Per l’esercito israeliano alcuni giornalisti erano un obiettivo militare
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“Questo è il peggior conflitto per i giornalisti che il Committee to Protect Journalists (CPJ) abbia mai documentato, e la situazione sta semplicemente peggiorando”. Con queste parole, alcuni mesi fa, Jodie Ginsberg, CEO del CPJ, un'organizzazione indipendente e senza scopo di lucro che promuove la libertà di stampa in tutto il mondo e difende il diritto dei giornalisti di riportare le notizie in modo sicuro e senza subire ritorsioni, aveva commentato il pesantissimo bilancio dei giornalisti uccisi dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas e degli attacchi dell’esercito israeliano a Gaza. Dal 7 ottobre, il Committee to Protect Journalists ha iniziato a documentare giorno per giorno le circostanze in cui gli operatori dei media sono stati uccisi – anche noi come Valigia Blu stiamo seguendo i costanti aggiornamenti del CPJ – e, ad oggi, è arrivato a contare 108 vittime: 103 sono giornalisti palestinesi, 3 israeliani, 2 libanesi.
“I giornalisti svolgono un ruolo essenziale in una guerra. Sono gli occhi e le orecchie di cui abbiamo bisogno per documentare ciò che sta accadendo, e ogni giornalista ucciso, ogni giornalista arrestato diminuisce significativamente la nostra capacità di comprendere ciò che sta accadendo a Gaza”, osserva ancora Ginsberg
Già lo scorso ottobre, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) avevano detto alle agenzie di stampa Reuters e Agence France Press di non poter garantire la sicurezza dei giornalisti che operavano nella Striscia di Gaza, dopo la loro richiesta di non prendere di mira gli operatori dei media. Ora, “The Gaza project” – un’inchiesta condotta nel corso di quattro mesi da cinquanta giornalisti di tredici media diversi, che hanno indagato sull’uccisione dei giornalisti nella Striscia di Gaza e sulle minacce e sugli arresti mirati nei confronti di quelli che lavorano in Cisgiordania – è giunto alla conclusione che l’IDF ha considerato i giornalisti che lavoravano a Gaza per gli organi di stampa controllati o affiliati ad Hamas un obiettivo militare legittimo. La Quarta Convenzione di Ginevra, ratificata da 196 paesi, tra cui Israele, stabilisce che attaccare i giornalisti, o le loro attrezzature, se non partecipano ai combattimenti è una violazione del diritto internazionale
“I giornalisti sopravvissuti a Gaza sanno da tempo che i loro giubbotti ‘stampa’ non li proteggono. Peggio, potrebbero esporli ancora di più”, racconta Laurent Richard, giornalista e fondatore di Forbidden Stories, il collettivo investigativo (che porta avanti il lavoro di reporter minacciati, imprigionati o uccisi nel mondo) che ha coordinato l’inchiesta.
Da quando Israele ha bloccato l'accesso a Gaza ai media stranieri, il lavoro di documentazione della guerra sul campo è ricaduto sui giornalisti palestinesi presenti nel territorio, molti dei quali hanno continuato a lavorare sotto i bombardamenti israeliani.
Uno dei simboli di questa determinazione a continuare a raccontare la guerra nonostante i rischi molto alti per la propria incolumità è Wael Dahdouh, a capo dell’ufficio di Gaza di Al Jazeera che ha visto sua moglie, tre figli e un nipote uccisi da attacchi israeliani. Lo stesso Dahdouh era rimasto ferito in un attacco lanciato da un drone israeliano nel sud della Striscia di Gaza in cui era stato ucciso il cameraman di Al Jazeera Arabic, Samer Abu Daqqa. I due stavano coprendo gli attacchi israeliani notturni contro una scuola delle Nazioni Unite che ospita gli sfollati nel centro di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza.
Sebbene la guerra gli stia facendo pagare un tributo personale devastante, Wael Dahdouh – che in questi mesi è stato il volto della copertura di Al Jazeera 24 ore su 24 di questa guerra – il giorno dopo l’attacco era di nuovo in diretta: “Il mondo intero deve guardare cosa sta accadendo qui nella Striscia di Gaza: una grande ingiustizia nei confronti di persone indifese, di civili. È ingiusto anche per noi giornalisti”.
Il fatto che così tanti giornalisti e operatori dei media palestinesi - che lavorano per un'ampia gamma di organi locali e internazionali - siano stati uccisi, feriti o detenuti dalle forze israeliane ha suscitato il timore da parte delle organizzazioni per la libertà di stampa che l'IDF stia cercando deliberatamente di mettere a tacere le voci di chi cerca di raccontare la guerra sul campo.
Dagli attacchi mirati alla distruzione di infrastrutture che ospitano i media, l’indagine guidata da Forbidden Stories ha raccolto prove schiaccianti nei confronti dell'esercito israeliano. L’inchiesta si è basata sull’analisi di migliaia di ore d’immagini e suoni relativi a situazioni in cui i giornalisti palestinesi sono stati uccisi o feriti e sulla revisione delle traiettorie balistiche e della cronologia degli eventi. I risultati sono stati poi confrontati con le informazioni dal terreno.
“Questo progetto era particolarmente importante per noi, come atto di solidarietà nei confronti di quei giornalisti che perso la vita per mostrare al mondo ciò che sta accadendo a Gaza”, racconta Yuval Abraham, un giornalista israeliano che vive a Gerusalemme e lavora per +972 Magazine, media dove lavorano insieme giornalisti palestinesi e israeliani. “Per questo progetto, abbiamo anche continuato il lavoro di alcuni dei reporter uccisi, feriti o arrestati dall'esercito israeliano. È il nostro modo di dare nuova vita a storie che sono costate loro la vita e la libertà. Uccidere il giornalista non ucciderà la storia”.
Secondo l’inchiesta, tra i giornalisti uccisi a Gaza dal 7 ottobre in poi documentati dal CPJ, circa il 30% lavorava per organi di informazione affiliati o strettamente legati ad Hamas. Almeno 23 lavoravano per la più grande testata gestita da Hamas a Gaza, al-Aqsa media network. Considerato il canale ufficiale di Hamas, al-Aqsa impiegava centinaia di persone e gestiva un canale televisivo molto seguito e numerose stazioni radiofoniche fino a quando la guerra non ne ha ridotto la produzione.
Quasi subito dopo l'inizio del bombardamento aereo di Gaza da parte di Israele, in risposta all'assalto terroristico di Hamas al sud di Israele, la sede di al-Aqsa è stata evacuata perché i dirigenti del network prevedevano un attacco da parte dell’IDF, memori di quanto accaduto cinque anni prima. Nel 2018 l’esercito israeliano aveva bombardato gli uffici di al-Aqsa sostenendo che l'edificio era utilizzato per scopi militari. L'anno dopo, il 2019, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva classificato il gruppo mediatico come organizzazione terroristica, in quanto “braccio della propaganda di Hamas”. Ma questo, come hanno spiegato alcuni esperti legali sempre al Guardian, non giustifica quanto sta accadendo: Israele “non ha un assegno in bianco che permette all’IDF di uccidere i dipendenti” dell’emittente.
Diverse fonti israeliane hanno affermato che l'IDF considera i giornalisti che lavorano per i media affiliati ad Hamas in una “zona grigia” e che “ogni volta che c'è qualcuno che riceve uno stipendio in ultima analisi da Hamas” è ritenuto un obiettivo legittimo.
Intervistato da Radio France (altro media che ha partecipato a “The Gaza Project”) sulle vittime della rete al-Aqsa, l'alto portavoce dell'IDF e riservista Col. Olivier Rafowicz ha affermato che non c'è non c'è “alcuna differenza” tra il lavorare per i media e l'appartenere al braccio armato di Hamas: “Al-Aqsa appartiene all'organizzazione bellica di Hamas e le persone che lavorano per essa sono membri attivi dell'organizzazione bellica di Hamas”.
Rafowicz “non distingue tra combattenti e civili”, ha commentato Adil Haque, professore di Diritto alla Rutgers University negli Stati Uniti. La sua “è un’affermazione scioccante che rivela apertamente e pubblicamente l’ignoranza o il disprezzo deliberato di un principio fondamentale del diritto internazionale: se un giornalista non fa parte dell'ala militare di Hamas, se non è un combattente, allora è un civile a meno che non prenda parte direttamente alle ostilità”, aggiunge Haque.
“Riportare le notizie non è una partecipazione diretta alle ostilità”, spiega Janina Dill, docente dell'Università di Oxford ed esperta di leggi di guerra. “Se anche avessero riportato le notizie in modo distorto, se anche avessero fatto propaganda per Hamas, se anche Israele fosse fondamentalmente in disaccordo con il modo in cui riportano le notizie, tutto questo non è sufficiente per giustificare l'uccisione dei giornalisti”.
In una dichiarazione ufficiale l’IDF ha preso le distanze dalle parole di Rafowicz. Un portavoce delle forze israeliane ha parlato di sei dipendenti di al-Aqsa “finti giornalisti”, uccisi in quanto membri dell’ala armata di Hamas, ma si è rifiutato di fornire prove a sostegno delle sue affermazioni. Secondo Irene Khan, relatrice speciale delle Nazioni Unite per la promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione, Israele ha “diffuso disinformazione sui legami tra giornalisti e Hamas” e non ha soddisfatto “l’onere della prova” a sostegno delle sue affermazioni.
Nelle guerre precedenti a Gaza, spiega un ex avvocato dell'IDF, per colpire qualcuno mentre era a casa con i parenti erano necessarie prove evidenti di una sua partecipazione regolare e diretta alle ostilità. Nel conflitto attuale “sembrano esserci state regole di ingaggio diverse” e il “livello di distruzione è stato portato a un livello diverso”.
Sembra essere questo il caso dei giornalisti freelance Issam Bahar e Salma Mkhaimer. Un parente stretto di Bahar ha detto all’Arab Reporters for Investigative Journalism (ARIJ) che Issam “era solo un giornalista e un insegnante di Corano, non svolgeva alcuna attività politica o di altro tipo”. Secondo le informazioni raccolte dall'organizzazione no-profit Airwars, Bahar, 38 anni, si stava rifugiando a casa di un parente a Gaza City quando un attacco aereo israeliano lo ha ucciso di notte insieme a sua moglie, suo figlio di 14 anni e altri quattro membri della famiglia.
Salma Mkhaimer, 31 anni, si occupava di diritti delle donne e aveva lavorato per diversi organi di informazione con sede a Gaza, tra cui anche al-Aqsa. È stata uccisa da un attacco aereo israeliano mentre era andata a trovare la sua famiglia insieme a suo figlio piccolo in un’area che secondo l’IDF sarebbe stata al riparo dai bombardamenti. L’attacco è avvenuto mentre Mkhaimer era al telefono con suo marito. “Durante la mia ultima telefonata con Salma, lei mi stava dicendo ‘Dobbiamo fermare la guerra’. È necessario porre fine alla guerra per entrambi, israeliani e palestinesi”, ha ricordato il marito di Mkhaimer, Alaa Naser Abushawer in un’intervista al Guardian.