Dal gas alle aree protette: per il governo Meloni l’ambiente è solo un’occasione di profitto per le aziende private
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Avremmo dovuto capirlo sin da subito: designare un commercialista a ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica indicava già la direzione che avrebbe intrapreso il governo Meloni. Ci siamo fatti fuorviare dalla gaffe iniziale di Gilberto Pichetto Fratin nell’ottobre 2022, quando aveva esultato per essere stato nominato alla Funzione Pubblica prima di fare retromarcia utilizzando lo stesso messaggio, dalla sua inadeguatezza alle COP sul clima e più in generale dall’evanescenza di una figura politica che dà l’impressione di leggere un copione, tranne poi inciampare quando prova ad avventurarsi in terreni non suoi, come ad esempio sul deposito delle scorie nucleari.
Invece la destra al potere in Italia ha ribadito di avere un’idea ben precisa delle questioni ecologiche. Confermando non solo una sostanziale continuità coi governi Berlusconi degli anni scorsi - tutti tesi a una visione economica dell’ambiente - ma anche di interpretare la propria funzione politica in un unico modo, cioè quello di essere facilitatori delle aziende, a difesa degli interessi consolidati.
I mantra ossessivi del governo Meloni vanno in questa direzione. Come leggere, ad esempio, le frasi sulla sostenibilità che deve essere anche economica e sociale o quella sull’approccio pragmatico e non ideologico se non come un assist alle imprese che intendono preservare i guadagni senza modificare gli asset produttivi? Un impianto, questo sì ideologico, che è stato ulteriormente puntellato a fine 2024: che sia l’ultimo decreto legge in ordine di tempo o la manovra finanziaria o, ancora, gli Stati generali delle aree protette, non si sfugge dalla dicotomia investimento/costo. O l’ambiente è un’opportunità economica, e dunque qualcosa da incentivare, oppure una spesa da sostenere, e dunque qualcosa da tagliare.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Accelerare è l’unica VIA
Velocizzare è la vecchia/nuova ossessione della destra al governo, in un ritornello che ritorna a distanza di anni. Era il termine preferito nei primi anni Duemila, quando ancora si parlava (poco) di riscaldamento globale, è il termine utilizzato oggi che la Terra è immersa nel collasso climatico. Come ha ricordato Ferdinando Cotugno all’indomani della morte di Silvio Berlusconi:
Tutto l’ambientalismo di Meloni, Procaccini, Pichetto Fratin e Giubilei è in realtà figlio di Berlusconi, che con un decennio o due di anticipo aveva già scavato il solco in cui si sarebbero mossi i suoi eredi (...) Cosa è rimasto di quegli impegni? Ovviamente niente. Spazzatura mediatica e rumore di fondo, oggi come allora, dove contava il governo Berlusconi sabotava gli impegni europei. Qual era il Paese sulle barricate contro la proposta del Consiglio europeo di aumentare i tagli delle emissioni UE dal venti al trenta per cento? L’Italia di Berlusconi e Prestigiacomo (allora ministra dell’Ambiente), ovviamente.
Così distanti e così simili, nelle parole e nelle pratiche. Uno dei tanti parallelismi che si può tracciare è la vicenda del regolamento sugli imballaggi, in cui le proposte ambiziose della Commissione Europea per incentivare una reale economia circolare sono state annacquate dalle proposte al ribasso di Stati come l’Italia:
Non è un mistero che il governo Meloni abbia sostenuto in tutto e per tutto le richieste di Confindustria e delle imprese legate al riciclo e alla produzione degli imballaggi, considerando invece il riuso un ambito ancora marginale dal punto di vista economico. Se era un modo per contarsi, come piace dire all’intera classe politica, è chiaro che l’economia lineare è attualmente predominante su quella circolare. Ma la prospettiva avrebbe potuto essere quantomeno quella di far uscire l’economia circolare dalla nicchia. È emersa invece una visione politica legata alla conservazione dell’esistente, basti pensare ai continui attacchi della recente convention di Fratelli d’Italia a Pescara (dal 26 al 28 aprile) sulle cosiddette “follie green dell’Europa”: qualsiasi direttiva e qualsiasi regolamento proposto e discusso in questi anni – dal pacchetto Fit for 55 alla direttiva sulle case green – è stata tacciata, appunto, di essere scellerata, allucinante, perciò da respingere in toto.
Per accelerare, inoltre, la tendenza inaugurata proprio dai governi Berlusconi si è fatto un ricorso sempre più spinto ai decreti legge, che da strumento straordinario sono diventati negli anni uno strumento ordinario con i quali si riduce il Parlamento a una sorta di firma-carte. Dei 78 decreti legge utilizzati dal governo Meloni in poco più di due anni (dati fino al 9 dicembre 2024) almeno una dozzina riguarda l’ambiente: dai decreti specifici sulle energie rinnovabili (i vari FER) a quelli generali sull’energia (Bollette e Aiuti), da quello sull’agricoltura a quello sulle materie prime critiche.
L’ultimo dl, il n°153 del 17 ottobre che è stato convertito in legge lo scorso 10 dicembre, ha un titolo piuttosto impegnativo: “Disposizioni urgenti per la tutela ambientale del Paese, la razionalizzazione dei procedimenti di valutazione e autorizzazione ambientale, la promozione dell’economia circolare, l’attuazione di interventi in materia di bonifiche di siti contaminati e dissesto idrogeologico”. Si tratta di 12 articoli che, nelle parole del ministro Fratin, vanno «nella direzione di semplificare e razionalizzare settori decisivi per la nostra economia». La viceministra Vannia Gava ha aggiunto, nel caso in cui gli intenti non fossero abbastanza chiari, che «l’ambiente, bene prezioso da proteggere, è anche il terreno cruciale per la competitività futura».
Dichiarazioni confermate dall’impianto generale del provvedimento legislativo, teso appunto a fornire adeguate garanzie alle imprese che vorranno investire in settori strategici come petrolio e gas, acque, rifiuti, siti contaminati, dissesto idrogeologico. All’art.1, ad esempio, si modifica il Testo Unico sull’Ambiente - la cui prima formulazione risale al 2006 - per legiferare sul comparto delle valutazioni e delle autorizzazioni in campo ambientale. Come è noto, infatti, sono migliaia le istanze che pendono presso le Commissioni VIA-VAS (Valutazione di Impatto Ambientale - Valutazione Ambientale Strategica) e PNRR-PNIEC (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza - Piano Nazionale Integrato Energia e Clima): è stato calcolato che dal 2021 sono state presentate in media 700 nuove istanze all’anno.
Un caos fatto di forsennati progetti, a volte realizzati col copia e incolla, che in regioni come la Sardegna hanno messo tutti contro tutti pure sulle energie rinnovabili. In che modo il governo intende mettere ordine? Prevedendo una priorità nell’ordine di trattazione delle istanze, da definirsi tra l’altro con un successivo decreto ministeriale: una “corsia veloce” è attribuita in particolare a “progetti di interesse strategico nazionale”, privilegiando l’affidabilità, la sostenibilità tecnico-economica, il contributo agli obiettivi PNIEC, l’attuazione di investimenti PNRR e la valorizzazione dell’esistente. Intanto si accelera, anzi si dice di accelerare, poi si vedrà.
Oppure si pensi all’art.2, che riduce da 12 a 9 miglia il limite costiero entro il quale si estende il divieto di estrazione del gas. L’obiettivo è fornire gas alle aziende energivore del Nord Italia (cementifici, acciaierie, cartiere e così via) o, per usare l’espressione indicata dal MASE, “coniugare le esigenze di salvaguardia dell'ambiente con le esigenze di sicurezza degli approvvigionamenti”. Come troppo spesso succede, infine, la legge da poco approvata non prevede “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Insomma: non ci sono soldi - tranne per “la struttura di supporto al commissario straordinario per il sito di interesse nazionale di Crotone - Cassano e Cerchiara” (art.7) e per gli “interventi affidati ai Commissari di Governo per il contrasto del dissesto idrogeologico” (art.9). D’altra parte le idee per finanziare la tutela dell’ambiente non mancano.
Aree protette dagli sponsor
Recepire i segnali e saperli interpretare, si sa, è fondamentale. Così l’annuncio da parte del MASE della partecipazione della ministra del Turismo, Daniela Santanché agli Stati generali delle aree protette dello scorso 17 dicembre, era indicativo delle priorità che si volevano far emergere. A dieci anni di distanza dalla precedente edizione, il governo Meloni aveva chiarito che intendeva “modernizzare” la legge quadro n°394 del 1991 per “custodire e valorizzare al meglio il nostro straordinario patrimonio naturale”, tutelato da 1049 aree protette tra parchi nazionali, aree marine, riserve naturali e regionali, parchi geominerari, siti Natura 2000 e altro ancora. Il rapporto con l’ambiente di Daniela Santanché è il non plus ultra della prospettiva aziendalista. Come dimenticare di quella volta che se la prese con il New York Times perché, a fronte del racconto del dramma della siccità in Sicilia, si rischiava di “inaridire anche il turismo”, o di quando, di fronte una Valle d’Aosta colpita da una terribile alluvione, propose di “portare i turisti a Cogne con l’elicottero”?
Come denunciato da Repubblica, la destra ha “messo le mani” sull’ambiente nominando persone di fiducia alla guida dei principali parchi del paese e nominando dirigenti di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia nelle commissioni ministeriali che danno le autorizzazioni ambientali. Soprattutto intende mettere a profitto perfino i luoghi che hanno funzioni ecosistemiche fondamentali e che perciò dovrebbero essere preservate dalle logiche del profitto. Lo hanno ricordato le associazioni ambientaliste che hanno creato e gestiscono le aree protette italiane:
Il ruolo strategico che parchi, riserve e siti della Rete Natura 2000 ricoprono per tutelare la straordinaria biodiversità italiana, assicurare servizi ecosistemi fondamentali per la nostra vita, valorizzare i territori e contrastare il cambiamento climatico, richiedono il massimo impegno da parte delle istituzioni anche in vista degli ambiziosi obiettivi della Strategia europea per la biodiversità di arrivare entro il 2030 al 30% di territorio italiano protetto a terra e a mare (... ) Una vera riforma dovrà così superare le scelte che nel tempo hanno portato la governance delle aree protette nazionali ad essere condizionata da istanze locali e partitiche, ribadendo la centralità della conservazione secondo criteri scientifici e tecnici. Soprattutto, una riforma efficace dovrà proporre modelli capaci di trasformare le oltre mille aree protette italiane in un vero e proprio “sistema” in grado di garantire tutela e sviluppo sostenibile.
Invece le parole della ministra Santanché a Roma, presso la Biblioteca Nazionale, hanno riproposto i soliti refrain della destra, a partire dal concetto della natura come patrimonio da valorizzare, posta cioè ancora una volta in chiave antropocentrica ed economica:
«Dobbiamo promuovere una visione dei parchi dove l’uomo sia al centro, nella salvaguardia dell’ambiente. La nostra ambizione è che le aree protette non siano solo custodi della biodiversità, ma anche motore dello sviluppo economico e sociale».
La sintesi dell’incontro a opera de Il Sole 24 ore risulta ancora più efficace sia nel titolo - “Il ministero dell’Ambiente pensa agli sponsor per i parchi” - che nell’attacco:
Sponsor privati e distretti del biologico nei parchi nazionali e regionali italiani. E pure sottomarini turistici. Sono le principali proposte lanciate dal governo Meloni agli Stati generali delle aree protette, la due giorni a Roma organizzata dal ministero dell’Ambiente per discutere della riforma della legge in materia, la 394 del ’91. «Non vedo nulla di male se cominciamo ad aprirci alla possibilità di migliorare la vita dei parchi attraverso sponsorizzazioni di aziende -, ha detto il sottosegretario all’Ambiente e alla sicurezza energetica, Claudio Barbaro -. Ad esempio, potrebbe esserci una gara comune per le auto elettriche per tutte le aree protette».
Immaginate la scena: entrate al Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e al posto della sagoma dell’orso che ne caratterizza il logo trovate una lattina di Coca Cola. Oppure perché non fare sponsorizzare il Parco nazionale Appennino Lucano Val d'Agri-Lagonegrese a ENI, che in quelle zone estrae petrolio da 30 anni?
Meglio specificarlo: i nostri sono paradossi, quelli della destra sono invece obiettivi. Oltre agli sponsor, infatti, anche le altre proposte lanciate al convegno di Roma si inseriscono nel quadro tracciato. «Coniugare le aree protette ai distretti produttivi biologici», come suggerito dal sottosegretario al ministero dell’Agricoltura Patrizio Di Pietra, sarebbe un enorme assist alle associazioni di settore come Coldiretti - da tempo al fianco del governo - che così potrebbero ritrovarsi a gestire oltre 3 milioni di ettari.
Suscita perplessità anche l’idea del ministro per le Politiche del Mare Nello Musumeci di incentivare «un’attività turistica nei fondali e nel dominio subacqueo», quando dei fondali marini, come ricorda il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), conosciamo appena un quarto. Invece di preservare l’ecosistema probabilmente più complesso e delicato, il governo Meloni intende farlo diventare un parco giochi per qualche riccone. A nulla sembra valsa la recente tragedia del Titan: il sommergibile, imploso nell’estate 2023 provocando la morte dei suoi cinque passeggeri, stava compiendo una spedizione turistica per visitare il relitto del Titanic, situato a 3800 metri di profondità sotto il livello del mare. È questo il modello che si intende perseguire?
Il ponte sull’ambiente
Se da una parte il governo intende far entrare i privati nella gestione dell’ambiente, dall’altra diminuisce la spesa pubblica. Già a novembre il WWF aveva denunciato il definanziamento:
Rispetto al 2024, il disegno di legge bilancio 2025-2027 fa registrare per il Ministero dell’ambiente un decremento del 9,4% (in termini assoluti -346,9 milioni). Una diminuzione delle spese in conto capitale che prosegue ulteriormente negli esercizi successivi fino ad arrivare nel 2027 a -38% rispetto al 2024. Sconcertante, dato anche il contesto sociale, il taglio di 4,6 miliardi di euro in 6 anni del “Fondo Automotive”. Una scelta che, colpendo la transizione ambientale e sociale verso una mobilità a zero emissioni, mette a rischio il destino di migliaia di lavoratori e lo stesso futuro del settore in Italia. Se sull’ambiente si taglia, si trovano invece 24 miliardi in 10 anni per un Fondo per generici interventi a favore di investimenti e infrastrutture, senza nemmeno indicare linee di indirizzo sui progetti da finanziare e le loro finalità. «Sembra quasi che il Governo viva su un altro Pianeta e non si sia ancora reso conto che cambiamento climatico e perdita di biodiversità stanno ormai condizionando pesantemente la vita dei cittadini e la stessa economia, oltre all’ambiente», dichiara Dante Caserta, Responsabile Affari Legali e Istituzionali del WWF Italia. «È necessario un cambio di rotta con investimenti pubblici capaci di affrontare la crisi climatica e ambientale che stiamo già vivendo: servono interventi per tutelare gli ecosistemi terrestri e marini, abbattere le emissioni climalteranti, promuovere un’economia verde, effettuare interventi di adattamento al cambiamento climatico».
Il passaggio parlamentare alla Camera e al Senato ha, se possibile, peggiorato le già basse aspettative. Ne è prova l’emendamento presentato dalla Lega che prevede uno stanziamento aggiuntivo di circa 1,5 miliardi di euro per il Ponte sullo Stretto, che fa lievitare le spese totali a circa 13 miliardi, di cui quasi la metà sarà a carico delle regioni Sicilia e Calabria.
Come scrive Fanpage:
I soldi verranno dal Fondo sviluppo e coesione, cioè dai fondi europei rivolti in buona parte alle Regioni. Lo stesso emendamento assegna un miliardo di euro ai lavori per la Tav e uno a Ferrovie dello Stato per progetti collegati al PNRR, oltre a somme minori per altre infrastrutture.La manovra dello scorso anno aveva messo da parte circa 11,6 miliardi di euro in tutto per l'opera, fino al 2032. La legge di bilancio 2025, invece, cambia le cose. Innanzitutto, la parte di spesa a carico dello Stato diminuisce: non più 9,3 miliardi, ma ‘solo' 7 miliardi. Allo stesso tempo, però, aumentano i soldi presi dal Fondo sviluppo e coesione, che è dedicato in buona parte alle Regioni: 3,9 miliardi di euro in più. Facendo i calcoli, quindi, i fondi in più equivalgono a circa 1,5 miliardi di euro. Il tutto comunque resta sempre "nelle more dell'individuazione di fonti di finanziamento atte a ridurre l'onere a carico del bilancio dello Stato". Insomma, il governo continuerà a cercare altre fonti di finanziamento, ad esempio i privati.
Intanto, però, saranno le persone costrette a percorrere le disastrate strade provinciali a dover fare i conti con i tagli decisi dal governo. Secondo una stima de Il Sole 24 Ore saranno le province, le città metropolitane e le regioni a dover fronteggiare “quasi 1,5 miliardi di fondi futuri per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade“. Tagli che si aggiungono ai 3,2 miliardi già previsti nella bozza originaria della manovra finanziaria. In più i fondi per la mobilità sostenibile vengono ridotti di 114,8 milioni e il maxi fondo pluriennale per gli investimenti pubblici scende dai 24 miliardi previsti finora fra 2027 e 2036 a 18,486 miliardi. Scegliere di disinvestire su ciò che riguarda la mobilità è in fondo (anche) una scelta ambientale. Le reazioni riportate da Il Fatto Quotidiano sono di sconcerto:
Allarmato Pasquale Gandolfi, presidente dell’Unione delle province d’Italia. «Non possiamo che sottolineare la gravità di questa decisione, che sottrae fondi destinati a garantire a tutti i cittadini il diritto ad una mobilità sicura, facendo fare al Paese un pericoloso passo indietro nel percorso di messa in sicurezza dei 120mila chilometri di strade provinciali. Un taglio che, tra l’altro, interverrebbe su risorse del 2029 che sono state già assegnate alle Province e alle Città Metropolitane. Troviamo del tutto incoerente che un Governo che in ogni occasione ripete quanto sia urgente restituire alle Province un ruolo e le risorse per le strade, decida in una notte di cancellare anni di investimenti». Gli fa eco il sindaco di Bologna e coordinatore delle Città metropolitane Anci, Matteo Lepore: «Un taglio non solo grave ma anche paradossale, perché da un lato il governo sostiene di voler aumentare la sicurezza con un nuovo codice della strada, dall’altro taglia risorse per 1,5 miliardi di euro destinate proprio a mantenere sicure le strade, in questo caso quelle provinciali».
E poteva pure andare peggio, se si pensa all’emendamento presentato da Forza Italia nel decreto legge sull’Ambiente che intendeva consentire l’ingresso di capitali privati nelle società alle quali viene affidata in house la gestione dei servizi idrici. Un emendamento che, in seguito alle polemiche, era stato ritirato e su cui però il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, aveva giurato che sarebbe stato ripresentato nella legge finanziaria “previo approfondimento tecnico con il ministro dell’Ambiente”. Nel momento in cui scriviamo ciò non è avvenuto ma resta la volontà politica di consegnare pure uno dei beni ambientali più preziosi alla gestione aziendale. In pieno spregio del referendum del 2011 che aveva sancito la volontà popolare dell’acqua pubblica.
Immagine in anteprima via governo.it