionisti sanitari in Italia, non si fa riferimento a una generica mancanza di medici a cui rispondere con una semplicistica abolizione del numero chiuso al corso di laurea di Medicina e Chirurgia, spiegano i sindacati, ma piuttosto a un problema che richiede un approccio sistemico. La carenza riguarda infatti soprattutto gli infermieri, il cui numero è al di sotto della media europea, e i medici in aree interne, in contesti complessi e in alcune specializzazioni specifiche, in particolare in medicina di emergenza e urgenza. Le ragioni sono da ricondurre a condizioni lavorative precarie, all’elevata responsabilità in molti casi senza garanzie e tutele e ai bassi salari. Fattori che rendono certi percorsi professionali non competitivi rispetto ad altri, anche in confronto alle condizioni lavorative nel settore privato e all’estero.
La risposta del governo è stata quella di introdurre una flat tax al 5% per gli straordinari degli infermieri e di incrementare le indennità: per dirigenza medica e veterinaria si parla di un aumento di circa 17€ al mese nel 2025 e di 115€ dal 2026; per gli operatori sanitari di 7€ al mese nel 2025 e di 80€ dal 2026. “Aumenti davvero irrisori”, è come li ha definiti Petraglia. Le indennità sono state incrementate anche per gli operatori del pronto soccorso: secondo la Corte dei Conti, questo tipo di iniziative, come anche il “limitato incremento del trattamento economico” previsto per gli specializzandi, “non sembrano tuttavia aver finora consentito di riorientare le scelte degli operatori sanitari”.
Nonostante i proclami, poi, non è stato abolito il tetto di spesa per il personale sanitario che da circa vent’anni pone un limite alle assunzioni. Con il decreto sulle liste di attesa di giugno 2024, il tetto era stato aumentato e il ministro Schillaci aveva presentato questo provvedimento come un’importante misura di potenziamento del sistema sanitario, promettendo inoltre una sua abolizione dall’1 gennaio 2025. Non solo però la sua abrogazione è ancora rimandata, ma il suo stesso aumento di giugno non può essere considerato un’iniziativa del governo, dal momento che era già previsto dalla normativa. Inoltre, l’incremento è stato molto più contenuto di ciò che si è lasciato intendere. Come ha spiegato a Valigia Blu Rosella Levaggi, professoressa di economia pubblica all’Università di Brescia ed esperta di economia sanitaria, il tetto alla spesa “comporterà una riduzione del turnover, ma non necessariamente una riduzione della spesa sanitaria. La mancanza di personale in alcuni settori chiave come il Pronto Soccorso richiede agli ospedali di ricorrere ad altre figure professionali come i medici e gli infermieri a gettone”.
Le liste di attesa e i divari regionali
Per quanto riguarda invece il problema delle liste di attesa, il decreto di giugno che aveva come obiettivo proprio la loro riduzione è stato giudicato insufficiente e inadeguato soprattutto dal punto di vista delle risorse messe a disposizione. Nella legge di bilancio, si è scelto di puntare su un incremento dello 0,5% nel 2025 e dell’1% dal 2026 del limite di spesa per l’acquisto di prestazioni sanitarie da parte di soggetti privati accreditati: “C’è una sorta di rinuncia al settore pubblico nel risolvere questo problema delle liste di attesa, dal momento che ci si avvale di una maggior ricorso a soggetti erogatori privati”, ha commentato Petraglia.
Nella legge di bilancio, poi, “non ci sono misure che vanno nella direzione di aggredire in maniera diretta il tema dei divari tra Nord e Sud né in termini di accesso ai servizi di cura e prevenzione né di risorse”, ha spiegato Petraglia, che è anche Consigliere scientifico dell’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno SVIMEZ. “Il punto è che il sentiero è molto stretto. Buona parte delle risorse è stata destinata a rendere strutturali alcune misure principali, come la riduzione del cuneo fiscale”, ma anche il Ponte sullo stretto. “È stata sostanzialmente fatta una scelta: quella è la priorità e tutto il resto in qualche modo viene dopo”.
Secondo la professoressa Levaggi, è allora importante “chiedersi chi ci perde. L’offerta di prestazioni non è distribuita in modo uniforme sul territorio nazionale. I fondi sanitari integrativi non sono distribuiti uniformemente da Nord a Sud, non sono ugualmente distribuiti per reddito o per classi sociali. Quindi la vera domanda è: chi non riesce più a curarsi”. Rispetto al 2023, il tasso di povertà sanitaria lo scorso anno è cresciuto di oltre l’8%, con più di 460mila persone che hanno richiesto farmaci e cure gratuite perché non potevano permettersi di fare diversamente. Inoltre, tra il 2022 e il 2023, il 18% di coloro che avevano più di 65 anni ha rinunciato ad almeno una visita medica o un esame diagnostico a causa delle lunghe liste di attesa, delle difficoltà logistiche a raggiungere le strutture e dei costi eccessivi delle prestazioni sanitarie richieste. A dover rinunciare sono state soprattutto persone che vivono al Centro e al Sud Italia.
A questo proposito, la legge di bilancio ha previsto che 50 milioni dei fondi stanziati vengano vincolati all’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (LEA), cioè quelle prestazioni che il servizio sanitario nazionale fornisce a titolo gratuito o dietro pagamento di un ticket. I LEA erano stati aggiornati a fine novembre dopo anni di attesa e la lista delle prestazioni a carico dello Stato sarebbe dovuta entrare in vigore dal 30 dicembre 2024: molte strutture private convenzionate hanno però fatto ricorso, perché sostengono che i rimborsi previsti non siano sufficienti.
Un sistema sanitario più debole nella frammentazione
Le disparità nell’accesso alle cure rappresentano una delle tante conseguenze della frammentazione del Sistema Sanitario Nazionale; questo è vero a partire dalla gestione dei dati stessi, definita da un recente articolo sulla rivista scientifica The Lancet come “la principale debolezza del sistema sanitario in Italia”, e che potrebbe peggiorare con l'autonomia differenziata. Frammentazione che riguarda anche la ripartizione di risorse, come Petraglia evidenzia: “La sanità, che è un tema di competenza regionale, è un po’ la cartina di tornasole di come sia molto difficile conciliare la maggiore autonomia delle Regioni con il tema della riduzione delle disuguaglianze”. Oltre al sottofinanziamento, infatti, “con SVIMEZ abbiamo sottolineato anche il problema del criterio di riparto delle risorse nazionali che dovrebbe avvenire sulla base del fabbisogno di cure e non, come invece succede, sulla base della popolazione: questo sfavorisce le aree con un maggior fabbisogno di cure, soprattutto al Sud”.
La frammentazione regionale non solo causa ulteriori disuguaglianze, ma ha anche un impatto economico significativo: si stima infatti che fino al 20% della spesa sanitaria verrebbe intaccata da sprechi e inefficienze, tra cui un inadeguato coordinamento dell’assistenza, la mancata standardizzazione di procedure e una serie di inefficienze amministrative. “Non agire”, si legge su The Lancet, “aggraverà le disuguaglianze, ritarderà le cure e ostacolerà il progresso, mentre dare priorità alle riforme sistemiche offre all’Italia l’opportunità di soddisfare la domanda di assistenza sanitaria e di fornire cure eque ed efficienti”.
(Immagine in anteprima: frame via YouTube)