Il giornalista italiano del Guardian ‘intercettato’ dalla Procura di Palermo: “Stanno screditando il mio lavoro”
18 min letturadi Angelo Romano e Andrea Zitelli
Caltanissetta, caso Medhanie: lascia il centro rimpatri l'uomo scambiato per il trafficante Mered - ESCLUSIVO https://t.co/X7eGPvjRAY
— la Repubblica (@repubblica) August 2, 2019
Aggiornamento 6 agosto 2019: «Sono felice, mi sento libero. È stato un incubo. Voglio riabbracciare la mia famiglia». Con queste parole Medhanie Berhe, eritreo di 32 anni, ha commentato, fuori dal Centro per i rimpatri di Pian del Lago a Caltanissetta, la decisione della commissione territoriale di Siracusa che ha accolto la sua domanda di asilo in politico.
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Aggiornamento 19 luglio 2019: «È stato un caso di scambio di identità. La persona in carcere era stata arrestata erroneamente». Il giudice Alfredo Montalto della seconda sezione della Corte d’Assise ha scarcerato Medhanie Tesfamariam Behre, l’eritreo di 32 anni in carcere dal 24 maggio del 2016 su indagine della procura di Palermo in collaborazione con la National Crime Agency (NCA) britannica perché ritenuto essere Medhanie Yehdego Mered, un pericoloso trafficante di uomini noto come “il generale”.
«Cadono le accuse per associazione a delinquere. Cade la tesi del boss della tratta. Medhanie Berhe non è il trafficante Medhanie Mered, che invece si trova ancora a piede libero», ha commentato a caldo su Facebook Lorenzo Tondo, il giornalista del Guardian che ha seguito la vicenda di Berhe dall’inizio e che ha scoperto, durante un’udienza, di essere stato anche intercettato e che alcune conversazioni registrate erano state ritenute rilevanti nel caso giudiziario, nonostante quanto riportato sembrasse del tutto irrilevante dal punto di vista investigativo, almeno leggendo gli scambi inseriti nel documento depositato dal pubblico ministero.
«Non ho parole per esprimere la mia gioia. È la fine di un incubo», ha dichiarato la sorella di Berhe, Hiwett Tesfamariam, giunta dalla Norvegia per il verdetto.
Behre è stato condannato a 5 anni per aver contattato un trafficante per aiutare suo cugino Samson Gherie a raggiungere la Libia, ma avendo già trascorso 3 anni in carcere è stata disposta la sua scarcerazione immediata. Nonostante la sentenza del giudice, l'NCA ha insistito sul fatto di aver svolto bene il proprio lavoro e aver aiutato la Procura di Palermo a trovare l’uomo giusto, come testimonierebbe il fatto che Berhe «è stato condannato per reati legati al traffico di persone». Anche il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ha rifiutato di scusarsi per l'errore: «Il giudice lo ha accusato di aiutare l'immigrazione illegale», è stato il suo commento.
Il professor Lutz Oette, della prestigiosa School of Oriental and African Studies (Soas) di Londra, in una breve lettera pubblicata sul Guardian, ha chiesto che venga aperta un’inchiesta sull’operato della NCA britannica e sui procuratori di Palermo “responsabili di aver arrestato la persona sbagliata in Sudan, scambiandola erroneamente per un pericoloso trafficante di uomini”.
Tuttavia, invece di essere scarcerato, come disposto dalla sentenza, Medhanie Tesfamariam Behre – in attesa che il 19 luglio venga esaminata la sua richiesta di asilo – è stato portato nel centro di permanenza per i rimpatri di Caltanissetta. Un provvedimento previsto per la condanna a cinque anni per avere favorito l'immigrazione clandestina, inflitta dalla stessa sentenza. "Considerato che dalle condotte tenute è possibile desumere la pericolosità sociale del cittadino", si legge nel provvedimento del questore.
«Avevamo pensato che dopo la sentenza della Corte di Assise il mio assistito avrebbe riassaporato la libertà, invece - dice l'avvocato Michele Calantropo, che difende l'eritreo - ci troviamo a dovere affrontare un nuovo procedimento per consentire a Medhanie Tesfamariam Behre di ricominciare a vivere. Non ci fermiamo, ricorreremo in Cassazione».
Davanti a Berhe ci sarebbero due possibilità, ora, aggiunge Calantropo: trattenerlo al Cpr di Pian del Lago a tempo indeterminato o espellerlo. «Quest’ultima tecnicamente meno plausibile, considerando che in Sudan, dove viveva e dove è stato prelevato mentre stava bevendo un the, non può tornare, non essendo un cittadino sudanese, ma neanche nel suo Paese, l'Eritrea, sarebbe il benvenuto, visto che è scappato per sfuggire alla guerra sarebbe considerato un disertore e per questo sarebbe processato e andrebbe incontro a pene durissime, tra cui anche quella di morte. Questo non è permesso dal diritto internazionale, dunque il giovane potrebbe semplicemente essere accompagnato al confine. Ma quale? Trattandosi di leggi europee dovrebbe essere accompagnato in un Paese esterno all'Unione. Uno stato africano? La Russia? La Svizzera forse? Lo scenario più tristemente probabile è quello che Behre possa rimanere ancora per molto, molto tempo dietro alle sbarre del Cpr di Pian del Lago».
«Non c’è una sola ragione al mondo per cui al cittadino eritreo Medhanie Tesfamariam Behre, arrestato nel 2016 in Sudan e per tre anni erroneamente ritenuto un importante trafficante di esseri umani, debba essere negato l’asilo politico», ha dichiarato Amnesty International Italia.
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Caso Mered, test del DNA rafforza l'ipotesi che la Procura di Palermo abbia arrestato la persona sbagliata
Anche il test del DNA sembra avvalorare la tesi che la Procura di Palermo abbia arrestato nel 2016, con l’accusa di traffico di migranti, la persona sbagliata per quello che all’epoca era stato definito “l’arresto dell’anno”.
Nel giugno 2016, i procuratori siciliani, in collaborazione con la National Crime Agency (NCA) britannica, avevano annunciato di aver arrestato Medhanie Yehdego Mered, un pericoloso trafficante di migranti, accusato di guidare un’organizzazione con base in Libia che gestiva il traffico di migranti eritrei verso l’Europa. Subito dopo l’arresto, il Guardian aveva sollevato dubbi sull’identità della persona arrestata partendo dalle affermazioni di alcuni amici che avevano sostenuto che l’uomo detenuto era in realtà Medhanie Tesfamariam Berhe, un rifugiato di 29 anni ed ex operaio caseario. Altre prove presentate da Michele Calantropo, l’avvocato difensore di Medhanie Tesfamariam Berhe, e persino dalla moglie di Mered, Lidya Tesfu, sembravano confermare la tesi secondo la quale i pubblici ministeri abbiano catturato l’uomo sbagliato.
Il mese scorso Calantropo è volato in Svezia – dove Lidya Tesfu vive con suo figlio, registrato nelle liste della popolazione svedese come Raei Yehdego Mered e ritenuto dalle autorità come il primo figlio di Mered – per raccogliere un campione di saliva di moglie e figlio del trafficante e incrociarlo con quello del detenuto. "Il risultato non lascia spazio a dubbi: l'uomo in carcere non è il padre del bambino, e di conseguenza non è il trafficante Mered", ha dichiarato l’avvocato difensore di Berhe al Guardian.
Il risultato del test del DNA rafforza, scrive Lorenzo Tondo sul quotidiano britannico, i risultati delle analisi svolte lo scorso ottobre a Palermo sulla madre di Berhe, Meaza Zerai Weldai, che avevano dimostrato che la donna era effettivamente la mamma del detenuto. Questo non era stato però sufficiente a scagionare l’uomo in carcere.
Ad aprile un documentario della tv pubblica svedese SVT, in collaborazione con i giornalisti del Guardian, aveva mostrato che “Mered vive attualmente in Uganda e spende i suoi sostanziosi guadagni in serata nei nightclub”.
Il giornalista della SVT Ali Fegan e l’attivista eritrea Meron Estefanos si erano recati nella capitale ugandese, a Kampala, a marzo, e avevano raccolto decine di testimonianze di cittadini ugandesi ed eritrei che affermano di aver visto e incontrato Mered. "Abbiamo mappato tutti i luoghi, i bar e gli hotel in cui [Mered] è stato visto a Kampala," aveva commentato Fegan. "Abbiamo deciso di usare una telecamera nascosta e siamo riusciti a documentare molte testimonianze di persone che dicono che vive lì".
La SVT è entrata in possesso anche di un dossier che rivelerebbe che un'autorità di polizia europea sarebbe a conoscenza del fatto che il vero contrabbandiere sia ancora in libertà senza riuscire però a convincere i pubblici ministeri italiani a emettere un nuovo mandato di cattura. Nel documentario viene intervistato il procuratore di Palermo, Calogero Ferrara, che ha guidato l'inchiesta, ma alla richiesta di un commento sull'arresto di Mered, Ferrara ha interrotto l'intervista e ha detto ai giornalisti di lasciare il suo ufficio
Sentita dal Guardian, l'NCA ha risposto di non poter commentare un caso in corso, mentre i pubblici ministeri italiani non hanno voluto rilasciare dichiarazioni.
Scoprire durante un’udienza in tribunale di essere stato intercettato e che alcune conversazioni registrate sono state ritenute rilevanti nel caso giudiziario riguardante l’arresto di un pericoloso trafficante di migranti che stai seguendo da un anno e mezzo per la testata per cui lavori, durante il quale hai rilevato in più occasioni che potrebbe esserci stato un errore e in carcere è finita la persona sbagliata. E notare, leggendo gli scambi inseriti nel documento depositato dal pubblico ministero, che quanto riportato sembra del tutto irrilevante dal punto di vista investigativo.
È quello che è accaduto a Lorenzo Tondo, giornalista siciliano, che per il Guardian sta seguendo le vicende giudiziarie del cosiddetto “caso Mered”: l’arresto di un eritreo, che per la Procura di Palermo sarebbe il pericoloso trafficante di migranti, Medhanie Yehdego Mered, mentre per la difesa si tratterebbe di Medhanie Tesfamariam Behre, un richiedente asilo che mungeva vacche in Sudan prima di provare a raggiungere l’Europa. In base a molti elementi raccolti e alle ricostruzioni di diverse testate italiane e internazionali, il "caso Mered" potrebbe configurarsi come uno scambio di persona.
In un post su Facebook di una decina di giorni fa, Tondo ha definito lesivo del diritto di cronaca e del suo mestiere di giornalista l’episodio che l’ha visto direttamente coinvolto, mostrando tutta la sua amarezza, sorpresa e preoccupazione per quanto accaduto: «Citare le mie relazioni con una fonte (relazioni che, ripeto, non hanno alcuna rilevanza investigativa) e inserirle deliberatamente in un’indagine contro un trafficante di uomini, significa ledere quel principio. Con l’effetto di screditare il nostro lavoro. Mi auguro che questo non sia l’obiettivo degli investigatori. Ho rispetto del lavoro della magistratura. E questo rispetto non deve e non può però diventare sudditanza. Quando si tratta di sollevare dubbi fondati su un’operazione o un’indagine, io, da cronista, devo essere libero di poterli sollevare».
Ieri è successa una cosa davvero spiacevole. Una cosa che in Italia, nella mia categoria, è considerata oramai...
Pubblicato da Lorenzo Tondo su Sabato 11 novembre 2017
Abbiamo ripercorso le principali tappe di questa controversa vicenda giudiziaria e sentito Lorenzo Tondo per provare a tracciare il contesto in cui è arrivata la trascrizione delle sue conversazioni.
Il “caso Mered”
A fine maggio del 2016, grazie a un’operazione congiunta di Italia e Gran Bretagna, viene arrestata una persona che si ritiene essere Medhanie Yehdego Mered. È considerata una figura chiave nel traffico di migranti in fuga dal Nord Africa verso l’Europa. L’8 giugno viene estradato in Italia e in un articolo del Corriere della Sera che riporta la notizia si leggono i dettagli dell’arresto:
L’hanno preso in Sudan, dove si era rifugiato, grazie a un’operazione dei servizi segreti di quel Paese in collaborazione con gli inglesi della National crime agency (NCA). Ma l’ordine d’arresto viene dalla Procura di Palermo, che l’ha individuato come uno dei più attivi trafficanti di esseri umani sulla rotta libica-subsahariana, al termine delle indagini (ndr basate anche su intercettazioni) del Servizio centrale operativo della polizia e delle Squadre mobili della Sicilia occidentale. Ecco perché martedì sera è stato estradato in Italia Medhane Yehdego Mered, cittadino eritreo di 35 anni, chiamato dai suoi complici «il Generale»”.
L’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, lo stesso giorno affermò che “l’arresto e l’estradizione in Italia di Mered Yehdego Medhane è un risultato straordinario conseguito grazie a una intensa attività investigativa e di cooperazione transnazionale”.
Il 9 giugno, il giorno seguente la notizia dell’arresto di Mered, i media inglesi pubblicano però le testimonianze di alcuni amici e parenti dell’eritreo arrestato che affermano che da parte degli inquirenti c’è stato un scambio di persona che ha portato all’arresto dell’uomo sbagliato. In realtà, infatti, secondo la loro testimonianza, la persona in carcere si chiama Mered Medhanie Tesfamariam Behre e ha 28 anni. Tra le testimonianze raccolte dal media britannico c’è anche quella di Meron Estefanos, una giornalista svedese di origine eritrea, che afferma di aver contattato i rifugiati che conoscono il vero trafficante di persone, di aver mostrato loro la foto dell’uomo arrestato dalle autorità italiane e che tutti quanti hanno assicurato che non si tratta della persona che li ha condotti illegalmente in Europa. Estefanos ha poi aggiunto: «Credo che abbiano la persona sbagliata: questo è un rifugiato che si trovava a Khartoum [capitale sudanese] nel posto sbagliato al momento sbagliato».
In risposta a queste testimonianze, un portavoce dell’NCA (National Crime Agency), riportano ancora i media inglesi, afferma che «si tratta di un'operazione complessa con più partner ed è troppo presto per fare congetture su queste affermazioni», aggiungendo comunque di essere fiduciosi del processo di raccolta di informazioni che hanno portato all’arresto dell’uomo condotto dal Sudan in Italia. Dopo il primo interrogatorio davanti ai magistrati siciliani, avvenuto il 10 giugno 2016, il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, commenta di essere fiduciosi «perché l'indagato ha riconosciuto che una delle telefonate intercettate il 23 maggio era stata fatta da lui, con il telefono che poi è stato ritrovato al momento dell'arresto e che è stato consegnato a noi. Per questo gli accertamenti proseguono e non abbiamo alcuna certezza sull'errore di persona. Verrà fatta una perizia fonica e solo così si potrà stabilire se effettivamente la persona che intercettavamo era quella che poi è stata arrestata».
Davanti al Giudice delle indagini preliminare (Gip), riporta Repubblica Palermo, l'uomo ha “sostenuto di chiamarsi Mered Tesfamarian, eritreo, rifugiato in Sudan” e non quindi “Mered Yehdego Medhane”, nome del presunto trafficante di uomini. I suoi legali hanno presentato una richiesta di scarcerazione, ma è stata respinta dal gip, perché, racconta RaiNews, “le ragioni prospettate dalla difesa poggerebbero solo sulle dichiarazioni dell'eritreo e dei suoi amici. ‘Mentre - scrive il gip richiamandosi alla memoria dei pm - ci sono elementi chiari e plurimi a suo carico’”.
A settembre il Gip rinvia a giudizio l’uomo in carcere, che nel frattempo era stato trasferito da Roma a Palermo, con l'accusa di essere uno dei più pericolosi trafficanti di esseri umani al mondo. Nel corso del processo – la cui prima udienza è stata rinviata più volte e andato a rilento perché alcuni giudici sono cambiati per diverse questioni –, l’avvocato presenta diverse prove a sostegno dello scambio di persona: le foto di un matrimonio del 2015 in cui appare quello che secondo la difesa sarebbe il vero trafficante, un documento di identità a nome Tasmafarian, rilasciato in copia conforme dal dipartimento Emigrazione dell'Eritrea, che dimostrerebbe che il suo assistito si trovasse in Sudan in procinto di partire per l'Italia come migrante, altri migranti che hanno conosciuto il trafficante Medhanie Mered – a lui hanno pagato soldi per arrivare in Italia – che hanno testimoniato che l’uomo arrestato non è la persona che i pm di Palermo accusano. In precedenza, riporta il Fatto Quotidiano, anche la Procura di Roma aveva affermato che la foto di Mered non corrispondeva all’uomo in carcere, sulla base delle testimonianze di un collaboratore di giustizia, Seifu Haile, e di altre perizie.
La Procura ha sempre respinto invece la tesi dello scambio di persona in base alle prove raccolte durante le indagini (come il traffico telefonico e i collegamenti con altri soggetti). Il 25 ottobre 2017, la difesa ha presentato, come ulteriore prova, il test del DNA che ha attestato che al 99,99% la madre della persona in carcere è Meaza Zerai Weldai, la donna che, pochi giorni prima, in un’intervista a Repubblica, aveva affermato che «non è lui Medhanie Yehdego Mered. Il nome di mio figlio è Medhanie Tesfamariam Berhe». L'avvocato ha così commentato l’esito del test del DNA: «Ad oggi un dato certo c'è. Il mio assistito si chiama Medhanie Tesfamariam Berhe e non ha altri nomi».
Il mese successivo, il 10 novembre, i pm hanno portato nuove prove di colpevolezza, derivanti da un’attività integrativa d'indagine partita dall'analisi del cellulare sequestrato all'eritreo al momento dell'arresto, spiega LiveSicilia: “Contatti con trafficanti di uomini libici e un ruolo attivo nell'organizzazione dei viaggi di migranti verso le coste siciliane: sono gli elementi d'indagine nuovi che, per i pm di Palermo, confermerebbero che l'eritreo sotto processo per tratta, arrestato ed estradato dal Sudan nel 2015, è quello che per anni hanno cercato. Nessun errore di persona. (...) Che si chiami Mered Medhanie Yedhego o, come ritenuto dai difensori, Mered Tasmafarian Behre, in cella dal 23 maggio 2016, ne sono certi i pm, c'è uno dei più importanti e spietati trafficanti di uomini dell'Africa”.
L’intercettazione di Tondo
È a questo punto che s’inserisce la vicenda che riguarda direttamente Lorenzo Tondo.
Tondo è stato uno dei pochi giornalisti italiani a seguire sin dall’inizio il caso per il Guardian, introducendo di volta in volta, con i suoi articoli, elementi che mettevano in discussione le conclusioni cui era giunta la Procura di Palermo e, cioè, che l’uomo finito in carcere fosse effettivamente Medhanie Yehdego Mered. Il 9 giugno 2016 (il giorno dopo l’annuncio dell’arresto del pericoloso trafficante di migranti, ndr) scrive un articolo insieme a Patrick Kingsley, giornalista che all'epoca per il Guardian si occupava di migrazione, in cui segnala per la prima volta che potrebbe esserci stato uno scambio di persona e che l’eritreo arrestato sarebbe “Medhanie Tesfamariam Berhe, noto ad alcuni amici col suo nome ancestrale di Kidane”. A testimoniarlo, Fshaye Tasfai, un esiliato eritreo di 42 anni, che viveva in Sicilia, cugino di Berhe, che assicurava che la persona arrestata provenisse dalla sua famiglia e avesse lasciato l’Eritrea nel 2014 per trasferirsi a Khartum, in Sudan. Affermazioni confermate anche da uno dei coinquilini di Berhe nella capitale sudanese. Nei mesi successivi, Tondo continua a scrivere sul quotidiano britannico portando alla luce sempre più aspetti che generavano più di una perplessità sull’identità della persona arrestata: i racconti della famiglia dell’imputato, i dati provenienti dal controllo del suo profilo Facebook, persino la testimonianza della moglie del vero trafficante, Medhanie Yehdego Mered, supportavano l’ipotesi dello scambio di persona e che in carcere ci fosse il Mered sbagliato.
Nell’udienza del 10 novembre il pubblico ministero Calogero Ferrara deposita la “Comunicazione di Reato redatta nei confronti di Mered Yehdego Medhanie, nato in Eritrea l’1 gennaio 1981, alias Tesfamariam Medhanie Berhe, nato in Eritrea il 12 maggio 1987”. In altre parole, i pm non prendono considerazione l’ipotesi dello scambio di persona e i due nomi diversi non sarebbero identificativi di due persone differenti, ma sarebbero alias, pseudonimi, dell’imputato.
La comunicazione, divisa in 9 capitoli, contiene informazioni ritenute rilevanti dal pubblico ministero ai fini istruttori. Ricevuta l’informativa dalla polizia giudiziaria, spiega Giuseppe Francaviglia su The Vision, il pm la presenta al presidente della Corte dopo aver valutato quali sono gli elementi di interessi investigativi per istruire il processo. Le trascrizioni delle intercettazioni riguardanti Lorenzo Tondo sono in questo documento.
All’interno del nono capitolo, intitolato “I collegamenti tra Medhane e stranieri presenti a Palermo”, vengono identificate due utenze contattate dal cellulare sequestrato all’imputato prima della partenza verso l’Europa. Una è quella di Haile Fishaye Tesfay: per l’accusa un possibile “collegamento in Italia per conto dell’organizzazione criminale transazione capeggiata da Medhanie/Mered”, per la difesa, ricostruisce Francaviglia, “semplicemente un familiare di Medhanie/Berhe”. Fishaye Tesfay è la stessa persona (Fshaye Tasfai) che dice a Kingsley e Tondo, il 9 giugno 2016, che c’è stato un errore e l’eritreo arrestato non è il pericoloso trafficante, ma un suo "cugino". Per questo motivo è importante distinguere tra Mered e Berhe e stabilire chi sia l’uomo sotto processo.
Sospettando che Fishaye Tesfay potesse avere un ruolo di collegamento in Italia per conto dell’organizzazione criminale guidata da “Medhanie/Berhe”, i pm chiedono di procedere all’intercettazione, autorizzata a partire dal 15 febbraio 2017. È tra queste intercettazioni che finiscono le conversazioni di Tondo.
“Inoltre – si legge nella Comunicazione – sono state intercettate anche due conversazioni ed un sms tra Haile Fishaye Tesfay e il giornalista Lorenzo Tondo, corrispondente in Italia del giornale britannico “The Guardian”, dal cui ascolto si è evinto che è in atto la preparazione di un reportage giornalistico sul trafficante Mered. Si è potuto chiaramente ascoltare che il giornalista si avvarrà anche dell’opera di Haile Fishaye Tesfay, invitato anche a sostenere delle interviste ‘di spalla’”.
In un’altra trascrizione, viene fatto riferimento a un incontro con altre persone, “Gabriele e Silvia”, che, come ci ha detto Tondo, sono due suoi colleghi del quotidiano siciliano MeridioNews.
I passaggi evidentemente ritenuti importanti dai pm sono in grassetto ma resta difficile capire come le conversazioni trascritte possano essere rilevanti per fare luce sull’identità dell’imputato e sui reati che gli sono contestati e all’organizzazione. Nel documento, i pm scrivono che dalle “conversazioni di interesse investigativo (...) si è potuto evincere come Fishaye Tesfay sia stato sempre interessato alle vicende riguardanti il detenuto Medhane”. Se anche Medhanie Berhe fosse il terribile trafficante e Fishaye Tesfay una persona interessata alle vicende riguardanti l’imputato, nelle conversazioni con Tondo questo interesse non si evidenzia. Risulta difficile così comprendere, quale possa essere l’effettivo interesse investigativo delle conversazioni trascritte.
A caldo Tondo scriveva su Facebook:
Nelle conversazioni, depositate ieri, non c’è nulla di rilevante dal punto di vista investigativo. Davo appuntamento al ragazzo a casa mia. Doveva aiutarmi a tradurre alcuni documenti e a farmi da interprete per alcune interviste. È cresciuto insieme all’uomo detenuto a Palermo questo ragazzo, era un suo vicino di casa quando abitava ad Asmara. E siccome la Procura è certa di aver arrestato il più pericoloso trafficante di uomini in Africa, allora ecco che gli investigatori ci tengono a sottolineare nel loro fascicolo che il ‘’corrispondente del Guardian Lorenzo Tondo aveva contattato un amico dell’uomo arrestato per un articolo che stava scrivendo sul caso’’. Un uomo che, per via di quell'amicizia, viene ritenuto vicino al traffico dei migranti. E poi via con una lunga trascrizione delle nostre conversazioni.
«L’unica spiegazione che mi sono dato – dice Tondo a Valigia Blu – è che volessero screditarmi in quanto giornalista. Non si spiega altrimenti il riferimento al “corrispondente del Guardian Lorenzo Tondo" nel documento».
Un tentativo di delegittimazione che non si limita al “caso Mered”, ma che si estende anche ad altre inchieste giornalistiche. «Hanno fatto problemi anche per altri lavori, anche a persone che stavano collaborando con me, come ad esempio a una giornalista del New York Times». Tondo fa riferimento qui a un episodio citato da Ben Taub sul New Yorker: una giornalista del New York Times avrebbe contattato il procuratore di Palermo, Calogero Ferrara, per una storia potenziale sulle migrazioni e quando il pm ha saputo della sua collaborazione con Tondo per un altro lavoro, avrebbe minacciato il quotidiano statunitense di interrompere ogni collaborazione. «Se Tondo firma con te un lavoro, per la magistratura di Palermo il New York Times non esiste più», sarebbero state le parole di Ferrara, che ha negato l’accaduto, specifica Taub.
L’intercettazione non sembra essere, dunque, un episodio isolato. «Sospettavo che potesse accadere una cosa del genere, ma non me l’aspettavo», dice Tondo con una punta di amarezza. A metterlo in guardia un episodio oscuro, avvenuto alcuni mesi prima, che non era riuscito a spiegarsi. «Durante un’udienza sempre relativa a Mered, un uomo che non avevo mai visto prima ha cominciato a fotografarmi con il cellulare. A un certo punto ho visto che si è avvicinato al tavolo dove erano i procuratori e ha cominciato a parlare con loro. Quando ho deciso di avvicinarmi anche io, per spiegare ai pm che quell’uomo mi aveva fotografato, lui si è rivolto a me e ha detto: “Stai tranquillo, Lorenzo!”. “Lorenzo? E come faceva a conoscere il mio nome se era la prima volta che ci incontravamo?”. In un’udienza successiva, quella stessa persona fu chiamata sul banco dei testimoni dell’accusa: era un agente di polizia. «E se vai a controllare tra le firme del documento della Procura dove ci sono le mie trascrizioni, trovi anche la sua», racconta Tondo. «E se ci penso, il periodo in cui sono stato fotografato e quello a cui risalgono le intercettazioni è lo stesso: marzo 2017».
Tutto questo, prosegue il giornalista, contribuisce a creare un contesto sfavorevole e difficile per fare giornalismo investigativo, mette a rischio la difesa delle fonti e genera un clima generale di sfiducia e diffidenza tra soggetti che dovrebbero rispettare i propri ruoli. «Se tu sai che un telefono è intercettato è più difficile mantenere contatti e i colleghi con cui lavori chiedono di stabilire contatti più sicuri per comunicare».
Il Guardian ha chiesto un commento sull’accaduto ma il procuratore di Palermo non ha risposto.
Gli ultimi sviluppi
Lo scorso 16 novembre, i periti della difesa e della Procura hanno fatto il “riconoscimento fonico dell’imputato”, analizzando conversazioni del 2014. Sia per l’esperto chiamato dalla difesa sia quello indicato dalla Procura non sono stati in grado di individuare con certezza nel trafficante di migranti la persona ascoltata nelle intercettazioni. Come scrive Lorenzo Bagnoli su Lettera43:
La domanda a cui i periti di accusa e difesa dovevano rispondere era relativamente semplice: la persona sotto intercettazione della procura è la stessa che oggi è in carcere? L’esperto della difesa, Milko Grimaldi, fonico forense che dirige Centro di Ricerca Interdisciplinare sul Linguaggio dell’università del Salento, ha scritto nella sua relazione che «nessuna delle voci anonime riscontrate nelle intercettazioni esaminate è compatibile con il saggio fonico rilasciato dall’imputato». Ha escluso al 99,98% che le voci delle intercettazioni possano combaciare con quella dell’imputato, registrata in un secondo tempo in un «saggio vocale». Il perito della Procura, Marco Zonaro, invece, non ha potuto confermare né smentire l’identificazione: le probabilità sono troppo basse in entrambi i casi. La prova, quindi, è stata definita inconclusiva, inutilizzabile.
Dopo la prova del DNA, il riconoscimento fonico potrebbe essere la chiave per avviare un processo di scarcerazione, ha spiegato Tondo a Valigia Blu. Resta da capire quali saranno i prossimi passi della Procura di Palermo in una vicenda che al di là del «caso giudiziario – ci dice il giornalista siciliano – mostra che non si è capito nulla di come funziona il traffico di essere umani. Non è possibile affrontare con le intercettazioni, accordi che si fanno faccia a faccia». Da tutta questa storia, «resta che non sappiamo più chi è il vero Mered, nonostante sappiamo che ha una faccia e 2 figli. Gli hanno cambiato il volto, il nome, l’età, Mered ora può essere chiunque, può essere ovunque».
*Nell'articolo abbiamo ripreso citazioni da diversi giornali che hanno chiamato erroneamente la persona in carcere "Mered Tasmafarian Behre". Il suo vero nome è Medhanie Tesfamariam Berhe.
Foto in anteprima via Lettera43