Giuseppe D’Avanzo amava i girasoli
2 min letturaSono cresciuta a pane, Repubblica e D'Avanzo. La sua scomparsa mi ha lasciato senza fiato. E non trovo le parole, perché forse le parole proprio non ci sono, per dire che cosa immane è per me la sua morte.
Non esagero, sono sicura, se penso che oggi il nostro Paese, la nostra democrazia sono un po' più deboli senza di lui. Ha fatto da baluardo per tutti noi, era il nostro cane da guardia che ci difendeva dagli abusi del potere. E il potere lo temeva (e forse l'odiava, perché quello che non capisci, il giornalismo puro, il giornalismo non asservito, finisci per odiarlo) e faceva bene a temerlo perché la sua più grande forza era l'uso pubblico della ragione contro mistificazioni, disinformazione, contro la deriva.
Ho pochi ricordi di lui, ma dopo l'ultimo saluto oggi all'Aranciera sento che li voglio condividere. Sono ricordi piccoli, che possono andare ad aggiungersi a quelli che in molti in questi giorni hanno scritto. La memoria, in fondo, è la nostra salvezza.
La prima volta che l'ho visto è stato al Festival Internazionale del Giornalismo che organizzo insieme a Chris ogni anno a Perugia. Era il 2010. Me lo sono ritrovato davanti all'improvviso. Era lì mischiato tra il pubblico. Non era ospite del festival. Si sedette in mezzo ai ragazzi e seguì l'incontro che in quel momento si svolgeva al Teatro Pavone. Mi chiese di non dire che lui era lì.
Grazie a Vittorio Zambardino, sono stata con D'Avanzo un mattinata intera a Roma ad ottobre scorso. Volevo convincerlo ad accettare il nostro invito al festival per l'edizione 2011 e decidemmo di vederci di persona. Io avevo appena finito di ballare il waka waka per chiedere le dimissioni di Minzolini davanti alla Rai, quando alzai lo sguardo e lo vidi appoggiato a un albero, occhiali scuri e baffo divertito. Si avvicinò e si presentò agli altri ragazzi di Valigia Blu. Con un gesto così naturale e così gentile mi prese dalle mani la valigia/trolley blu e iniziammo a passeggiare. Ero a fianco di un gigante del giornalismo e lui, per tutto il tempo, fece parlare me.
Me ne accorgo solo ora, aveva deciso che la protagonista del nostro incontro ero io. Mi chiese di raccontargli il festival, come mi era venuta l'idea, come avevo trovato il budget per sostenerlo, come funzionava, ma la cosa che lo appassionò di più erano i volontari, i 200 ragazzi aspiranti giornalisti che ogni anno arrivano da tutto il mondo. Gli brillavano gli occhi. Come gli brillavano gli occhi quando iniziammo a parlare di giornalismo, di informazione, di rete. Avevo davanti il più grande giornalista investigativo italiano e non si parlò delle sue inchieste, dei suoi scoop, no. Parlammo di facebook, di twitter, di blog, di Wil, di Daniele, di Fabio...
Alla fine mi disse di sì, sarebbe venuto al festival. Ma quasi subito ci ripensò. La ribalta non era fatta per lui. Da allora ci siamo scambiati mail, sms e telefonate, poche, ma ogni volta era uno sfizio, un divertimento, un'allegria. Quando oggi all'Aranciera ho scoperto che a Peppe piacevano i girasoli non mi sono meravigliata.
Se non avete letto "Il mercato della paura", scritto insieme a Carlo Bonini, fatelo.
p.s. leggete anche questo meraviglioso pezzo sul rugby scritto nel 2007.
Ciao Peppe, chi ti dimentica più...
Arianna Ciccone
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