Global change? Mentre il laboratorio della rivoluzione si incarta, la vera rivoluzione si fa nei laboratori della ricerca
10 min letturaPer chi non arriverà fino in fondo questa è la nota finale: Nota: Le informazioni sul volume tupamaro e le scarne notizie biografiche relative al giornalista del Manifesto, le abbiamo trovate su Wikipedia e lo diciamo, così in coda, solo per rovinare l'aperitivo a Mario Sechi, direttore de Il Tempo.
Il foliage autunnale e le telefonate tra Lavitola e Berlusconi, sono il crogiolo ideale di amalgami di riflessioni che altrimenti non avrebbero mai oltrepassato la soglia dell'inconscio.
Ci siamo armati di carta e matita (questi i gesti rivoluzionari veri dell'epoca 2.0) e abbiamo disegnato con la grafite proporzioni logiche del tipo “Craig Venter: cambiamento = x : irrilevanza. Lo stuzzicare assorto del mento su quell'incognita, nonostante non manchino candidatati con tutti i crismi per ricoprire il ruolo di soluzione, ci ha accompagnato per un po'. Poi è arrivato il commento di Valentino Parlato sul Manifesto a proposito della manifestazione di domenica a Roma degenerata, come si dice, in guerriglia urbana.
Citiamo: “È bene, istruttivo che ci siano stati [gli scontri]. Sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.”
Tutto bene quel che finisce male. Meglio se tutto fosse filato liscio certo, nondimeno è bene. Ed è istruttivo. Se si intende dire che dal male può fermentare il bene così da evitare il ripetersi di fatti del genere, facciamo nostro l'auspicio. Ma non siamo noi comuni mortali – secondo Parlato – evidentemente a dover trarre lezioni, ma le classi dirigenti. La rabbia sociale esplode in violenze che devono istruire le alte sfere sulla necessità di cambiare rotta e indirizzare la nave del governo verso mete di giustizia sociale, eccetera. La meta è giusta, avremmo da discutere sul resto.
“Sì ma adesso dimmi cosa c'entra lo scienziato con il vecchio giornalista militante”, ci sussurra una voce alla spalle. C'entra perché abbiamo deciso di cancellare la x e scrivere nello spazietto bianco il nome di Valentino Parlato. Ma sia chiaro, non è una proporzione ad personam. Il giornalista ha solo avuto la sfortuna che il suo articoletto ci sia passato sotto il naso nel social network di Zuck, proprio mentre si rifletteva di cambiamento globale, in questi giorni, sull'onda delle proteste dei movimenti indignati contro la gestione della crisi economica.
È come chiudere un circuito. La differenza di potenziale di cambiamento globale che separa uno scienziato innovativo dall'intellettuale comunista nato a Tripoli potrebbe fare le veci dell'alta tensione che ci permette di scrivere ora.
Inciso. Comunista è qui utilizzato per definire un'ideologia, constatare un fatto, assegnare un'etichetta, prendere atto di un pensiero, con nessuna accezione negativa/polemica. Quindi è fuori luogo che vi sentiate autorizzati a venirci a scrivere “Gasparri suka” sui muri di casa. “Servi del regime” invece sì, perché non potremmo dimostrare il contrario e non ci affanneremmo a negarlo. Solo a protestare anche noi contro un potere infame che non ricompensa i suoi servi. Siamo martiri e ci attende un abbonamento Mediaset Premium in paradiso.
Non che Valentino Parlato da solo debba dividere le acque degli oceani e spianare le montagne. Il cambiamento globale non fiorirà dall'inchiostro degli articoli suoi come di altri.
È che Parlato descrive la violenza degli scontri come male positivo perché carico di potenziale rivoluzionario.
Così egli scarica la frustrazione per non aver fatto la rivoluzione a vent'anni su chi vuole farla oggi, pur se dotato di un pensiero debole e incoerente e immerso in una condizione sociale completamente diversa. Così il nostro si abbiocca nell'area grigia, mettendosi comodo comodo ad assistere allo scoppio delle bombe carta che, per carità, meglio che non ci siano ma vedrai che qualcosa dal casino lo tiriamo fuori, voi andate io schiaccio un pisolino intanto, non fate troppo rumore.
Valentino Parlato è convinto che basti una crisi finanziaria anche grave per fare giustizia e dargli ragione in tarda età. Non proprio una posizione credibile. Gli indirizzi offerti da Parlato sono quelli di chi contro il sistema si scaglierebbe a prescindere, anche se andasse a meraviglia invece che a catafascio, perché, in modo del tutto legittimo, aderisce ancora ad una corrente di pensiero che ipotizza l'alternativa totale ad esso. E con lui tutti quelli che ancora scendono in piazza avvolti da vessilli di partito che con l'indignazione per la crisi e per la degenerazione autistica del potere hanno a che fare solo per una coincidenza, un incrocio.
Quale sia il garbuglio è presto detto. Uno può essere comunista e/o precario, ma a manifestare contro il governo e la crisi, ci va da comunista o da precario o da entrambi? Posto che per avercela contro governo/crisi non è indispensabile essere né comunisti né precari. Ci fermiamo qui sennò non ne usciamo vivi.
Una parte assapora il gusto di appoggiarci il proprio cappello ideologico e rivendicare la correttezza delle proprie idee, dopo aver temuto che fossero state spazzate dalla storia. E anche se fossimo di fronte alla “crisi del liberalcapitalismo” non vediamo per quale inesorabile sillogismo dovrebbero tornare ad avere ragione gli altri, a meno che in questo sillogismo non ci sia la premessa che la realtà è qualcosa che si taglia come i quarti di manzo.
Forse è solo un modo come un altro per ribadire la diversità e la purezza della propria ortodossia ma al punto in cui siamo è un esercizio fiacco, che non è più sufficiente a farsi accreditare come guru di alcunché, tanto meno del cambiamento ambìto con sincerità da tante persone oggi.
Torniamo alla proporzione da cui siamo partiti. Cambiamento/irrilevanza. E la mettiamo così: Craig Venter cambia il mondo, Valentino Parlato no. Spezziamo un ramo di betulla a favore del secondo.
La questione non si pone solo per un vecchio intellettuale comunista che scrive nel 2011 su un quotidiano. Investe tutta una generazione, forse anche due, di movimenti, attivisti, politici, pensatori, guru che da Genova 2001 a oggi, dibattono di alter/antiglobalizzazione antisistema e di altri mondi possibili.
Nell'arco di tempo in cui si è assistito al flusso e al riflusso dei movimenti, c'è chi ha già fatto passi da gigante verso la soluzione concreta di alcuni problemi globali, per non dire della comprensione dell'universo dentro e fuori di noi. Non è cambiamento urlato, ma vero, reale e ne coglieremo i frutti negli anni a venire. Lasciamo fuori dalla porta il dibattito filosofico sulla tecnica. Il punto del ragionamento è che quella scientifica è un impresa in grado di rivoluzionare il mondo e la vita. E il verbo “rivoluzionare” ci sta tutto, non si carica di pesantezza retorica in questo contesto, a differenza di altri in cui si vagheggia di palingenesi e lavacri e di altri ancora dove questa azione si riduce a un urlo che basta appena a sfogare la rabbia di cinque minuti.
Negli anni '10 e '20 del XX secolo Thomas H. Morgan indagava sul ruolo dei cromosomi nell'ereditarietà, scopriva che essi sono i portatori dei geni e diventava così uno dei padri delle genetica moderna. Passando per la nascita della biologia molecolare e decine di altre scoperte – limitandoci solo alle scienze delle vita – si arriva al nostro Craig Venter che nel 2000, insieme (anche se in concorrenza) al consorzio internazionale guidato da Francis Collins, pubblica i primi risultati del sequenziamento del genoma umano. Nel 2011 Venter dirige il suo istituto di ricerca e la sua nuova azienda, ha appena terminato di compiere un altro viaggio per gli oceani con il suo Sorcerer II, durante il quale ha campionato acqua marina per isolare i genomi dei microorganismi che vi vivono (e si diverte, com'è giusto) e compie ricerche su genomica umana, ambientale, vegetale, malattie infettive, produzione di biocarburanti.
Mentre Morgan allevava e studiava i moscerini della frutta, c'era chi parlava di superamento del capitalismo e fondava i partiti comunisti. Nel 2011 Morgan vive nelle sue scoperte ancora valide, ma Venter si occupa di tutt'altro.
I partiti comunisti – almeno quelli che non hanno accettato le svolte successive – insieme ad alcune aree - definiamole genericamente - dell'alternativa, parlano ancora di superamento del capitalismo.
Il punto è quindi l'efficacia di due diversi approcci al mondo, lo scarto tra un pensiero che la realtà la rivoluziona e un pensiero che non riesce a farlo.
Che sia un miscuglio di pere e mele è una facile obiezione e il rischio c'è, ma ciò che si fa è in fondo solo confrontare una hard science con una soft science, una scienza fisica e naturale con una scienza sociale (e anche all'interno dei due campi delle scienze naturali e di quelle sociali si può stabilire una scala di hardness - o softness - tra le discipline che afferiscono alle due aree).
Va sottolineato che il grado di hardness/softness non è una parametro che stabilisce il grado di verità di un'affermazione fatta da una disciplina, tanto meno il valore “etico” di quest'ultima o la sua “rilevanza” nel mondo, ma solo il metodo e gli strumenti utilizzati.
Una seconda obiezione è che questo sia un confronto sbilanciato, perché da una parte si preleva una disciplina intera, la biologia, dall'altra solo una corrente di pensiero - il marxismo - all'interno della scienza politica ed economica. La sopravvivenza della validità del confronto a nostro avviso si deve al fatto che quella particolare dottrina, nel momento della sua fondazione, aveva preteso definirsi scientifica - socialismo scientifico – a dispetto delle elaborazioni “utopistiche” anteriori. La pretesa di scientificità era - qui sì - anche un'etichetta, un marchio di verità impresso alle proprie affermazioni, fatte diventare predizioni di un inesorabile sviluppo futuro degli eventi, fondate sulla convinzione di estrapolare dall'analisi sociale dati empirici, teorie, leggi.
(Marxista o no, comunque è vero che l'economia è forse la più hard tra le scienze soft e una critica del potere di previsione e di incisione nella realtà di questa disciplina potrebbe investire anche correnti all'interno di essa molto diverse da quella marxiana/comunista).
Ma riportiamo il dibattito all'oggi. La nostra sarà l'impazienza di chi non sa accettare i tempi lunghi dell'elaborazione politica e programmatica, però la soglia 2K l'abbiamo passata da un pezzo e se alcune strade dovessero rivelarsi impraticabili non si farebbe una brutta figura ad ammetterlo. In concreto, qui si è per il post-capitalismo e post-tutto-quello-che-si-vuole, ma solo se si sottopongono all'attenzione generale soluzioni praticabili, visioni liberate dalla semantica emotiva e dall'attaccamento estetico all'universo delle proprie bandiere. (Il nostro scienziato-imprenditore Venter del superamento del capitalismo non è molto entusiasta comunque).
Venter, mentre cerchiamo loghi ganzi per l'ennesimo movimento, costruisce a partire dai “pezzi base” naturali il primo genoma artificiale, il software biologico in grado di far funzionare un nuovo microorganismo che sarà il primo di una serie di sistemi di produzione di molecole che potranno un giorno risolvere alcuni dei più pressanti problemi globali. Medicina, ambiente, energia. Tre parole non irrilevanti.
Nei bar – forse nei bar proprio no ma insomma – si discute ancora di ingegneria genetica, mentre ormai siamo all'ingegneria genomica. Faremo poco per convincervi che questo c'entri col discorso sulla crisi economica e le proteste indignate perché a noi invece sembra chiaro come il sole di mezzogiorno che se da qui a trent'anni sarà ancora possibile avere qualche opportunità di sviluppo e crescita sostenibili, queste saranno offerte anche dalla scienza, in tutti i campi. Ma al patto di applicare politiche d'investimento pubblico in ricerca, che è quella cosa che si sta estinguendo in Italia grazie alla lungimiranza di una classe dirigente di menefreghisti.
E ci piacerebbe moltissimo vedere per le strade un movimento che incalzasse i nostri governanti su questo tema, quando si parla di sostenere la cultura tutta, anche in funzione della crescita economica, oltre che naturalmente per il suo valore in sé.
Non ce l'abbiamo perciò solo con i vecchi militanti del marxismo (che pure di analisi sociali non banali ne ha fatte). Ce li siamo scelti in principio come interlocutori perché sono l'esempio di un certo mondo rinchiuso in se stesso e che si presenta ancora come l'alternativa radicale ai fallimenti della politica e dell'economia, ma l'unico orizzonte in cui si muove è sempre quello, in fondo, della politica e dell'economia.
La ricetta Parlato? Nazionalizzazioni come se non ci fosse un domani. Così abbiamo risolto il problema della crisi. Ora, può pure essere ma forse se ci mettiamo a ragionare può capitare di imbattersi in qualche strada nuova, che non sia necessariamente incisa a fuoco nel decalogo di questa o quella religione politica.
La politica. Dio solo sa quanto servirebbe ora la politica. Ma serve anche il coraggio di esplorare percorsi non banali. E questo coraggio lo si deve chiedere sia a chi governa sia a chi protesta contro di esso. È il coraggio che segue alla consapevolezza di trovarsi a un punto di svolta, uno di quegli incroci della storia in cui si avverte l'opportunità concreta di un cambiamento reale.
E questa volta se non lo otterremo sarà anche responsabilità nostra e di chi raduna movimenti di protesta. Ma questi nuovi movimenti percepiscono l'importanza della questione? Sembra proprio di no. Il timore è che, appena nati, stiano già scivolando verso la riproposizione di formule trite o vaghe. Scorriamo le liste di collettivi e coordinamenti e vediamo nomi e sigle di cui si conosce la visione, non sempre sensibile al tema “scienza e tecnologia come opportunità di progresso” (per indifferenza o diffidenza). Del resto non sono movimenti organici, sono un insieme di esperienze collettive e individuali e bisognerebbe confrontarsi di volta in volta nel merito.
Non vogliamo essere presi per quelli che tessono l'elogio delle magnifiche sorti e progressive. Il positivismo è una semplificazione rozza della realtà e della vita. Si tratta solo di dire al mondo in subbuglio da una parte all'altra delle barricate ideologiche: “ehi, forse qualche idea nuova può venire anche da qui”, se non vogliamo che tutti i nostri sforzi cadano nell'oblio dell'irrilevanza. Ché davvero sarebbe un peccato.
Per farci perdonare di aver polemizzato con lui a sua insaputa, promettiamo a Parlato di procurarci un volume da lui curato: Guerriglia tupamara. Interviste-testimonianze. Appendici: Schede sui tupamaros e sulla guerriglia, documenti politici.
Speriamo che basti a chiudere in amicizia questa ideale conversazione.
Nota: Le informazioni sul volume tupamaro e le scarne notizie biografiche relative al giornalista del Manifesto, le abbiamo trovate su Wikipedia e lo diciamo, così in coda, solo per rovinare l'aperitivo a Mario Sechi, direttore de Il Tempo.
Antonio Scalari
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