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Il ciclo delle irresponsabilità: da una non notizia alla copertura mediatica di un presunto suicidio

18 Gennaio 2024 7 min lettura

Il ciclo delle irresponsabilità: da una non notizia alla copertura mediatica di un presunto suicidio

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Se in questi giorni avete seguito la vicenda di Giovanna Pedretti, la ristoratrice del lodigiano il cui corpo è stato ritrovato nella notte tra sabato e domenica della scorsa settimana, suggeriamo un esercizio nel ripercorrere la vicenda. Prendete il tragitto dalla cronaca locale a quella nazionale, il caso della “recensione choc” con la risposta della titolare. Prendete la fase dei “dubbi”, sollevati in particolare da un noto chef, con tanto di telefonata alla diretta interessata perché, evidentemente, c’era una verità da accertare e una conversazione telefonica di cui dar conto pubblicamente. Prendete il cronista locale che, dopo aver elogiato la ristoratrice, torna a intervistarla di nuovo per chiedere conto di una “recensione falsa”. Prendete entrambi, sia chiaro, senza far l’errore di separare le voci soliste dal coro.

Prendete l’epilogo, per cui bisogna usare l'aggettivo “tragico”, visto che una persona è morta. Prendete il coro che continua a parlarsi addosso anche dopo l’epilogo perché bisogna cercare “la verità sulla morte” - persino “indagando” sui vecchi commenti della defunta. O perché bisogna arginare la “gogna social”, magari con una legge che ristabilisca l’ordine infranto: una legge repressiva e inutile, che non avrebbe evitato quella morte. 

Prendete il dibattito sul suicidio, la dovizia di particolari diffusi alla faccia di qualunque deontologia, mentre le indagini sono in corso, prima e dopo l’autopsia (avvenuta mercoledì), le teorie sulle cause e gli effetti. Prendete il dibattito sulla colpa, sulle persone che hanno puntato il dito e che ora si trovano dall’altra parte del dito puntato, persino subendo minacce. Prendete anche - tocca farlo, purtroppo - gli imbonitori che ne approfittano per dire “ah sì, di questa cosa ho parlato nel mio libro”, nella speranza di alzare dieci copie in più. O i politici sciacalli.

In tutto questo vociare, prendete nota di come articoli e servizi giornalistici hanno prima sparato la “notizia” iniziale con diluvio di aggettivi e verbi all’indicativo, passando pian piano all’uso del condizionale. All’uso di espressioni come “l’ipotesi più probabile”, “forse”, “qualcosa non torna”, “tutto lascia supporre”, “sembrerebbe”, “quasi certo”: ovvero formule che retrocedono dal raccontare i fatti, retrocedono da questa responsabilità o potere, dal confrontarsi con le conseguenze, e si limitano a evocare i fatti come ombre cinesi su un muro, lasciando che sia poi l’immaginazione del pubblico a scorgere la forma reale. All’aumentare delle responsabilità da prendersi, insomma, aumentano la distanza tracciata dalle parole e i trucchi linguistici.

Recuperate infine un attimo di quiete o silenzio, mettendo in fila la catena temporale: una non-notizia ha provocato un non-debunking, poi un interrogatorio dei carabinieri, poi una persona è morta, e ora ci si accanisce intorno e sul cadavere. Dalla distanza, anche solo per rispetto del dolore altrui, fare discorsi sulle colpe è un esercizio fine a sé stesso, poiché la colpa ragiona in termini di cause ed effetti, di movimenti, azioni e conseguenze. La colpa si basa su elementi certi, altrimenti mira a casaccio e fa danni collaterali. La colpa, prima ancora di qualunque morale, è una traiettoria.

Tuttavia, poiché essere adulti significa anche prendersi delle responsabilità e poiché nessun uomo è un’isola, quando una persona muore in modo violento, chiunque si pone una domanda terribile, che al massimo, se va bene, impara ad accettare come cicatrice: “Potevo fare qualcosa?”. Ora, rispetto al dibattito pubblico, rispetto alla catena che ha alimentato con iniziale diluvio di indicativi una non-notizia approdando attraverso una selva di formule dubitative a una morte, c’è una domanda che molte persone dovrebbero porsi. La quale, brutalmente, si riassume in “ma se non avessi scritto o parlato pubblicamente di questa non-notizia, se non avessi alimentato la palla di neve diventata valanga, quella persona sarebbe ancora viva?”. 

Ci sono poi altre domande che fanno da corollario. La risposta a una recensione di un ristorante è una notizia, rappresenta un fatto di interesse pubblico? Chi riporta una storia di quel tipo, compie una qualunque operazione di verifica, o si limita a riportarla perché “funziona”, fa “engagement”, e così via? La “viralità” che di solito giustifica questo tipo di contenuti sui siti di informazione è arrivata prima o dopo la copertura dei media nazionali? È davvero di interesse pubblico, successivamente, verificare se un episodio così trascurabile è “vero” o “falso”? Se pensate sia di interesse pubblico, avete mai sentito parlare di astroturfing come tecnica di marketing o di propaganda politica, avete mai fatto mente locale a quanto è diffusa, persino lodata o insegnata? Dovrei sostenere economicamente un ecosistema informativo e culturale di questo tipo, mi è utile come cittadino? Se chi copre una storia compie errori di verifica, non dovrebbe ammettere l’errore e scusarsi? Qual è il confine che separa il diritto di cronaca dall’abuso? Non è che invece di pontificare sul “diritto a offendere” bisognerebbe educare maggiormente al rispetto della dignità?

Se le domande vi sembrano moraliste, eccessive, o prive di realismo rispetto a come funziona l’informazione, vale la pena soffermarsi sulla questione dell’ipotesi suicidio. E scrivo “ipotesi” perché, ripeto, l’autopsia c’è stata solo mercoledì, e perché per tutti questi giorni nessuna testata ha parlato con certezza. Invece, si sono forniti dettagli in grado di evocare il concetto, di accostarlo al pubblico col maggior grado di vicinanza possibile, evitando però il contatto completo, la formulazione “Tizia è morta suicida”. Perciò, lavorando a questo articolo, volente o nolente sono stato costretto a venire in contatto con tutta una serie di dettagli spiattellati senza tanti problemi, intanto che mi si diceva “forse”, “probabilmente”. Un po’ come se uno ti puntasse contro una pistola dicendo “forse non è carica”.

Il motivo per cui sul piano deontologico tutto ciò andrebbe evitato, tuttavia, non è di tipo morale. Non è perché bisogna proteggere il pubblico “troppo sensibile”, non è il “buonismo”. Non è la "mania" dei content warning o dei trigger warning che abbiamo "importato" per colpa della “ideologia woke” e del “politicamente corretto”. Non è, insomma, una di quelle argomentazioni fuffa che affollano fin troppo spesso il dibattito in Italia, alimentando pur a fatica carriere vessate dalla sindrome dell’impostore. 

È invece legato al rischio emulazione e, quindi, a una cultura che rispetto al suicidio cerca di porsi in termini di prevenzione, assistenza o riduzione del danno; che non si occupa soltanto di indagare sull’istigazione, intervenendo quando è troppo tardi. Un certo tipo di regole esiste perché le parole non sono una nube astratta, slegata dai comportamenti e dalle reti di relazioni, dai pensieri, dalle conseguenze. Un certo tipo di regola, se rispettata, può contribuire a salvare una vita. Naturalmente da sola non basta, deve essere affiancata anche da un tessuto sociale che richiede servizi sanitari adeguati, accesso a cure e terapie. 

Da questo punto di vista, non riguarda solo i giornalisti, solo la stampa, solo determinate categorie di professionisti. Dovrebbe riguardare chiunque usi una piattaforma di comunicazione digitale e commenta casi come questo. Chi vi legge potrebbe per esempio soffrire di depressione, e nella sua depressione vive un certo tipo di pensieri. Da questo punto di vista non si è mai abbastanza responsabili, sia chiaro. Ma dovendo scegliere dove porre l’asticella, o si cambia direzione rispetto al “così va il mondo”, o si accetta che quel “mondo” è il sistema mediatico italiano, e la “gogna social” non è una realtà separata, ma contigua. 

Questo perché l’industria dell’informazione vive di contenuti, di interazioni, di “choc”. È più simile a un tabloid scandalistico, o se vogliamo a un creator, che a un servizio reso a una comunità. Conta l’effetto prodotto sul destinatario, non la precisione del messaggio. Tacere, aspettare, scansare un’inezia riconoscendo che non è una notizia: questo tipo di decisioni sono tutto fuorché neutre, ma poiché invisibili o silenti non producono effetti sul destinatario, e quindi sono impensabili. Ecco perché poi, sulle non-notizie, ci si butta come squali: per non perdere il trend. Una non-notizia come quella della ristoratrice che risponde per le rime ha costi e tempi esigui. Talmente esigui che ormai la sua creazione può essere affidata a una cosa che chiamiamo “intelligenza artificiale”. 

Non è un caso che pratiche come fact-checking o debunking siano così profondamente fraintese in Italia, talvolta persino stigmatizzate. Sono solo forme che nell’era digitale hanno preso metodi e pratiche ben più vecchie, poiché la verifica è l’essenza stessa del giornalismo. Sono, sul piano pratico, quei cinque minuti in più che potrebbero evitarvi una pessima figura, una querela, o peggio. Ma in un paese di santi, poeti e navigatori, dove cioè si va appresso a miracoli, miti e gente diventata famosa per aver scambiato l’America per l’India, l'empirismo è visto con sospetto o fastidio. Per la mentalità italiana, Socrate era un minchione. 

Nelle tragedie abbiamo un eroe che va incontro a un destino infausto, e quell’urto catastrofico ci svela una legge superiore che regola l’ordine del mondo. Stavolta abbiamo una persona che muore davvero, ed è tutto follemente assurdo, in primo luogo perché nessuno sembra intenzionato a far calare il sipario; l’oscenità della rappresentazione ci appare in tutta la sua terribile verità mentre il cadavere è in scena. Il massimo che si riesce a fare, in un mondo governato da simili leggi, è trovare un modo dignitoso per chiedere di far calare il sipario. O, se possibile, scappare a gambe levate dal teatro.

Immagine in anteprima via La Stampa

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