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GKN, cronistoria personale di un innamoramento collettivo

28 Settembre 2024 16 min lettura

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GKN, cronistoria personale di un innamoramento collettivo

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Pubblichiamo un estratto dal libro 'GKN - Cronistoria personale di un innamoramento collettivo' di Silvia Giagnoni. Silvia Giagnoni è scrittrice e lecturer in Communications & Media Studies presso la John Cabot University di Roma e in questi anni ha seguito su Valigia Blu tutte le vicende relative alle sorti dei lavoratori dell'ex GKN di Campi Bisenzio.

Introduzione

di Goffredo Fofi

Scrivo queste brevi pagine con la coscienza di non essere la persona più adatta a farlo. So della Gkn quello che sanno i lettori dei quotidiani che ancora possono venir detti di sinistra e gli ascoltatori di qualche radio libera. Non mi intendo di fabbriche e di lavoro, se non quel tanto che un’antica militanza torinese mi ha aiutato a capire al tempo dei grandi scioperi della Fiat e altri, al Nord ma non solo, e ho, come tutti, qualche amica/o che milita nel sindacato, qualche amica/o che, in grazia di una giovinezza vissuta nelle più politiche delle “buone pratiche”, tuttora sa raccontarmi di situazioni e di lotte.

Conosco peraltro l’autrice di questo diario-saggio grazie a precedenti lavori, e ho un’assoluta fiducia nella purezza e nell’acutezza del suo sguardo. D’altronde non c’è poi troppo da capire, sul fondo - in tempi di trasformazioni “epocali” che coinvolgono il mondo del lavoro, il mondo della politica, il mondo della cultura. L’economia e la società.

C’è molto da imparare da queste pagine, e molto che può confermare convinzioni antiche e recenti. Partendo dalle recenti, e dicendola rozzamente, il Capitale ha vinto su tutti i fronti o quasi, e però il Lavoro, il mondo dei lavoratori, non è mai stato sconfi tto del tutto – ce lo insegna la Storia, anche se ha più che mai ragione la Morante defi nendola “lo scandalo che dura da diecimila anni” -, ed è sempre pronto a ricominciare da esperienze concrete, da piccole – ma a volte grandi – azioni di resistenza, di lotta. (“Mai dire mai”, ci ripeteva Bertolt Brecht, ed è diventata, questa, una nostra divisa...). Di breve o - come nel caso della Gkn di cui Giagnoni racconta le azioni e le convinzioni dei suoi “dipendenti”, dei suoi operai -, di lunga, di lenta, di faticosa, e bensì ostinata resistenza.

Di fronte a questa cronaca, è impossibile non pensare a tanti saggi, romanzi, memorie, film, canzoni che hanno scandito la storia del movimento operaio internazionale, le sue vittorie e le sue sconfitte. Dalla Russia della Rivoluzione all’America dei primi del Novecento, dal tempo dei “fronti popolari” a quello delle dittature, nel quale tuttavia rimase vivo “un seme sotto la neve”, nel ricordo delle lotte di ieri e nel sogno di quelle a venire.

Si affollano nella memoria di chi legge questa cronaca così recente e così attuale i ricordi di opere che, sui vari fronti dell’espressione artistica (dove fu un tempo ricorrente il tema della “presa di coscienza”) come delle inchieste e riflessioni della sociologia e delle ricostruzioni della storia, hanno raccontato simili avventure di gruppo, simili imprese collettive. Nei loro momenti di “stasi” come in quelli di “febbre”, o in entrambi e nel loro succedersi, tra alti e bassi, tra vittorie e di sconfitte. E di irruenza o di ripiegamento, di grido o di silenzio, di scontri o di trattative.

Uno dei primi capolavori del cinema muto, nella nuova Russia, si intitolava Sciopero (1924, pochi anni dopo la Rivoluzione e prima della imposizione alle arti del “codice” stalinista, e lo diresse Ejzenštejn), ma quanti sono i fi lm e i documentari che hanno descritto altri scioperi, altre lotte, in ogni parte del mondo? Tanti anni fa a Torino, Paolo e Carla Gobetti, avendomi come assistente ed è per questo che lo ricordo, “per farmi bello”, girarono un lungo documentario, appunto Scioperi a Torino, sullo sciopero della Lancia che annunciava quello grande della Fiat di poche settimane dopo, e con un’amica da tempo scomparsa, Gianna Germano Jona, agimmo da assistenti factotum, imparando giorno dopo giorno e manifestazione dopo manifestazione, il linguaggio degli operai, anzi meglio: delle operaie, ché vi erano in maggioranza.

(Un ricordo bellissimo fu quello di altri momenti rituali, il giorno dell’8 marzo quando dei giovani militanti sindacali o della Fgci e qualcuno dei Quaderni rossi si presentavano agli ingressi delle fabbriche dove predominava la manodopera femminile distribuendo mazzetti di mimose… un rito bellissimo e che da qualche parte è forse ancora in uso, che mi era capitato di praticare anche nella periferia parigina dove vivevano i miei, ma lì il fiore era il mughetto…)

È una lotta che non ha mai fine, quella tra il Lavoro e il Capitale, ma sono ben rari – da troppo tempo, nel corso degli anni e oggi soprattutto - i momenti in cui il Lavoro riesce a far sentire la sua voce, vincendo, nel superamento delle divisioni interne e avendo ben chiara la portata politica delle sue azioni. E però qualcosa è cambiato, in questi nostri tempi opachi, cui il Capitale sembra avere di nuovo “il coltello dalla parte del manico”. Non sta mai fermo, il Capitale, e ha al servizio, pagando, tutti i cervelli di cui abbisogna, poiché la scienza – nei suoi molteplici aspetti – è pur sempre comprabile, e gli uffi ci studi del Capitale sono più attivi che mai e finanziano la ricerca soprattutto di ciò che gli serve, che dà sempre più forza al Capitale.

Si diceva un tempo che nella storia del capitalismo “i figli" (i nuovi arrivati sulla scia delle ultime invenzioni) uccidono sempre i propri padri e prendono il loro posto, si diceva che è ben questo “il Progresso”. Ed è per questo che nell’ultimo grande “ciclo di lotte”, internazionale e non solo giovanile, ci fu chi affermò molto saggiamente che i movimenti, rivoluzionari o riformisti che fossero, avessero bisogno dalla loro parte di scienziati che fossero insieme “esperti e rossi”, veri scienziati e bensì con idee di sinistra, disposti a mettersi al servizio non del Capitale ma del Lavoro - e delle avanguardie e delle rivolte per un mondo migliore.

Oggi la Scienza vive e sopravvive grazie al Capitale, nel mentre si assiste a una mutazione antropologica quasi mondiale, che i sociologi più attenti definiscono da tempo come la “cetomedizzazione” massicciamente diffusa della popolazione dei paesi più ricchi, dei paesi che, sulla scena mondiale contano di più – e dei quali fa parte anche l’Italia, subendone tutti gli effetti sul piano sociale e culturale.

I mezzi che il Capitale ha a disposizione sono infiniti (anche quelli atti a indirizzare la produzione artistica e culturale) e si può ben dire che, almeno questa tornata, sia stata vinta e stravinta dal Capitale a danno del suo antico nemico il Lavoro, non sempre servo. E questa vittoria non poteva non incidere sulla storia della sinistra, mettendone in crisi le sue stesse basi, ché la Cultura capitalistica (nelle sue tante – non infinite - forme) è riuscita a scompaginare le file del suo antico nemico il Lavoro, attraverso la corruzione dei suoi rappresentanti, la corruzione degli uni e la passività degli altri. E “gli uni” sono soprattutto quelli che dovrebbero essere le avanguardie dei lavoratori, i partiti della sinistra (e accessoriamente e in buona parte, per star dietro alle trasformazioni del suo stesso pubblico e mandante, i sindacati).

È questo il nodo più duro da sciogliere, la volontaria agonia della sinistra storica, nel mentre che i movimenti si facevano scarsi e “recuperabili”, e c’è anche chi si azzarda non senza ragione a parlare di “tradimento”. La sinistra ufficiale (l’altra non c’è o è fiacchissima, non solo numericamente) si adegua e, nell’illusione di diventare centro, può mutarsi facilmente in destra, o in una blanda sudditanza nei confronti del potere illudendosi di poterlo condividere...

La lotta di cui Giagnoni si è fatta narratrice, cronista, si muove anch’essa su questo sfondo, fa parte di altre, non poche, che per questo sono tanto più eroiche, tanto più ammonitrici. Sullo sfondo, in una sorta di egoistica indifferenza, le vittime del lavoro, i morti prodotti da incidenti quasi sempre evitabili, prodotti dal cinismo del Capitale e dalla indifferenza (sì, indifferenza, ché vengono considerati un prezzo da pagare alla modernizzazione, alle “ristrutturazioni”, alle mutazioni che ne seguono viste come inevitabili, e quasi un destino) della borghesia.

Di una buona parte – complice servile anche quando sembrerebbe non rendersene conto – del capitale internazionale, di “nuovi padroni,” figli concorrenziali di padri ignobili. Il nodo da sciogliere perché qualcosa possa davvero cambiare è quello dei movimenti, oggi fi acchi e dispersi (e sì, il proletariato e i ceti che gli sono più prossimi sono davvero diventati o tornati a essere “un volgo disperso che nome non ha”).

Tuttavia – citando ancora Brecht – “il giorno più lungo eterno non è”, ed esperienze di lotta come quelle per i diritti operai, per la difesa della natura, per la giustizia sociale, per l’onesta accoglienza dei migranti, per una scuola non conformista e liberatoria, per una cultura (che almeno in Italia sta attraversando un periodo di scialbo conformismo, di strapaesano narcisismo, di universitaria compromissione, di insulso sentimentalismo) che torni a mostrare le unghie e a proporre un pensiero critico di analisi e di spiegazione il più possibile attiva – legata cioè alle pratiche, anche le più minoritarie - che spieghi il presente e che inviti e prepari ad azioni sagge e decise, che dia il posto che merita alle lotte operaie, nelle mutazioni attuali del lavoro - e a quelle studentesche avanguardia di un ceto medio di cui devono combattere l’intima corruzione e la colpevole cecità sul futuro suo e di tutti.

Che cento lotte fioriscano, che si colleghino tra loro, che diano vita a nuove organizzazioni sagge e decise, che si ritorni a pensare seriamente al domani, e sì, al “sole dell’avvenire.”

Perché questo libro

“La lotta trasforma l’animo e l’intelligenza”
(I miei sette figli, Alcide Cervi e Renato Nicolai, p.48)

24 luglio 2021, la mia prima manifestazione davanti alla Gkn. Il sole batte forte, ho il ciclo, la prole che freme a casa dei nonni per tornare al mare. Siamo tantɜ, forse cinquemila. Avanziamo lentamente su via Fratelli Cervi — l’afa, tante mascherine, i cori goliardici contro Giani a due passi da Giani.

Ho appreso dai giornali e dai social ciò che è accaduto a Capalle, nel comune di Campi Bisenzio, e come tante altre persone, in quei primi giorni di assemblea permanente, sono così indignata, così presa dalla volontà di mostrare che sto dalla parte giusta, quella dei lavoratori, che subito voglio la maglietta del Collettivo; ma ho solo 5 euro con me e la T-shirt viene venduta a 10.

“È tornata apposta dal mare per venire alla manifestazione”, dice sorridendo Pasquale rivolto ad altri due operai. È il primo lavoratore Gkn con cui scambio due chiacchiere. (Non so ancora che è stato lui l’ultimo ad andarsene dallo stabilimento, intorno alle 6:10 la mattina del 9 luglio, dopo aver fatto il giro. Non so ancora che diventeremo amici.)

Gli altri due annuiscono, e Pasquale mi allunga la T-shirt verde militare con il simbolo e la scritta “Collettivo di Fabbrica” Lavoratori Gkn Firenze. Lo ringrazio. In verità, sono tornata dal mare per rifare dei documenti visto che qualche settimana prima, antecedente al 9 luglio, mi hanno rubato il portafoglio. Ma poco importa: oggi ho deciso di essere qui e ora indosso con orgoglio la mia maglietta di lotta.

Se il 24 luglio segna la mia prima manifestazione con il Collettivo, la decisione di scrivere un libro nascerà dopo il 18 settembre, e così l’impegno (conseguente) che ha portato alla stesura di pagine e pagine di appunti, ore e ore di registrazioni, assemblea dopo assemblea, decine di interviste formali e informali, dalla chiacchierata con birra al Bar Collo (ma non mollo)–e mai bar fu più propriamente nominato — alle interviste nella saletta della RSU a quelle nell’ufficio del sindaco Fossi nell’incantevole cornice di Villa Rucellai a Campi Bisenzio, per arrivare alle conversazioni più intime in viaggio, su un autobus diretto a Roma o a Genova. 

Ad inizio agosto, entro a far parte del gruppo di supporto—partecipo con la mia figlia più grande all’assemblea aperta in Gkn e mi segno, quasi per caso, a fare un turno proprio l’11 agosto, quando si terrà la manifestazione notturna a Firenze. Questo impegno, dunque, ha messo a dura prova il mio stesso clan — marito, prole, nonnɜ — perché ha fagocitato pensieri, parole, emozioni.

Come altrɜ migliaia di solidalɜ che si sono unitɜ nei mesi alla lotta del Collettivo, rimanendone “appicciatɜ”, anch’io sono stata presa da questa sorta di innamoramento collettivo, appunto. Anch’io ho fatto mio il motto #Insorgiamo.

Si è parlato tanto del tempismo dei licenziamenti, indubbiamente parte di un calcolo di Gkn/Melrose sulla capacità di reazione dei lavoratori alla chiusura della Fabbrica. Ma l’azienda ha sottovalutato un elemento importante, forse più difficile da prevedere: nell’estate del 2021, esisteva un generale bisogno di stare insieme e ritrovarsi, dopo oltre un anno di restrizioni alla socialità volte a contenere la pandemia. Una socialità negata perché stare insieme, da un giorno all’altro, ha significato contagio, malattia, morte. La comunità che ha abbracciato la Fabbrica dopo il 9 luglio ha soddisfatto anche questo bisogno collettivo, ed è mia convinzione che la lotta in Gkn abbia invece beneficiato proprio del momento in cui l’azienda ha deciso di chiudere. Questo, non era stato calcolato. A rendere tutto più epico c’è stata la potenza aggregante della musica, presente in questa lotta nei cori da stadio trasformati da Snupo & co. in inni alla giustizia sociale e all’insorgenza, appunto. (Non mi ricordo chi ha detto che non c’è movimento che si rispetti senza una colonna sonora potente, ma aveva ragione.)

Per me, rientrata da poco in Italia dopo quindici anni negli Stati Uniti, è stato doppiamente importante perché ho riscoperto un modo di stare insieme — meno strutturato, più informale, mediterraneo — che mi era mancato negli Stati Uniti, e che la crisi pandemica ci aveva tolto anche in Italia. In particolare, ha voluto dire uscire dall’isolamento domestico che molte famiglie (e specie madri) hanno subito con la chiusura prolungata delle scuole, chiusura ed eccessive restrizioni contro cui avevo lottato per mesi con Priorità alla Scuola.

Sono rientrata in Italia nel 2018; nel mio tempo in America, “mi ero fatta una posizione”, come si suol dire. Se fossi rimasta, sarei oggi probabilmente full professor, cioè il massimo grado nella carriera accademica.

Rientrando, ho anche deciso che quello non era il futuro che volevo. Ora che avevo dimostrato che ce la potevo fare, era il momento di dedicarmi a ciò che desideravo: scrivere. Siamo dunque venutɜ in Italia perché non volevamo che le nostre figlie crescessero in un Paese violento, schiavo della lobby delle armi, ma anche perché avere una stabilità lavorativa era fantastico, ma non era tutto, e io volevo (voglio) ancora tutto. E lo voglio proprio nel Paese dove sono nata e cresciuta.

Chiariamoci: non pretendo di avere tutto, ma rivendico il diritto di aspirare ad averlo, non solo per me ma per le future generazioni. Non è un sofismo. Si tratta di una differenza cruciale. Perché il diritto a desiderare, a campare del mestiere che si è scelto, per esempio, quello non può essere negato, pena la morte sociale di un paese. Chi se ne va, chi sta fuori—in Inghilterra, Svezia, Germania, Australia, Canada, ovunque—lo fa per scelta, e spesso (il 70% di chi parte) non ha una laurea, sebbene la propensione a emigrare sia doppia rispetto alla popolazione generale tra chi un’istruzione accademica ce l’ha (Pugliese 53). Di rado sceglie di rientrare. Lo storico Matteo Sanfilippo parla di “insoddisfazione giovanile per l’Italia” (enfasi mia), laddove “le criticità lavorative si assommano a una più generale difficoltà di vivere”. (cit. in Pugliese 61).

Il “tutto,” a cui mi riferisco, dunque, unisce il bisogno di sostegno economico per il lavoro creativo e intellettuale delle donne di cui hanno scritto (diversamente) da Virginia Wolf a Harper Lee alla volontà di riscatto sociale espressa in quel manifesto politico in forma di romanzo che è Vogliamo Tutto di Nanni Balestrini. “Avere tutto” non equivale a “fare tutto”, come suggerisce Rossella Forlè rileggendo oggi Having it all (1982) di Helen Gurley Brown. “Avercela fatta” significa fare un lavoro che ti permetta di vivere e che ti piaccia. Appunto. Raggiungere questo obiettivo (personale) si è fuso al desiderio (collettivo) di cambiamento che ha scandito la stesura di questo libro.

Per onestà intellettuale, politica, ma soprattutto di genere e di classe,  devo poi dire due parole sulle condizioni materiali in cui è stato svolto il lavoro culturale — di ricerca, intervista, studio e soprattutto scrittura, riscrittura, revisione — che ha prodotto il testo che avete davanti. Ho lavorato nei fine settimana, talvolta di notte, sottraendo spesso il tempo ai giochi e alle attività con la prole o alla preparazione di roba molto più accademica che sarebbe stata più “utile” al mio interessuccio individuale e professionale. Perché, ahimè, non è frutto di nessun regalo di Natale, come fu per Harper Lee, né anno sabbatico, come si conviene a chi lavora come me in ambito universitario. Per avere “una stanza tutta per me,” ho dovuto dare qualche calcio alla prole da sotto la scrivania mentre lavoravo, un po’ come si trovava a fare Natalia Ginzburg, oltre che lottare costantemente contro quei demoni (personificati e non) che mi ripetevano che non ero certo la persona più adatta a scrivere un libro sulla vicenda della Gkn…

Questa è una cronistoria particolare, un racconto di oltre venti mesi di lotta — un racconto parziale, scostante, forse anche incoerente, come lo sono del resto le fasi dell’innamoramento. Con alti e bassi, incluso il sentimento percepito quando si è forzatamente lontanɜ dall’oggetto amato. Clelia, studentessa universitaria solidale che ha girato l’Italia con l’Insorgiamo Tour, ha usato la parola “dolore” per descrivere il sentimento che provava a non essere più “tutti i giorni in Fabbrica.” Una parola forte, eppure coglie il senso di impedimento, autoimposto nel suo caso, il non poter stare nel luogo in cui senti che devi e vuoi essere, perché sei parte di un tutto che lavora ad uno scopo alto — riportare il lavoro in via Fratelli Cervi e farlo senza perdere diritti e, anzi, creando un polo industriale avanzato e in armonia con il territorio. Sei parte di un processo di cambiamento che ti procura un senso di pienezza e, oserei dire, di missione. E quindi, sì, dolore, per non poter essere dove sai di stare bene. L’ho provato quando ero in Alabama a trovare la famiglia di mio marito, bloccata oltre il tempo delle vacanze natalizie per via della positività al Covid e quindi impossibilitata a tornare alla Fabbrica, “alla nostra casa,” come l’ha chiamata la sociologa Francesca Coin, con un’espressione che ha colto appieno cosa rappresenti per il mondo orfano della sinistra italiana il presidio a Campi Bisenzio.

In quel periodo, la Fabbrica cessava di essere Gkn e diventava Qf, rilevata dall’imprenditore Francesco Borgomeo, l’ondata di Omicron travolgeva tanti lavoratori, il 19 gennaio 2022 veniva firmato da nuova proprietà, sindacati e istituzioni un accordo quadro con un cronoprogramma per la riconversione produttiva. Continuava, però, la mobilitazione: l’assemblea permanente si faceva garante del processo di reindustrializzazione, e al contempo proseguiva l’Insorgiamo Tour nel resto d’Italia, per raccontare ancora la vertenza e la resistenza in corso da parte dei lavoratori ma anche per ampliare la convergenza, proseguendo nel percorso tracciato già il 10 luglio 2021, cioè il giorno successivo alla “occupazione” della Fabbrica. Durante la prima assemblea, viene deciso che lo slogan è “Insorgiamo,” (e non semplicemente “la Gkn non si tocca”), che questa dovrà essere una vertenza-simbolo e lo sarà solo se il Collettivo riuscirà a comunicare che riguarda tutte e tutti.

I licenziamenti in Gkn — licenziamenti di lavoratori con contratto a tempo indeterminato, con l’art.18 in azienda e un integrativo come pochi — sono lo schiaffo finale, l’apoteosi dell’arretramento decennale di diritti acquisiti nel mondo del lavoro dopo anni di lotte.

È una deflagrazione: saltano le garanzie, le tutele contrattuali, e quindi anche i parametri e le certezze su cui sono state basate scelte di vita. Se voglio, ti licenzio. Punto. Non ci sono intoccabilɜ . (Con l’evoluzione della vertenza, forse proprio come reazione alla capacità di questa lotta di far convergere così tante realtà, per il suo essere dirompente e nuova, si arriverà al “se voglio, non ti pago”).

“Non abbiamo mai pensato di essere diversi dagli altri”, ha dichiarato Dario Salvetti alla trasmissione Fahrenheit durante la presentazione del libro Insorgiamo. “Abbiamo studiato e imparato dalle vertenze prima di noi. (…) Portavamo con noi le lezioni della Fiat, della Whirpool, della Bekaert (…) La nostra vertenza doveva essere qualcosa di diverso, il punto da cui iniziava un riscatto.” (Radio 3- Fahrenheit, 29 aprile 2022).

Di tutte le vertenze a cui fa riferimento Dario, ho scelto di raccontarne più in dettaglio una, quella della Bekaert, per vari motivi, non ultimo il comparto, che accomuna l’ex Pirelli all’ex Gkn—quello della componentistica dell’automotive — ma anche per il posizionamento all’interno di un’industria in crisi che ha visto negli ultimi anni importanti ristrutturazioni con la fusione di PSA e Fiat Chrysler Automobiles nella holding Stellantis, per la grande attenzione mediatica iniziale che accomuna le due vertenze, la relativa vicinanza geografica, il comune tentativo di autogestione tramite la cooperativa, il cui esito, nel caso della ex Gkn, è ancora incerto al momento in cui chiudo il libro.

Qui troverete le lavoratrici e i lavoratori ex Gkn — moltɜ di loro nel corso di questi mesi di confronto e condivisione di esperienze hanno maturato una propria coscienza politica e di classe. Operai come Francesco che, ritrovatisi a raccontare della loro storia collettiva di fronte a studentɜ, hanno scoperto con orgoglio e anche stupore, di esser “maestri di qualcosa”. Ho voluto raccontarli, individualmente, perché oltre al noi del Collettivo, ci sono anche loro — le persone, con le loro speranze, paure, desideri, sogni, rimpianti.

Il punto di vista in questo lavoro non è collettivo né pretende di esserlo. Questo mio contributo si pone nella tradizione del giornalismo letterario americano, in particolare del cosiddetto New Journalism, e anche per una certa dose di irriverenza, contiene interviste con vari player di questa storia, tra cui lo stesso proprietario di Qf, Francesco Borgomeo, nel tentativo di restituire la mia verità su questi mesi di lotta.

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Questo libro, dunque, vuole essere un tassello di un discorso creativo, analitico, politico su quello che è cominciato in via Fratelli Cervi e che è ormai corredato di uno spettacolo teatrale, un audio-racconto, un documentario, una pubblicazione sul piano di riconversione della fabbrica “dal basso”, un instant book, persino un romanzo.

La forma del racconto scelta è quella diaristica, un prendere nota, perché è ciò che ho fatto in questi mesi: quell’impegno, appunto, che ho preso con me stessa nel provare a documentare l’evoluzione di una comunità.

Mi è toccato un privilegio anche più grande — quello di avere, nel mio piccolo, contribuito a costruirla.

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