Post

La battaglia politica del governo italiano contro la Corte Penale Internazionale

20 Febbraio 2025 7 min lettura

author:

La battaglia politica del governo italiano contro la Corte Penale Internazionale

Iscriviti alla nostra Newsletter

7 min lettura

Tra i 79 paesi membri delle Nazioni Unite (più di un terzo dei paesi che compongono la Comunità internazionale) che hanno recentemente sottoscritto una dichiarazione di “incrollabile sostegno” alla Corte Penale Internazionale (CPI), riconoscendone il ruolo di "pilastro essenziale del sistema di giustizia internazionale", non figura l’Italia. Un'assenza significativa e al tempo stesso preoccupante per uno Stato che ha avuto un ruolo di primo piano nella nascita della giustizia penale internazionale, ospitando la Conferenza diplomatica di Roma del 1998, affidata alla presidenza del Professor Giovanni Conso, che portò all’adozione dello Statuto della Corte.

La dichiarazione rappresenta una risposta politica e collettiva all’iniziativa degli Stati Uniti, volta a ostacolare l’operatività della CPI attraverso l’adozione di sanzioni individuali contro tutti coloro che con la Corte lavorano o collaborano. Il 6 febbraio 2025, il Presidente Donald Trump ha imposto con un ordine esecutivo misure restrittive – tra cui il congelamento di beni e asset e il divieto di ingresso negli Stati Uniti – nei confronti di un’ampia categoria di soggetti (tra cui ufficiali, impiegati e agenti della CPI, nonché i loro familiari) accusati di minacciare gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si tratta di misure indiscriminate e prive di adeguate garanzie procedurali (adottate nonostante il voto contrario del Senato pochi giorni prima) che trovano la loro ragione nelle iniziative della Corte volte ad indagare la commissione di crimini in Afghanistan nel 2003 (dove gli USA hanno condotto operazioni militari) e in Palestina (indagine aperta sui fatti occorsi a partire dal 2014, inclusi quelli più recenti nella Striscia di Gaza).

Queste sanzioni rappresentano un attacco diretto all’operatività e alla legittimità della CPI in un momento particolarmente delicato della sua storia, in cui la Corte sta cercando di rispondere alle critiche di selettività, dimostrando di poter perseguire crimini commessi non soltanto dagli Stati africani ma anche dalle grandi potenze occidentali. In questo contesto, la mancata adesione dell’Italia alla dichiarazione congiunta degli Stati assume inevitabilmente un significato politico, che la avvicina alle posizioni dell’amministrazione statunitense e degli altri Stati che hanno scelto di non sottoscrivere l’appello. In compagnia, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, solo della Repubblica Ceca e dell’Ungheria, con la posizione del governo di Viktor Orbán, in particolare, che è oramai nota, secondo cui la CPI sarebbe un organo politicizzato e privo di imparzialità.

L’allineamento dell’Italia a queste posizioni solleva serie preoccupazioni, avvertite dagli esperti di diritto internazionale e dagli addetti del settore. La Società Italiana di Diritto Internazionale e dell’Unione Europea (SIDI) ha diffuso un comunicato stampa, in cui critica la ritrosia italiana e avverte che questa scelta rappresenta “una grave e pericolosa deriva rispetto alle tradizionali (e sempre confermate) scelte fondamentali del nostro paese”, evidenziando un netto cambio di prospettiva rispetto alla storica adesione dell’Italia ai principi della giustizia internazionale. Un paradosso, considerando che tali principi hanno trovato il loro fondamento proprio a Roma. 

Si tratta di un episodio che non può essere letto isolatamente, ma va inserito nel contesto della politica interna più recente. Come già riportato su Valigia Blu, l’Italia ha recentemente mancato di consegnare alla Corte Penale Internazionale Osama Almasry, cittadino libico destinatario di un mandato d’arresto emesso in data 18 gennaio 2025, per aver commesso crimini quali trattamenti crudeli, tortura, stupro, violenza sessuale, omicidio, detenzione illegittima e persecuzione.

Il governo italiano ha giustificato questo inadempimento degli obblighi internazionali, che l’Italia ha liberamente sottoscritto, richiamandosi a un presunto vizio procedurale e a una mancata interlocuzione con gli organi amministrativi competenti. Tuttavia, al di là delle non meglio precisate motivazioni politiche che sembrano aver orientato la vicenda, anche sul piano strettamente giuridico la decisione è apparsa difficilmente giustificabile. Esperti di diritto penale e diritto internazionale (qui, qui e qui) hanno infatti evidenziato come l’interpretazione adottata dalla Corte di Appello di Roma, che ha negato la convalida dell’arresto, si sia fondata su presupposti erronei e ingiustificatamente restrittivi nell’applicazione della normativa nazionale che disciplina la collaborazione con la CPI (la legge 237/2012). La CPI ha aperto una formale inchiesta per inadempimento, a seguito della quale potrà decidere se deferire la situazione all’Assemblea degli Stati parte.

Più ancora del profilo giuridico, tuttavia, emerge con chiarezza l’atteggiamento del governo sulla vicenda, che delinea un quadro di aperta contestazione politica in atto nei confronti della Corte Penale Internazionale, in nome di un interesse nazionale o di una ragione di Stato che restano poco definiti.

Già nelle prime dichiarazioni del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, quando la posizione ufficiale del governo non era ancora stata del tutto chiarita ed era incentrata sulle difficoltà tecniche nell’espletamento delle procedure di consegna, sono emersi toni di aperto contrasto con l’operato della CPI: “Siamo un paese sovrano e facciamo la nostra politica. La Corte di giustizia dell'Aia non è il verbo, non è la bocca della verità”. Pochi giorni più tardi, dopo l’audizione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio in Parlamento, Tajani ha rincarato la dose, minacciando l’apertura di un’inchiesta sull’operato della CPI nella vicenda (“Bisogna avere chiarimenti su come si è comportata”).

Allo stesso tempo, il Ministro Nordio, nel tentativo di spiegare il paradosso per cui un criminale internazionale è stato espulso dal territorio italiano per ragioni di sicurezza, anziché essere consegnato alle autorità giudiziarie competenti per essere processato, ha invocato come principale giustificazione la tutela dei diritti del ricercato e i vizi del mandato d’arresto. Una linea difensiva che, per quanto astrattamente sostenibile nel merito, avrebbe dovuto essere sollevata dall’imputato di fronte alla Corte e non dal Ministro di uno Stato che è tenuto all’esecuzione dell’arresto: né lo Statuto della Corte né la legislazione italiana di attuazione d’altronde sembrerebbero attribuire al Ministro della Giustizia espressamente il potere discrezionale di valutazione sulla fondatezza dell’accusa o l’appropriatezza del mandato (per approfondire, qui). 

Questa vicenda, nel suo insieme, e collegata all’atteggiamento sulle sanzioni di Trump, rafforzerebbe l’impressione di un progressivo disimpegno dell’Italia nei confronti della giustizia penale internazionale per finalità politiche e solleva interrogativi sulla posizione del governo rispetto alla tutela dei principi dello Stato di diritto e alla lotta all’impunità per i crimini più gravi.

Si tratta dunque di scelte che, considerate nel loro complesso, spingono a rileggere il caso Almasry non solo come il risultato di motivazioni economiche e del contrasto al fenomeno migratorio, ma anche come un tentativo aggiuntivo, più o meno esplicito, di manifestare l’allineamento italiano con la posizione degli alleati internazionali in seguito al cambio di amministrazione negli Stati Uniti.

Tentativo che sarebbe inoltre confermato dalla sfida aperta del governo italiano alla Corte penale sul potenziale arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, attualmente soggetto a mandato di cattura internazionale. Recentemente, il Ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha posato con Netanyahu durante una visita in Israele. A seguito dell’incontro, Salvini ha inoltre dichiarato di voler rimettere in discussione l’esistenza stessa della CPI e la sua utilità. L’incontro segue mesi in cui esponenti di governo hanno tergiversato sull’interpretazione degli obblighi derivanti dallo Statuto della CPI, che imporrebbero all’Italia di arrestare e consegnare il primo ministro israeliano qualora esso sia in visita nel nostro paese, salvo poi affermare che l’Italia garantirà l’immunità al primo ministro

Questi atteggiamenti e prese di posizione contrastano apertamente con il ruolo che l’Italia ha storicamente svolto nella nascita e nel consolidamento della giustizia penale internazionale.

La Corte Penale Internazionale rappresenta il primo tentativo di affermare una giurisdizione internazionale permanente su quei crimini che, come scriveva Giuliano Vassalli [1999, pp. 10-11], hanno macchiato l’umanità in ogni emisfero e hanno turbato profondamente la coscienza umana. La CPI rappresenta una rottura con il passato, una vera e propria “istituzione rivoluzionaria”, come affermato dal celebre giurista Antonio Cassese all’indomani della sua istituzione. A differenza dei tribunali istituiti ex post dai vincitori dei conflitti, come Norimberga o i tribunali speciali per Ruanda ed ex Jugoslavia, la CPI è nata con l’obiettivo di contrastare l’impunità in maniera permanente e in modo imparziale, nel rispetto dei principi di legalità e Stato di diritto. 

Dopo anni di battaglie per affermare la propria legittimità e credibilità agli occhi della comunità internazionale – e dopo un primo periodo in cui le sue attività si sono concentrate prevalentemente sull’Africa, attirandosi accuse di doppiopesismo e selettività – la CPI ha recentemente dimostrato la volontà di affermare una giustizia internazionale realmente universale.

È proprio in questa fase cruciale, non solo per la giustizia internazionale, ma anche per l’ordine giuridico internazionale basato sullo Stato di diritto – messo alla prova dai conflitti in Ucraina e Gaza e dall’ascesa di politiche sovraniste e nazionaliste – che la posizione italiana appare particolarmente dissonante rispetto alla sua storia di sostegno alla CPI.

Ma non solo. La pretesa sovranità nazionale – per quanto sia discutibile che possa essere invocata per giustificare il mancato rispetto di obblighi internazionali che l’Italia ha liberamente sottoscritto – finisce per essere utilizzata unicamente per tutelare, seppur indirettamente, un criminale di guerra.

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Senza alcun beneficio concreto per la tutela degli interessi nazionali, se non quello di lasciare un ricercato a piede libero, la battaglia ideologica contro la giustizia internazionale si svuota di qualsiasi giustificazione in linea di principio, riducendosi ad uno scontro ideologico insostenibile in nome di una quantomai opaca e arbitraria ragione di Stato, che tutto piega al proprio volere.

Una visione, questa, che entrerebbe in aperto contrasto con i valori fondanti della giustizia internazionale: la prevalenza del diritto sul potere, la responsabilità della politica di fronte alla legge e la supremazia dei diritti umani sulla forza. Principi che hanno ispirato la promessa di giustizia universale alla base dello Statuto della Corte penale internazionale, che a Roma ha visto la sua luce e che ora a Roma corre il rischio di essere dimenticata.

Immagine in anteprima: frame video Mediaset Infinity

Scrivi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


CAPTCHA Image
Reload Image
Segnala un errore