Come il governo Meloni utilizza il Fondo Italiano per il Clima per finanziare i progetti di ENI in Africa e il piano Mattei
|
Sembra preistoria ma nel 2015, all’epoca della COP21 e degli Accordi di Parigi, tra gli impegni fissati per mantenere l’aumento delle temperature entro 1,5 °C rispetto all’era pre-industriale c’era anche lo stanziamento di 100 miliardi di euro all'anno da parte degli Stati più ricchi verso i paesi del cosiddetto sud del mondo.
Si trattava, e si tratta, di un punto nodale della finanza per il clima. Come spiega ECCO, il think tank italiano per il clima, “il termine si applica alle risorse finanziarie dedicate ad affrontare i cambiamenti climatici da parte di tutti gli attori pubblici e privati dalla scala globale a locale, inclusi i flussi finanziari internazionali ai paesi in via di sviluppo per assisterli nell’affrontare i cambiamenti climatici”.
Per l’Italia il principale strumento pubblico per perseguire l’obiettivo degli Accordi di Parigi è il Fondo Italiano per il Clima: fino al 2026 avrà una dotazione complessiva pari a 4,4 miliardi di euro, oltre a 40 milioni di euro annui dal 2027 per contributi a fondo perduto e spese di gestione. Istituito col governo Draghi nel 2021, nel frattempo il Fondo Italiano per il Clima è diventato per il governo Meloni un mezzo di propaganda politica, dato che costituisce da solo più della metà di tutti gli investimenti relativi al Piano Mattei: dei 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, destinati alla cooperazione con l’Africa nel segno della sicurezza, circa 3 miliardi derivano da questo fondo. Solo ora, a distanza di nove anni dalla promessa stabilita a livello internazionale, si scopre che l’Italia intende perseguire il sostegno ai paesi più colpiti dagli effetti della crisi climatica affidandosi alla sua più grande e importante azienda fossile.
Il primo contributo ufficialmente stanziato del Fondo Italiano per il Clima, esattamente 75 milioni di euro, andrà a finanziare la filiera di ENI sui biocarburanti in Africa. D’accordo che il Piano Mattei prende il nome dal fondatore dell’ENI ma che debba essere lo Stato a finanziare i progetti industriali dell’azienda energetica lascia perplessi. Soprattutto se tali progetti riguardano i biocarburanti, il cui ruolo rispetto alla decarbonizzazione è molto discusso. A prendere la decisione è stato il comitato direttivo del Fondo Italiano per il Clima nella riunione del 22 marzo 2024, il cui verbale è stato reso pubblico soltanto nella giornata del 16 maggio. Nel verbale del comitato che approva il finanziamento delle singole operazioni - dopo che il comitato strategico ha delineato gli obiettivi del fondo - si legge solamente che il finanziamento andrà a “ENI Kenya BV o altra società controllata direttamente o indirettamente da ENI spa - che resta comunque garante per l’intero importo del finanziamento - per la produzione di biocarburanti”.
Il giorno dopo, il 17 maggio, il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) ha diffuso una nota ben più ampia e trionfante che annuncia altri 135 milioni di dollari da parte della International Finance Corporation (IFC) “per espandere la produzione e la lavorazione di biocarburanti avanzati, sostenendo la decarbonizzazione del sistema globale dei trasporti e garantendo al tempo stesso il sostentamento di fino a 200.000 piccoli coltivatori di oleaginose keniani”.
Quello di ENI è il primo progetto finanziato ufficialmente dal Fondo Italiano per il Clima, istituito con la Legge di Bilancio 2022 e che intende supportare, scrive il MASE, “progetti di contrasto al cambiamento climatico nei paesi destinatari di aiuti pubblici allo sviluppo identificati dal Comitato di Aiuto allo Sviluppo dell'OCSE (DAC). Saranno selezionati in via prioritaria progetti in grado di ridurre le emissioni di gas serra (mitigazione) e di migliorare la capacità di assorbimento degli impatti dei cambiamenti climatici (adattamento). Saranno valutati anche progetti di tutela della biodiversità e di contrasto alla desertificazione. I settori d’intervento sono, tra gli altri: agricoltura, energia, trasporti e infrastrutture idriche”.
Una scelta che rafforza il posizionamento di ENI in un settore strategico anche per il governo Meloni, che punta attraverso i carburanti che derivano da biomassa - che siano di origine organica, vegetale o animale - a mantenere l’attuale assetto automobilistico basato prevalentemente sui motori a combustione termica - benzina, diesel, metano, gpl. Col nuovo assetto istituzionale dell’Unione Europea che verrà a delinearsi dopo le elezioni di giugno, l’obiettivo dichiarato del Governo è riuscire a inserire i biocarburanti nelle deroghe dello stop alla produzione di auto con i motori termici a partire dal 2035, sulla scia della deroga ottenuta già dalla Germania sugli e-fuels.
Di cosa parliamo in questo articolo:
I toni trionfalistici sui biocarburanti del Governo dopo il G7 Ambiente e Clima di Torino
A volte un comunicato stampa dice più di ciò che riporta. In quello del MASE del 16 maggio, in cui si annuncia la volontà di voler sostenere la produzione di biocarburanti e gli agricoltori in Kenya, a prevalere è il trionfalismo:
L’investimento consiste in 135 milioni di dollari da parte di IFC e 75 milioni di dollari mobilitati dal Fondo italiano per il clima, come parte dell’attuazione del Piano Mattei del governo italiano in Kenya. Ciò consentirà a ENI di aumentare sia la produzione di materie prime avanzate per biocarburanti (agrifeedstock) coltivate in Kenya sia la capacità di lavorazione attraverso la costruzione di nuovi impianti di spremitura. Si prevede che la produzione di semi oleaginosi, che è la materia prima primaria, aumenterà da 44.000 tonnellate a 500.000 tonnellate all'anno. Il progetto lavorerà anche con gli agricoltori, fornendo input, meccanizzazione, logistica, certificazione e formazione per aiutarli a produrre semi oleaginosi, che vengono coltivati su terreni degradati non adatti alla produzione alimentare e/o coltivati in rotazione con colture alimentari, contribuendo a migliorare la fertilità del suolo. L’accordo è stato annunciato all’Africa CEO Forum 2024 in corso a Kigali, in Ruanda.
Un trionfo annunciato? Certamente un risultato atteso, specie dopo il recente esito del G7 Ambiente e Clima, che si è tenuto a Torino lo scorso 29 e 30 aprile. In cui, come dichiarato dal ministro Fratin a Repubblica, la presenza dei biocarburanti nel testo finale è “un nostro successo”. In realtà se si legge l’intero documento finale del G7 Ambiente e Clima di Torino - lungo 35 pagine – si nota che la parola “biocarburanti” compare appena tre volte. La citazione più importante riguarda la “dichiarazione congiunta di Torino sui biocarburanti sostenibili indirizzata ai ministri del G7 dagli stakeholder settoriali dei biocarburanti”. Dichiarazione che era giunta nell’ambito delle iniziative legate alla Planet Week che hanno accompagnato il G7. In particolare il 28 aprile si è tenuto a Torino il “Forum internazionale sui biocarburanti sostenibili”, promosso proprio dal ministero dell’Ambiente. L’evento ha visto il coinvolgimento dei ministri dei Paesi membri del G7 e della presidenza brasiliana del G20 (il Brasile è uno dei maggiori produttori mondiali di biocarburanti) nonché dei principali stakeholder pubblici e privati attivi nel settore dei biocarburanti. Ed è lì che è stata redatta la “dichiarazione congiunta”, coordinata dal Clean Energy Biofuture Campaign e dal Politecnico di Torino.
Come fa notare il sito EconomiaCircolare.com:
Delle sette pagine del documento ben quattro sono dedicate solo alle adesioni, e le più numerosi sono quelle italiane: Assitol, Assobiodiesel, Assocostieri, Coldiretti, Consorzio Italiano Biogas, ENEA, EniLive, RSE, Iveco. Nella lettera si chiede di “riconoscere il contributo che i biocarburanti sostenibili possono apportare come parte di soluzioni sistematiche per de-fossilizzare il trasporto aereo, marittimo e stradale, generando al contempo coprodotti nel settore della bioeconomia e dell’economia circolare, recuperando rifiuti e utilizzando residui”, sposando dunque la tesi che i biocarburanti debbano essere impiegati anche le auto e non solo per i trasporti pesanti, notoriamente difficili da elettrificare.
Anche la stessa Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha modificato in parte le proprie valutazioni sui biocarburanti. Se nel 2022 l’organizzazione intergovernativa, nata nel 1974 in seguito allo shock petrolifero e poi diventata punto di riferimento nell’analisi delle politiche energetiche dei Paesi membri, nel suo annuale World Energy Outlook faceva prevalere sui biocarburanti più i dubbi che le certezze, focalizzandosi sui prezzi alti e su una possibile crisi di approvvigionamento delle materie prime, nel 2023 la prospettiva è cambiata. E di molto. Sia nello scenario Net Zero (emissioni zero nette al 2050) che in quello APS (lo scenario degli impegni annunciati, dando per buoni gli annunci degli Stati), si prevede un notevole incremento dell’utilizzo di biocarburanti in tutto il mondo:
La domanda di biocarburanti è destinata ad espandersi di 38 miliardi di litri nel 2023-2028, con un aumento di quasi il 30% rispetto agli ultimi cinque anni (...) Sia i biocarburanti che l’elettricità rinnovabile contribuiscono a raggiungere gli obiettivi delle politiche di trasporto interno come gli standard a basso tenore di carbonio negli Stati Uniti e la direttiva RED nell’Unione europea. Storicamente i biocarburanti hanno ridotto di più la domanda di petrolio, ma durante il periodo di previsione i veicoli elettrici rivendicano una quota maggiore di riduzioni nel segmento della benzina. Tuttavia i biocarburanti continuano ad essere l’opzione dominante per ridurre la domanda di petrolio nei segmenti del gasolio e del carburante per aerei.
Smentendo in parte le dichiarazioni degli anni precedenti, ora per la IEA “i veicoli elettrici e i biocarburanti si stanno rivelando una potente combinazione per ridurre la domanda di petrolio”. Un notevole assist per chi da anni ha deciso di investire sul settore.
Biocarburanti a sei zampe
ENI è già oggi il secondo produttore di biocarburanti in Europa. Nel 2023 la capacità di bioraffinazione ha raggiunto 1,65 milioni di tonnellate di biocarburanti, grazie alle bioraffinerie di Porto Marghera e Gela e alla cogestione di una bioraffineria negli Usa. Entro il 2026 si prevede l’avvio e il completamento della conversione in bioraffineria dello stabilimento di Livorno, e pare che all’orizzonte ci sia anche la riconversione della raffineria di Sannazzaro (indiscrezione parzialmente confermata da ENI all’assemblea degli azionisti). Inoltre sono in fase di studio e sviluppo nuove bioraffinerie in Malesia e Corea del Sud. Insomma: il business per il cane a sei zampe è in forte ascesa. L’obiettivo è di arrivare a una capacità di produzione annuale di 3 milioni di tonnellate nel 2025 e di 5 milioni nel 2030.
A gestire tutta la filiera dei biocarburanti è Enilive, l’ultima consociata di ENI in ordine di tempo, nata da una costola di Plenitude, che di recente ha fatto parlare di sé per l’annuncio della sponsorizzazione della serie A di calcio maschile per i prossimi tre anni. Secondo quanto riportato dall’agenzia ANSA, l’accordo tra ENI e la Lega di serie A comporterà un esborso da parte dell’azienda energetica di circa 22 milioni di euro all’anno (circa il 17% in più rispetto all’ultimo accordo con TIM). Un segnale, tra i tanti, che conferma il forte posizionamento di ENI.
Le principali materie prime dei biocarburanti prodotti dalla società energetica di Stato, che sfruttano la tecnologia Ecofining di proprietà della stessa azienda, sono l’olio di ricino, gli oli esausti di cucina, i grassi animali e altre biomasse. L’azienda dichiara inoltre che, a seconda della carica utilizzata, il biocarburante idrogenato HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) è “in grado di abbattere tra il 60% e il 90% delle emissioni di CO2eq (calcolate lungo tutta la catena del valore) rispetto al mix fossile di riferimento ai sensi della Direttiva RED II (2018/2001)”.
Fino a ottobre 2022 l'approvvigionamento principale delle bioraffinerie di Venezia e Gela era l’olio di palma, proveniente soprattutto da Indonesia e Malesia, il cui utilizzo industriale per la produzione di biodiesel è stato bandito dall’Unione Europea, e poi recepito dall’Italia, a causa della deforestazione che tale rifornimento comportava. Per questo motivo da un anno e mezzo ENI ha rafforzato la produzione dei cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, ottenuti attraverso tecniche di produzione che non comportano sottrazione di terreno agricolo alla produzione alimentare o cambi di destinazione agricola.
Se per gli oli esausti ENI è costretta a ricorrere in gran parte alle importazioni, provenienti soprattutto dalla Cina, sull’olio di ricino la multinazionale energetica ha invece scelto di fare da sé, realizzando una filiera complessa che dall’Africa si collega all’Italia. Sono i cosiddetti agri-feedstock, cioè un modello di agricoltura industriale che opera in questo modo: dai terreni agricoli vengono raccolti i semi di ricino che vengono portati poi nei locali agri-hub, centri di raccolta e spremitura, dove si ricava l’olio vegetale che viene infine inviato alle bioraffinerie per la creazione dei biocarburanti.
ENI afferma che le coltivazioni di olio di ricino avvengono su terreni abbandonati, degradati e non in competizione con la filiera alimentare. I primi progetti sono stati realizzati in Kenya e Congo. E altri ne verranno avviati a breve in Angola, Costa d’Avorio, Mozambico e Ruanda. Al momento lo Stato africano più avanzato nella filiera dei biocarburanti è il Kenya. Secondo i dati forniti da ENI all’assemblea degli azionisti, in Kenya a fine 2023 circa 50mila ettari sono stati utilizzati per la coltivazione del ricino, con il coinvolgimento di 80mila contadini. Che coi fondi del Piano Mattei e dell’International Finance Corporation dovrebbero diventare 200mila. Numeri enormi, che però non sembrano fare i conti con le criticità già emerse.
Le criticità sui biocarburanti
Dicevamo che il paese africano più avanzato nella filiera dei biocarburanti è il Kenya, dove il progetto dell’agrifeedsock è partito a luglio del 2022. ENI ha dichiarato agli azionisti che nel 2023 la produzione è stata di 7mila tonnellate di olio di ricino, di cui 5mila sono state finora spedite in Italia. Un po’ poco, se si pensa agli enormi sforzi profusi.
Dubbi ai quali si associano le testimonianze critiche dei contadini keniani, raccolte nell’ambito di un laboratorio universitario organizzato dalla facoltà di Scienze Umane dell’Ambiente, del Territorio e del Paesaggio dell’Università Statale di Milano e pubblicate a marzo nel report dell’associazione A Sud, intitolato “Biocarburanti - una partita tutta italiana”. In quell’occasione i contadini hanno lamentato la scarsa resa, specie se si provano ad associare altre colture al ricino, e lo scarso rendimento economico. Tanto che a distanza di due anni dall’avvio delle coltivazioni, molti di essi hanno manifestato l’intenzione di non rinnovare il contratto con SAFA (Servizi Agricoli Forestali Africa), la società intermediaria alla quale si affida ENI e che ai contadini ha offerto la fornitura gratuita dei semi, l’aratura dei campi a carico della compagnia e un prezzo fisso a cui viene acquistato il raccolto.
A ciò si aggiungono altri elementi critici, segnalati ancora dal report di A Sud:
Secondo un’inchiesta congiunta della testata africana The Continent e l’ONG Transport & Environment, nella Repubblica del Congo ENI sta adottando un approccio su larga scala, collaborando con grandi aziende agroalimentari e incontrando non poche difficoltà nell’adattare le varietà di sementi alle condizioni locali. I progetti non sono ancora decollati e i contadini coinvolti nella produzione di olio di ricino nei due dei siti pilota sostengono che i terreni tradizionalmente coltivavano per la produzione alimentare sono stati espropriati dal governo a favore delle aziende con cui l’ENI fa affari: Agri Resources e Tolona. Quella dell’olio di ricino non è l’unica filiera problematica per ENI. In un’altra ricerca firmata Transport & Environment, dopo aver annunciato a ottobre 2022 di aver mantenuto la promessa ufficiale fatta agli azionisti nel 2020 di eliminare l’uso dell’olio di palma nelle sue raffinerie, ENI ha continuato a utilizzare suoi derivati come l’olio di palma distillato, il PFAD. Quando ENI si è impegnata ad abbandonare il PFAD, ha comunque lasciato aperto lo spazio per l’uso degli effluenti dei frantoi di palma (POME), che sono acque di lavaggio generate dalla macinazione dell’olio di palma. Nell’analisi fatta da T&E i biocarburanti PFAD non sono classificabili come “avanzati”, cioè biocarburanti che ricevono un sostegno preferenziale ai sensi della Direttiva UE sulle energie rinnovabili e sono stati inoltre esclusi dagli obiettivi politici per il carburante per l’aviazione recentemente adottati dall’UE (ReFuel EU). Ma soprattutto l’olio di palma grezzo e i suoi derivati aumentano i rischi di deforestazione nei Paesi produttori attraverso la conversione diretta dei terreni. A luglio 2023, l’ONG ha seguito la rotta di una nave chimichiera di nome Lovestaken che ha scaricato PFAD nella raffineria di Gela, e in seguito ha analizzato la rotta di altre tre navi che partivano dall’Indonesia per scaricare in Italia.
Sollecitata dagli azionisti sull’uso del PFAD poco prima dell’assemblea di maggio, ENI ha ricordato che “il quadro normativo e di mercato si è evoluto: essendo questo uno scarto di produzione valorizzabile a fini energetici e diversamente non utilizzabile e da smaltire, al momento rappresenta una parte dei feedstock” ma non ha voluto fornire i dati sui volumi utilizzati in quanto “informazione commercialmente sensibile”. Mentre sui dubbi relativi alla resa del ricino, la società energetica sostiene che “l’introduzione di sementi migliorate, che ENI metterà a disposizione, e l’adozione di buone pratiche agricole permetterà agli agricoltori di migliorare ulteriormente le rese”. Infine per quel che riguarda le denunce dei contadini sui bassi prezzi finora garantiti, l’azienda afferma che “il modello ENI garantisce agli agricoltori l’accesso alla terra, a nuove opportunità di mercato e una fonte addizionale di reddito, stabile nel lungo periodo; in tale cornice, l’iniziativa ha suscitato profondo interesse da parte degli agricoltori, determinando un aumento dagli 11mila agricoltori coinvolti nella prima campagna 2022 a circa 80mila a fine 2023”.
Raddoppiare gli obiettivi UE
Nonostante le criticità emerse, il ministero dell’Ambiente ha scelto lo stesso di supportare la filiera a sei zampe. Ma davvero era necessario il contributo da parte dello Stato? Nel solo 2023 ENI ha conseguito utili per 4,7 miliardi di euro e se si allarga lo sguardo a partire dal 2021 si scopre che in tre anni l’azienda energetica, grazie soprattutto ai prezzi in rialzo sul mercato del gas, ha conseguito utili per oltre 35 miliardi di euro. È il motivo per il quale negli scorsi giorni il ministero dell’Economia e delle Finanze ha venduto una parte della partecipazione che deteneva in ENI: più precisamente si tratta del 2,8 per cento del capitale della società, con un’operazione attraverso la quale ha incassato 1,4 miliardi di euro. Soldi utili a ridurre l’enorme debito pubblico italiano o a consentire qualche margine di manovra a una Legge di Bilancio che si preannuncia asfittica. Per fare un confronto, la scorsa manovra finanziaria del governo Meloni è costata 28 miliardi di euro. Nel solo 2022, in piena crisi energetica, ENI ha ottenuto utili per 20,4 miliardi di euro. Come ricordava Altreconomia:
ENI non è l’unica compagnia energetica ad aver annunciato profitti record. Nelle scorse settimane lo hanno fatto Exxon Mobil (oltre 52 miliardi di euro), TotalEnergies (quasi 34 miliardi di euro), Shell (quasi 38 miliardi di euro) e BP (oltre 26 miliardi di euro). Gli investimenti tecnici di ENI risultano però ancora fortemente sbilanciati sul business fossile, nonostante l’annunciata “priorità” di decarbonizzazione ribadita da Descalzi nel presentare i conti dell’esercizio. Lo mostrano i dati riportati dalla stessa società: nel 2022 gli investimenti tecnici ammontano a poco più di otto miliardi di euro. Il 79% di questi, oltre 6,3 miliardi, riguardano il solo comparto “Exploration & Production”, e in particolare lo sviluppo di giacimenti di idrocarburi, in particolare in Egitto, Costa d’Avorio, Congo, Emirati Arabi Uniti, Messico, Iraq, Italia e Algeria. Addirittura l’attività di raffinazione in Italia e all’estero (491 milioni di euro) e di marketing della distribuzione di prodotti petroliferi (132 milioni) pesano di più degli investimenti fatti per lo “sviluppo del business delle rinnovabili, acquisizione di nuovi clienti e attività di sviluppo di infrastrutture di rete per veicoli elettrici”, che sono in quota al veicolo Plenitude, limitati a 481 milioni di euro.
Non era lecito aspettarsi, dato il ruolo di controllo che in teoria lo Stato dovrebbe esercitare sull’azienda attraverso la partecipazione azionaria al 30,5%, che fosse la stessa azienda a investire su un progetto sul quale evidentemente crede molto e che mira a decarbonizzare il sistema dei trasporti e a creare posti di lavoro lungo la catena del valore? Resta il fatto che sui biocarburanti di ENI si basa parte della strategia energetica del governo Meloni. Entro il prossimo 30 giugno dovrà essere presentata alla Commissione Europea la versione aggiornata del Piano Nazionale integrato Energia e Clima (PNIEC), il documento con il quale gli Stati membri dell’UE identificano politiche e misure per il raggiungimento degli obiettivi energia e clima al 2030. Nella bozza elaborata dal governo si scrive che sui biocarburanti avanzati (quelli di seconda generazione, cioè quelli su cui punta ENI) si prevede di superare l’obiettivo specifico previsto dalla direttiva RED III, pari al 5,5% al 2030, fino al raggiungimento di un obiettivo intorno al 10%, cioè quasi il doppio.
Un dato che risalta ulteriormente alla luce dell’atteggiamento ostile, se non di vero e proprio scontro, tenuto dal governo italiano nell’ultimo anno verso qualsiasi provvedimento ambientale e climatico elaborato dall’Unione Europea (“follie green” secondo Fratelli d’Italia): dallo stop ai motori a combustione dopo il 2035, fissato nell’ambito del pacchetto di misure Fit for 55, alla direttiva europea sulle performance energetiche degli edifici, meglio conosciuta come “direttiva case green”; dal regolamento sugli imballaggi alla legge sul ripristino della natura. Se per tutti questi provvedimenti l’UE è stata tacciata di essere troppo ideologica e insostenibile dal punto di vista economico e sociale, sui biocarburanti, invece, il governo getta il cuore oltre l’ostacolo. Va sottolineato infine il duplice e ambiguo ruolo di Cassa Depositi e Prestiti: una delle principali istituzioni finanziarie dello Stato italiano, sotto forma di società per azioni a controllo pubblico, che gestisce il risparmio postale delle italiane e degli italiani. Da una parte CDP è stata individuata dalla legge istitutiva del 2021 quale gestore del Fondo Italiano per il Clima; dall’altra CDP è azionista per il 28,5% di ENI. Non proprio la migliore garanzia di trasparenza.
Immagine in anteprima: frame video Geopop via YouTube