Il lavoro da solo non basta: serve un buon lavoro
9 min letturaQualche settimana prima che il virus li costringesse alla chiusura, i cinema passavano Sorry We Missed You di Ken Loach, storico regista della sinistra britannica. Un uomo di mezza età, rimasto senza lavoro, si getta nel mondo della gig economy: vende l’auto della moglie per acquistare un furgone e diventare il corriere di una grossa azienda. Il film mostra il deterioramento del rapporto con la moglie, la sofferenza della famiglia e l’infrangersi, infine, dei sogni di ricchezza promessi da quell’avventura lavorativa così precaria.
Guardandosi intorno, tra cerchie di amicizie e social, è facile incontrare esperienze simili: lavori frenetici, stancanti, precari, con contratti predatori, stipendi miseri che riducono all’osso il resto della vita - quello per cui bisognerebbe vivere. O di imprenditori che si lamentano dell’opposto, di giovani viziati senza alcuna voglia di sgobbare.
Come sempre la pellicola di Ken Loach riesce a cogliere uno spaccato di realtà estremamente problematica: quella di un lavoro sempre più alienante, precario, sottopagato. Non è un caso quindi che anche economisti importanti si siano interessati al tema, introducendo l’espressione “good jobs”.
Che cosa sono i good jobs? Per forza di cose - differenze tra paese e paese, settore e settore - la definizione è flessibile. Nonostante le differenze, una definizione chiarificatrice può essere questa: si tratta di lavori non solo ben retribuiti, ma anche stabili, con tutele, prospettive di carriera e il giusto bilanciamento tra vita privata e lavoro.
Per comprendere meglio il concetto è meglio fare un passo indietro e comprendere le dinamiche all’interno del mondo del lavoro e dell’economia in generale.
I good jobs come fondamento dei "Trenta gloriosi"
Dopo la seconda guerra mondiale gli Stati occidentali hanno vissuto trent’anni di crescita e prosperità, quelli che in Francia sono chiamati “Trenta gloriosi”. Le fondamenta di questa crescita economica erano un sistema di tutele universalistico e la protezione nel mondo del lavoro. Nonostante questo paradigma abbia influenzato l’intero occidente, il caso più emblematico rimane quello svedese.
Dopo la Seconda guerra mondiale, a sorpresa, venne eletto Ministro di Stato Tage Earlander del Partito Socialista. Ai suoi governi si deve proprio la costruzione del modello svedese, che si compone dei due elementi essenziali di cui parlavamo in precedenza: il primo è un welfare state universalistico che porta il cittadino dalla culla alla tomba; il secondo è l’importanza delle istituzioni nel mondo del lavoro, supportate da una forte presenza sindacale. Attraverso la contrattazione collettiva, i sindacati assieme alle aziende stabilivano un salario valido per il settore secondo la formula “stesso lavoro, stessa paga”.
Questa particolare struttura del mercato non virava verso un’economia di tipo pianificata, sul modello socialista, ma regolava le forze di mercato che, in assenza di regole e organizzazioni come i sindacati, avrebbero portato, appunto, a un deficit di buoni posti di lavoro. Non vi sarebbero infatti stati i giusti incentivi per il datore di lavoro, che avrebbe invece fatto profitti proprio sulle spalle dei lavoratori.
Grazie a queste istituzioni - un termine tecnico che indica le regole, le convenzioni, i tabù e soprattutto i rapporti di forza in seno alla società - le aziende più produttive potevano prosperare, investendo per aumentare la produttività e ottenere maggiori profitti, mentre quelle meno efficienti erano costrette a chiudere.
Ma al fine di garantire condizioni di vita soddisfacenti per questa forza lavoro è necessario proprio quel sistema di tutele (Welfare State) che ha trovato terreno fertile prima nel mondo scandinavo - e britannico - e poi nel resto del mondo occidentale.
A suggerirlo è stato l’economista liberale William Beveridge che, con il suo rapporto del 1942 redatto per il Parlamento Britannico, ne ha fornito le basi ideologiche. Beveridge riteneva necessario per un’economia moderna che la forza lavoro fosse in salute, istruita e stabile. Da qui, pertanto, la necessità da parte dello Stato di fornire sanità pubblica, istruzione, edilizia e, ovviamente, di trasferimenti monetari.
È stato in Svezia che gli insegnamenti di Beveridge hanno trovato terreno fertile, attraverso la costruzione di un sistema di tutele universalistico: tutti dovevano avere accesso a certi servizi, indipendentemente dalla condizione economica. Quindi istruzione, sanità, ma anche edilizia pubblica per garantire una vita decente e a basso costo, assegni per famiglie con figli, finanziati dalla tassazione progressiva.
Questa strategia è stata perseguita anche nel resto dell’Occidente, portando appunto ai trent’anni gloriosi e al benessere diffuso che conosciamo oggi. Puntando quindi su lavori ben retribuiti e sicuri, su servizi pubblici, su una popolazione sempre più sana e istruita.
Quando ci siamo persi
Quando però la crisi petrolifera degli anni ‘70 mette in crisi il modello socialdemocratico occidentale, nell’accademia avevano preso il sopravvento posizioni pro-mercato che influenzarono la politica. Queste tendenze consideravano l’intervento pubblico come dannoso. Secondo queste dottrine lo Stato era inefficiente, attanagliato da lobby e politici interessati solo al proprio tornaconto personale. I trasferimenti di denaro rendevano pigre le persone, scoraggiandole dal cercare un lavoro. E il Welfare State era diventato troppo costoso, copriva troppe persone, rappresentava uno spreco di risorse.
La controrivoluzione parte dal mondo anglosassone: a vincere le elezioni a ridosso degli anni ’80 furono Ronald Reagan in America e Margareth Thatcher nel Regno Unito. Il dogma economico e sociale diventa: meno Stato, più mercato. Anche nel mondo del lavoro.
L’idea era alquanto semplice - e come capita di solito alle idee semplici, sbagliata: in un’economia moderna e dinamica si doveva facilitare il passare da un lavoro a un altro o l’immissione di nuovi lavoratori, diminuendo quindi le tutele per chi già lavora.
Il nostro paese ha offerto a partire dagli Novanta un ottimo esempio di questa deriva precarizzante. Sia i governi di centrosinistra con il Pacchetto Treu sia quelli di centrodestra guidati da Silvio Berlusconi con la Legge Maroni del 2003 hanno infatti puntato proprio sulla liberalizzazione del mercato del lavoro.
Come fa notare Pasquale Colloca su Il Mulino, queste riforme hanno contribuito a creare una miriade di contratti precari, con poche garanzie e basso costo per il datore di lavoro. Ciò ha portato a un dualismo nel mondo del lavoro italiano, tra garantiti e precari, che secondo gli osservatori è causa della bassa competitività del nostro paese.
Tale dualismo non ha comunque interrotto le riforme votate alla flessibilità, come dimostra la riforma del mercato del lavoro del governo Renzi, il cosiddetto Jobs act. Oltre a incentivi e decontribuzioni per assunzioni a tempo indeterminato, il provvedimento ha introdotto il Contratto a Tutele Crescenti, permettendo il licenziamento senza giusta causa a fronte di un risarcimento e senza reintroduzione per le aziende sopra i quindici dipendenti che prima lo prevedevano.
Anche qui gli effetti salvifici del provvedimento sono controversi: in un loro studio gli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi sottolineano che la riforma ha sì portato a un aumento dei nuovi assunti - con meno tutele rispetto a prima - ma anche a un aumento significativo dei licenziamenti. Senza risolvere quindi i problemi del mondo del lavoro italiano, che derivano proprio dalla mancanza di tutele e dalla competizione sui salari più che sull’innovazione. A ciò bisogna aggiungere poi le due sentenze della Corte Costituzionale (nel 2018 e nel 2020), che hanno sollevato aspetti di incostituzionalità legati all’unico criterio dell’anzianità nello stabilire gli indennizzi in caso di licenziamento.
Il deputato di Italia Viva Luigi Marattin sostiene che una semplice differenza tra percentuali sia la "prova" che il Jobs Act abbia causato una diminuzione dei licenziamenti.
Vediamo perché l'affermazione è infondata.
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— Fabio Sabatini (@FabbioSabatini) January 16, 2020
Nemmeno il rimbalzo del 2021 ha messo un freno a questa tendenza: come certifica l’ISTAT otto su dieci assunti nell’anno sono impiegati precari in quelli che vengono chiamati “mini jobs”, il contrario quindi dei good jobs.
Il bilancio di questa stagione è pesantemente negativo: le riforme non hanno aiutato i giovani a entrare nel mercato del lavoro né hanno avuto effetti positivi per l’economia del nostro paese, che anzi si ritrova in una situazione peggiore di prima.
Che cosa possiamo fare, quindi?
Come abbiamo visto il nostro tempo è quello della precarietà lavorativa, di lavori sottopagati e senza tutele. La strategia per invertire la rotta dipende da aspetti specifici che variano da paese a paese, dalla struttura del lavoro e dallo stato dell’economia presente. Ma, in generale, l’economista del MIT Daron Acemoglu individua tre questioni fondamentali che devono essere il pilastro di una strategia per il ritorno dei Good Jobs.
Il primo, come già detto precedentemente, sono le istituzioni del mercato del lavoro, in particolare la rappresentanza sindacale. Nel corso degli anni in tutto l’Occidente, sia negli Stati Uniti che in Europa, il numero di iscritti al sindacato è calato considerevolmente. Come dimostra l’esperienza scandinava, la presenza sindacale è fondamentale per garantire stipendi adeguati e rivendicazioni sociali. Ne è un esempio quello che sta succedendo negli Stati Uniti USA con Amazon, che garantisce sì servizi ai propri lavoratori, ma con condizioni di lavoro insostenibili, grazie a un mercato fortemente deregolamentato proprio sul versante delle tutele.
Anche la letteratura economica, un tempo più scettica nei confronti dei sindacati, ha parzialmente cambiato idee notando i loro effetti positivi sulla soddisfazione dei lavoratori e sulla produttività. Non basta infatti un cambiamento della legislazione sul mercato del lavoro che abbandoni il paradigma della flessibilità, sono necessari anche i corpi intermedi. Attraverso il potere contrattuale dei sindacati, le aziende non potrebbero più competere offrendo minori salari e facendo uso di contratti predatori. Si ritroverebbero quindi a dover investire per aumentare la produttività.
Qui arriviamo al secondo punto, ovvero l’innovazione. Una strategia di good jobs deve passare necessariamente attraverso un ripensamento del ruolo dello Stato come catalizzatore dell’innovazione. Un esempio pratico lo offrono gli economisti Dani Rodrik e Charles Friedrich Shabel, attraverso la DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), l’agenzia per la ricerca dell’esercito americano.
Il sistema di cui è il perno si basa appunto su una simbiosi tra Stato e privato, con commissari specializzati e lontani dalla politica a supervisionare il raggiungimento degli obiettivi previsti. Questo modello va sotto il nome di Missioni Orientate al Progetto: lo Stato sceglie un obiettivo da raggiungere - l’esempio più eclatante è quello dell’allunaggio - e cooperando con il privato punta a raggiungerlo, tenendo conto dell’incertezza insita nel processo di innovazione. Vincolando la partecipazione a questi progetti la buona occupazione, lo Stato può appunto farsene da garante.
Ma l’intervento dello Stato da solo non basta, le dinamiche interne alle singole aziende sono cruciali: con posti di lavoro precari e a bassa soddisfazione, l’innovazione rischia di restare al palo. Non solo: il rischio è che il trend dell’innovazione porti o alla sostituzioni di lavori senza benefici sull’economia o a posti di lavoro degradanti. Basti pensare alla nascente gig economy - citata in apertura - che sfruttando le nuove tecnologie nel ramo digitale ha finito per creare una classe di “imprenditori di sé stessi” sfruttati.
Sappiamo però che l’innovazione richiede una forza lavoro istruita e sana. E qui arriviamo al terzo pilastro: una maggior attenzione da parte dello Stato nell’istruzione e nella sanità, lontana dal mito dell’efficienza che l’ha caratterizzato in questi anni.
Che cosa significa per il nostro paese?
In precedenza si è detto che non esiste una strategia unica per un ritorno dei good jobs, ma questa va calata nelle varie realtà. Vediamo quindi che cosa significherebbe per il nostro paese. Sulla base di quanto detto prima, vi sono tre ingredienti fondamentali.
Il primo è l’istituzione di un salario minimo, misura presente in quasi tutti i paesi europei. Si tratta di uno strumento indispensabile per un paese con stipendi in discesa da trent’anni e con una bassa densità sindacale rispetto ai paesi dove è assente. La funzione del salario minimo è proprio quella di garantire un freno alla competizione al ribasso sul costo del lavoro, costringendo le aziende virtuose a investire per fare profitti. Inoltre il salario minimo ha degli effetti positivi anche sulla società. Sia sul lato della domanda, sia sul lato della soddisfazione personale.
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Ovviamente la questione diventa anche tecnica: una volta che si è d’accordo con l’istituzione di un salario minimo, il tema diventa su quale valore. Secondo la letteratura economica un salario minimo pari al 60% del salario mediano garantirebbe effetti non negativi sull’occupazione. Nel nostro paese questo significa un salario minimo stimato tra gli 8.25 e i 9.65 euro l’ora, al netto dei contributi previdenziali- anche se l’analisi svolta dagli autori si concentra sul settore manifatturiero.
Il secondo è un ritorno della politica industriale, ovvero quegli interventi dello Stato direttamente sui settori chiave dell’economia. Questo si ricollega al passato recente del nostro paese. Gli anni del boom economico sono stati caratterizzati dall’intervento del gigante pubblico IRI. Negli anni ’80 da traino dello sviluppo l’IRI diventa un carrozzone buono solo a tener in piedi aziende decotte, con legami sempre più fitti con la politica. Per questo - oltre agli impegni presi sul debito - si prese la decisione di privatizzarlo.
Poteva sì essere una buona idea, ma, come scrive Ugo Pagano su Domani, il tessuto industriale privato non era in grado di reggersi sulle sue gambe. Così ci ritroviamo con poche grandi imprese, spesso con lo Stato come azionista, e una marea di piccole e medie imprese a bassa produttività. Oggi l’Italia fa politica industriale, ma elargendo soldi alle aziende senza che questi abbiano effetti su innovazione o produttività.
Il terzo punto è ovviamente l’istruzione. Come mostra il grafico sotto riportato, il nostro paese è tra gli ultimi paesi OCSE per spesa in istruzione.
Anche qui però non è solo una questione di spesa: problemi come l’abbandono scolastico non dipendono dalla spesa ma dal sistema paese nel complesso. Una strategia basata sui good jobs incentiverebbe, soprattutto nelle aree interne e al sud, l’istruzione garantendo poi posizioni lavorative più remunerate e prospettive di carriera anche ai giovani nati nelle aree meno abbienti del nostro paese.
Immagine in anteprima: frame video del film di Ken Loach "Sorry We Missed You" via YouTube