Dalla Palestina allo Zimbabwe: la voce di giovani attivisti impegnati contro la crisi climatica
9 min lettura“La proposta avanzata dalla parte ricca del mondo, nel caso in cui la tua casa venisse bruciata da un incendio o distrutta a causa dell’innalzamento del livello del mare, è pagare un esperto per valutare l’entità dei danni, non darti i soldi per ricostruire la tua casa”. Così Mohammed Adow, attivista keniano per la giustizia climatica efondatore di Power Shift Africa, un think tank che fornisce analisi sulla crisi climatica e offre soluzioni politiche concrete da una prospettiva africana, ha commentato il fallimento dei negoziati sulla finanza climatica alla COP26 tenutasi a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre.
La proposta di Amadou Sebory Toure, capo del blocco negoziale G77+Cina, e dunque "avanzata dall'intero mondo in via di sviluppo, che rappresenta sei persone su sette sulla Terra" è stata rifiutata dai paesi sviluppati. Al suo posto, restano gli impegni presi fuori da COP. I paesi sviluppati hanno promesso 232 milioni di dollari al fondo di adattamento. L'inviato speciale delle Nazioni Unite, Mark Carney, è riuscito a raccogliere 130 mila miliardi di dollari dalle società di servizi finanziari che dovranno essere usati per l’azzeramento delle emissioni. Al fondo per i paesi meno sviluppati, andranno invece 413 milioni di dollari promessi da 12 paesi.
Preso atto del fatto che la “parte ricca del mondo” non ha intenzione di risarcire i paesi meno sviluppati per i disastri climatici che ha causato e che continua a causare, l’obiettivo di attivisti come Adow è quello di mobilitare l’azione per il clima nel Sud del mondo nonostante le minori risorse a disposizione. In sostanza, provare a fare il meglio che si può, in attesa che i paesi più ricchi si rendano conto che solo un’azione congiunta potrebbe risolvere, o quantomeno attutire, le conseguenze di questa crisi.
Oltre ad Adow, sono molti i giovani che stanno portando avanti campagne di educazione climatica e pratiche sostenibili nei paesi più colpiti. Ciò che li accomuna è la consapevolezza della necessità di costruirsi alternative sostenibili in casa in ogni settore della vita. Questi giovani offrono un'immagine diversa di regioni geografiche, come il continente africano, sempre in balìa degli eventi e immobili a subire passivamente i peggiori effetti della crisi climatica. Mostrano un volto nuovo, più realistico, dei paesi del Sud del mondo che provano a combattere questa crisi attivamente. Molti di questi giovani erano presenti allo Youth4Climate, una conferenza svoltasi a Milano tra il 28 e il 30 settembre dedicata a giovani attivisti e attiviste provenienti da tutto il mondo che avevano il compito di redigere un programma da consegnare ai leader politici che si sarebbero poi riuniti alla Pre-Cop26, sempre a Milano, tra il 30 settembre e il 2 ottobre.
Abbiamo raccolto le storie di Adam Aburok, delegato palestinese alla Youth4Climate, Aminta Permpoonwiwat, 16enne thailandese che con il suo “Youth Mentorship Project” insegna agli studenti delle scuole primarie in Thailandia i valori della sostenibilità ambientale, e Natalie Mangondo, 25 anni, che in Zimbabwe guida gli agricoltori delle comunità rurali nell'introduzione di pratiche di coltivazione sostenibile.
L'attivismo di Adam Aburok in Palestina
Adam Aburok ha 27 anni ed è membro del Programma di leadership giovanile delle Nazioni Unite. Era il delegato palestinese alla Youth4Climate. Vive nella Striscia di Gaza, un territorio in cui i residenti hanno solo sette ore di elettricità e 88 litri di acqua a testa al giorno. “Tutto il nostro lavoro consiste nell’aumentare la consapevolezza delle persone per quanto riguarda la crisi climatica in corso”, dice. “Cerchiamo di coinvolgere quante più persone possibili in azioni concrete per il clima partendo dalla loro prospettiva”.
Aburok collabora anche con ONG internazionali e locali come consulente, ma il numero di organizzazioni che si occupano di clima a Gaza è limitato. Tant’è vero che le azioni di Aburok e dei suoi colleghi non sono incasellate in un’associazione definita. Si tratta di un gruppo registrato nel “Portale Europeo per i Giovani” e attivo anche attraverso il programma Erasmus+ e il “Corpo Europeo di Solidarietà”. La squadra di Aburok si chiama “Corpi giovanili palestinesi”. Lui stesso la definisce un “gruppetto di giovani sognatori” che organizzano workshop di sensibilizzazione ed eventi di pulizia delle spiagge ed educano le persone a ridurre il più possibile l’uso della plastica e ad aumentare l’acquisto di prodotti riciclate ed ecosostenibili. Talvolta, per fare più presa sulla popolazione, collegano queste iniziative a eventi di respiro internazionale come la giornata della gioventù o quella della donna. Fare di più al momento non è possibile perché a Gaza, spesso, non c’è molta scelta. “Ad esempio, dovremmo rinunciare ai generatori elettrici che ci garantiscono la corrente, ma non possiamo farlo”, sottolinea Aburok.
Il lavoro di questi pionieri della giustizia climatica in Palestina riguarda anche problemi che sono apparentemente invisibili come quelli delle bombe inesplose. “Ma quando facciamo campagne di sensibilizzazione, sono principalmente i giovani che si fermano un minuto per parlare di crisi climatica. I giovani amano partecipare ad attività ed eventi, ma una volta terminato l’evento non intraprendono alcuna azione come individui. Solo pochi di loro lo fanno. Gli altri, invece, non ascoltano proprio”, ammette Aburok, che sta faticando a trovare nuovi collaboratori dopo che quattro di loro hanno abbandonato l’attività dopo essersi trasferiti all’estero o essersi sposati.
“I giovani amano molto gli eventi che organizziamo. Siamo l’unico gruppo a Gaza che offre alle donne la possibilità di andare in bicicletta e, in generale, siamo gli unici a fare campagne dedicate alla sostenibilità cercando di rispettare il loro stile di vita. Se solo avessimo la possibilità di ottenere più fondi dalle ONG, i risultati sarebbero differenti”, sostiene Aburok, che è consapevole che il cambiamento è un processo a lungo termine e che il loro lavoro è ancora troppo ridotto per ottenere risultati in un luogo in cui circa 2 milioni di persone vivono oppressi da migliaia di altri problemi. Sebbene le persone in tutto il mondo tendano a pensare che i palestinesi abbiano problemi più importanti da affrontare rispetto alla crisi climatica, Aburok non è d’accordo. “La crisi climatica è altrettanto importante per noi, ma facciamo più fatica. Anche quando le persone decidono di accettare queste sfide “extra” e di provare a essere più attente all’ambiente, è difficile, perché non abbiamo molte alternative che ci permettano di adempiere ai nostri impegni nei confronti dell’ambiente”. E nonostante le risorse limitate, Aburok crede che non sia necessario essere dei professionisti per fare la differenza. “Dobbiamo solo essere umani, fare la nostra parte e ricordarci che non rappresentiamo alcun confine politico o geografico. Rappresentiamo la nostra casa, la Terra”.
Insegnare la sostenibilità ambientale nelle scuole thailandesi
Con i suoi 16 anni, la thailandese Aminta Permpoonwiwat era una delle delegate più giovani a Milano. Il suo progetto principale si chiama “Youth Mentorship Project” e mira a insegnare agli studenti delle scuole primarie in Thailandia i valori della sostenibilità e l’importanza di prendersi cura dell’ambiente attraverso materie come scienza, tecnologia, inglese, matematica e arte. Questo progetto di formazione, che si rivolge direttamente alle scuole che potrebbero aver bisogno di sostegno, è nato all’inizio del 2020 e la prima collaborazione è stata avviata nel novembre dello stesso anno. Inizialmente le lezioni erano in presenza, ma a causa della COVID-19 è stato recentemente sviluppato un curriculum online da proporre alle scuole.
“Youth Mentorship Project nasce dal desiderio di insegnare il concetto di sostenibilità ai bambini che non hanno possibilità di accedere a un’istruzione adeguata, perché penso che educare e instillare un approccio sostenibile alla vita fin dalla tenera età sia un ottimo modo per formare una società consapevole dell’ambiente che la circonda e del cambiamento climatico in atto”, afferma Permpoonwiwat.
L’approccio dell’insegnamento dell’attivista thailandese è interdisciplinare. “Per esempio, quando insegniamo scienza, facciamo esperimenti per filtrare l’acqua con risorse naturali. Oppure, durante le lezioni di arte, usiamo materiali riciclati per creare oggetti che poi colleghiamo a un argomento scientifico, perché pensiamo che una componente chiave di questo programma sia che tutte le materie siano in qualche modo interconnesse”, dice Permpoonwiwat, il cui obiettivo è rendere l’apprendimento un processo divertente e assicurarsi che i bambini capiscano che ciascuna delle nostre azioni quotidiane può davvero avere un impatto sul mondo.
“Noi esseri umani siamo la fonte dei problemi che vediamo oggi in tutto il mondo, quindi penso che il primo passo per risolvere effettivamente la crisi climatica sia migliorare il capitale umano”, sostiene Permpoonwiwat. “La crisi climatica e le conseguenti azioni per il clima non devono riguardare solo gli scienziati o i leader politici, ma è una discussione in cui dovremmo essere tutti coinvolti. Ecco perché voglio aumentare la comprensione e la consapevolezza tra i giovani thailandesi, che cresceranno e diventeranno il futuro del mio paese”. Finora, l’approccio di “Youth Mentorship Project” è stato provato da circa 100 bambini appartenenti a 3 scuole. Il target è ben preciso: si scelgono scuole con studenti provenienti da categorie vulnerabili. In termini di feedback, “la partecipazione degli studenti - che si tratti di esperimenti scientifici, creazioni artistiche o esercizi di scrittura in inglese - è stata positiva”, dichiara Permpoonwiwat. Gli insegnanti le hanno riferito che gli studenti hanno apprezzato il metodo di apprendimento proposto e hanno invitato Permpoonwiwat e i suoi collaboratori a tornare.
L’attivismo di Permpoonwiwat non si esaurisce nello “Youth Mentorship Project”. Un altro tema su cui sta spingendo molto in Thailandia è la perdita di biodiversità che sta colpendo tutta la regione del Sud-est asiatico. “L’intera regione è gravemente minacciata, ma questo argomento non è ancora così mainstream nei media”, puntualizza Permpoonwiwat. Per questo motivo, collabora con il fondo per la biodiversità [gestito dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, NdA] come loro ambasciatrice per i giovani, curando anche la rubrica #IfIWereYou (“Se io fossi te”). “In questa rubrica presento i punti di vista delle diverse parti interessate della popolazione”, conclude Permpoonwiwat. “Ho scritto articoli immedesimandomi nel primo ministro thailandese o in un senzatetto. Così facendo offro l’intero spettro delle opinioni sul cambiamento climatico”.
Pratiche di coltivazione sostenibile nelle comunità rurali dello Zimbabwe
Natalie Mangondo viene da Harare, capitale dello Zimbabwe, e ha 25 anni. Lavora nel martoriato settore dell’agricoltura zimbabwiano come “sustainability manager”: insegna ai piccoli agricoltori delle comunità rurali le migliori pratiche di coltivazione sostenibile. Tra le aree di intervento anche quella di Chimanimani, fortemente colpita dal ciclone Idai nel marzo 2019. “Si tratta, prima di tutto, di educare all’uso di pesticidi e alla gestione dei fertilizzanti per prevenire il deflusso dei sistemi idrici e il degrado dell’ambiente”, precisa Mangondo, che sta anche svolgendo un Master in economia presso l’Università dello Zimbabwe grazie a una borsa di studio della Southern African Climate Finance Partnership, promossa dalla SouthSouthNorth, l’azienda con cui collabora, e finanziata dall’IDRC (International Development Research Center).
“Tutto ciò potrebbe sembrare insignificante se raccontato a chi proviene da un paese sviluppato” - sottolinea Mangondo - “ma nel mio paese, dove abbiamo un quadro normativo che non viene rispettato, è una cosa inaudita. Le persone fanno semplicemente quello che vogliono con la terra e la sfruttano il più a lungo possibile”.
Mangondo, però, ha capito sin da subito che poteva andare oltre e ha iniziato a offrire un servizio di consulenza sui contratti che i piccoli agricoltori stipulano con i produttori di sementi e le ONG. “Questi contratti hanno solitamente tassi estremamente alti e contribuiscono a perpetuare un ciclo di povertà”, dice Mangondo. “I piccoli agricoltori riscuotono i loro guadagni solo una o due volte l’anno e, con questi tassi, tutto il denaro serve a ripagare il debito con le aziende. Ma cosa succede se, anche a causa della crisi climatica, la resa non è quella che gli agricoltori si aspettavano?”. Questa incertezza ha spinto Mangondo a servirsi della collaborazione di alcuni studi legali per studiare contratti che siano soddisfacenti per gli agricoltori e le aziende. Queste buone pratiche si traducono successivamente anche in una miglior resa dei terreni, che rallenta il degrado nel tempo e impedisce l’espansione ossessiva verso altri terreni con il solo scopo di incrementare le produzioni. Questo rappresenta un aspetto fondamentale per una popolazione come la nostra che continua a crescere.
In particolare, però, ciò che sta più a cuore a Mangondo in quanto donna è offrire maggiori opportunità alle agricoltrici, permettendo loro di accedere a fondi di microcredito per poter portare avanti i loro progetti e, se necessario, espanderli. Di fatto, il 65% dei beneficiari dei progetti a cui ha preso parte Mangondo finora sono donne. “Permette alle donne di accedere a finanziamenti è fondamentale, specialmente nei casi di donne emarginate dalla società, come quelle che hanno contratto il virus HIV, o di donne rimangono vedove e a causa della nostra cultura patriarcale sono costrette ad affidare tutto alla famiglia del marito”, sottolinea Mangondo, aggiungendo che, “quello che facciamo è garantire che, anche quando le donne non hanno beni disponibili, possano accedere a dei finanziamenti, con bassi tassi di interesse, ed essere dunque in grado di avere controllo sul proprio futuro e assicurarne uno ai propri figli”. L’impatto di questo progetto, secondo Mangondo, ha avuto risultati incredibili anche in termini di sicurezza alimentare, perché “generalmente le donne tendono a reinvestire i loro guadagni in famiglia e questo significa che, quando le donne hanno accesso alle risorse, la mortalità infantile diminuisce e che aumenta l’istruzione dei bambini”.
Immagine in anteprima: foto di Natalie Mangondo – progetto di agricoltura sostenibile in Zimbabwe