Sappiamo come devono essere coperti i casi di violenza sulle donne, ma continuiamo a fare gli stessi errori
13 min letturaUn uomo spara e uccide la moglie e i due figli e poi si suicida: i giornali lo descrivono come molto dedito al lavoro. Un altro uomo dà fuoco alla compagna: i media raccontano la sua gelosia. Un terzo uomo viene arrestato per una violenza sessuale ai danni di una ragazza sequestrata, drogata e seviziata per ore: si parla di lui come di un vulcanico imprenditore.
Queste tre frasi riassumono pochi giorni – tra il 9 e il 12 novembre – di rappresentazione mediatica di casi di violenza sulle donne, tra femminicidi e stupri. Ripercorrerla non è solo un tour dell’orrore, è anche desolante e a tratti frustrante. Che il modo in cui i media parlano di questi casi sia un problema, infatti, viene denunciato e ripetuto da anni. Sono stati messi a punto strumenti, decaloghi, guide, fatti workshop, corsi, incontri, scritti decine di libri. Ciononostante, certe narrazioni, certe parole e certi schemi persistono.
Prima di parlare di rappresentazione, qualche dato: secondo l’Istat, in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Stiamo parlando di circa 7 milioni di persone che hanno avuto a che fare con strattonamenti, molestie, maltrattamenti, fino ad arrivare a percosse, tentativi di strangolamento, stupri. Senza contare i casi di abusi psicologici o stalking. A commettere le violenze più gravi sono partner, parenti, amici, persone conosciute. Sono stime al ribasso, che nascondono molto sommerso, non denunciato e non detto.
Sui femminicidi non esistono ancora dati univoci e raccolti in maniera sistematizzata. Alcune cose però le sappiamo. Ad esempio, sempre attingendo alle rilevazioni dell’Istituto di statistica emerge che delle 133 donne uccise nel 2018, l’81,2% è stata uccisa da qualcuno che conosceva: il compagno, l’ex, un familiare, un amico, un collega. Nonostante negli ultimi dieci anni il numero di omicidi volontari sia sensibilmente diminuito, quello delle vittime femminili – più basso rispetto a quelle maschili, che però sono uccise perlopiù da estranei – resta stabile nel tempo.
Sappiamo anche che il femminicidio è l’unico reato che non si è fermato con il lockdown. Nel primo semestre nel 2020, il totale degli omicidi volontari è sceso del 19%, da 161 del 2019 a 131, ma il numero di donne uccise è passato da 56 a 59, salendo del 5%. Anche la violenza domestica non ha rallentato, anzi: tra marzo e giugno di quest’anno il numero 1522 anti violenza ha raddoppiato i contatti sia telefonici che via chat: da 6.956 a 15.280. Si tratta di un aumento del 119,6%.
"Un gran lavoratore"
Il 9 novembre, intorno alle 5 e 30 della mattina, a Carignano, in provincia di Torino, Alberto Accastello, 40 anni, spara alla testa alla moglie Barbara Gargano, di 38, e ai due figli gemelli di due anni, uccidendoli. Ammazza anche il cane, poi si suicida.
Nel raccontare questo femminicidio – parola quasi mai utilizzata per questo caso – la maggior parte dei quotidiani ha adottato lo stesso frame narrativo: lei voleva separarsi, lui lavorava tanto. Non è un dettaglio, è già una distribuzione di responsabilità. Come dire: c’era chi lavorava per tenere unita la famiglia, chi per distruggerla.
È un’operazione sottile, perché un gesto come sterminare la famiglia è ingiustificabile ai più. Ma si possono scegliere parole e testimonianze per suscitare un misto di pietà ed empatia per il carnefice, e biasimo nei confronti della vittima.
Nel dare la notizia il Corriere della Sera mette il movente in grassetto: Barbara voleva separarsi, ma il marito non accettava la sua decisione.
Contestualmente riporta le parole dei vicini di casa, che si esprimono quasi esclusivamente su di lui:
«Era un gran lavoratore, viveva per la famiglia. Sapevo che tra loro c’erano problemi, ma non pensavo sarebbe finita così».
E ancora:
«lavorava anche al sabato e la domenica per finire la villetta che avevano costruito. Alberto era una persona tranquilla. Sempre attento e gentile. Evidentemente la prospettiva della separazione lo ha sconvolto».
Le uniche parole pronunciate su Barbara sono queste:
«Aveva chiesto a Barbara un’altra possibilità, ma lei diceva “quando dico di no è no”. L’abbiamo vista ieri sera era tranquilla, anzi euforica».
Anche Repubblica fa parlare i vicini, che raccontano di aver visto ultimamente «Alberto molto giù di morale, era chiaro che viveva molto male la separazione, aveva perso peso, diceva di non dormire». Lei invece viene descritta come «tranquilla, quasi gioiosa».
In un articolo del giorno successivo, il quotidiano si concentra sulla presunta nuova relazione della donna, con un uomo conosciuto al lavoro, che diventa “scintilla” che ha fatto premere il grilletto all’uomo:
E forse la conferma di questa relazione è stata la scintilla che ha acceso nella mente di Alberto Accastello, marito di Barbara da cinque anni, che proprio a fine ottobre ha acquistato una nuova pistola, la stessa calibro 22 con cui ha poi fatto fuoco all'alba di ieri, sterminando la sua famiglia prima di uccidersi.
Poi si torna alle testimonianze. I colleghi dell’uomo confermano che lui “lavorava moltissimo. Mai un'assenza, sempre presente, tanto che tutti avevano notato quella mezza giornata di ferie presa venerdì proprio per depositare alcune carte relative alla fine del matrimonio”.
Quando vengono sentititi i colleghi di lei, invece, viene sottolineato come molti non fossero “a conoscenza della nuova vita che aveva intenzione di costruirsi”.
La Stampa mette semplicemente nell’occhiello che “sembra che la donna avesse da poco annunciato al marito l’intenzione di separarsi”. In un articolo a pagamento sul sito, però, il titolo è questo: “Me ne vado, amo un altro”: il marito la uccide nel sonno e spara i due gemellini.
L’incipit del pezzo è ancora una volta nel solco dell’uomo lavoratore attaccato alla famiglia, la donna leggera, insensibile ai veri valori.
«Vivo in mezzo al nulla. A casa sono sempre in lockdown, non vedo mai nessuno», diceva agli amici, senza rinunciare ai sorrisi. Guardando i campi di mais dal portico di pietra della sua bella villetta color amaranto, costruita da poco, lei vedeva solo solitudine attorno a sé. Suo marito, invece, in quei campi a perdita d’occhio sentiva le sue radici, una famiglia, il lavoro e ancora il lavoro.
Lo stesso giornale ha pubblicato una video intervista al datore di lavoro dell'uomo. Il titolo è un virgolettato: “Era un ragazzo esemplare, come un figlio”.
Il Tg5 lo descrive come "legatissimo alla famiglia, innamorato di lei e dei figli", che non "avrebbe accettato la separazione".
Il risultato di una narrazione di questo tipo è esemplificato dai commenti pubblicati sui social alla notizia, raccolti da Reama - Rete per l'Empowerment e l'Auto Mutuo Aiuto.
In un servizio del Tg3 si parla della strage di Carignano come uno dei tanti gesti che nell'ultimo anno hanno colpito il Piemonte, "stragi familiari, causate dalla gelosia, spesso dall'ira, dalla frustrazione, dalla depressione".
L’Ansa – non usando la parola femminicidio – racconta il caso parlando di “raptus omicida” dell’uomo, così come Libero.
È utile ricordare, visto che è un termine usato molto di frequente, che il «raptus omicida» non esiste, come affermato da Claudio Mencacci, che è stato presidente della Società italiana di psichiatria (Sip). Non solo, secondo Mencacci, «spesso se ne fa un uso giustificazionista e assolvente. Normalmente c’è una lunga preparazione e un’attitudine alla violenza e all’aggressività, che trova un momento culminante già precedentemente manifestato». Non c’è, aggiunge, una connessione tra raptus omicida e femminicidio: «Si deve parlare di omicidio di genere e si deve tornare a parlare di sopraffazione, prepotenza e violenza».
"Accecato dalla gelosia"
L’11 novembre a San Felice a Cancello, in provincia di Caserta, Michele Marotta, 34 anni, porta la moglie Maria Tedesco, di un anno più giovane, in una zona di campagna. Lì le spara e la uccide, poi chiama i carabinieri e si costituisce.
Il modo in cui è stato raccontato questo fatto è quello del “crimine di passione”: la parola e i suoi derivati – “delitto passionale”, “pista passionale” – compaiono in quasi tutti gli articoli, a differenza dell’unica che avrebbe avuto senso usare: femminicidio. Trova molto spazio anche l’ipotesi del “litigio”, un termine che presuppone che ci sia una certa reciprocità. Qui, considerato che l'assassino è ancora vivo, l’operazione empatia è più difficile, ma è comunque più semplice immedesimarsi nei sentimenti del carnefice – anche perché quelli della vittima non sono raccontati.
Il Mattino dà la notizia del femminicidio di Maria Tedesco parlando di “follia nel casertano”, spiega che “secondo le prime indiscrezioni, pare che l'uomo abbia usato una pistola per ammazzarla dopo un violento litigio. Si segue la pista passionale”.
Lo stesso giornale in un articolo successivo racconta che l’uomo ha ucciso la moglie “in un raptus di gelosia” – raptus esploso quando si trovava casualmente con un revolver in tasca. Nel titolo mette un virgolettato: «Mi tradiva». Ma il testo precisa che “forse, però, la storia del tradimento è solo una elaborazione della sua mente”.
Anche fanpage.it scrive che “tra le piste prese in considerazione viene ritenuta più attendibile quella passionale: gli spari sarebbero stati l'epilogo di un litigio nato per gelosia e i due avrebbero già litigato violentemente anche nei giorni scorsi”.
Il Messaggero – che perlomeno parla di "ennesimo femminicidio" – lascia il titolo a una dichiarazione dell'assassino, che si giustifica dicendo: «Ero geloso di lei».
Su La Stampa il 34enne viene definito “accecato dalla gelosia” – titolo poi modificato.
L’articolo spiega che le circostanze sono da accertare, ma che
di certo c’è che Michele Marotta aveva appena terminato il periodo di quarantena cui era stato sottoposto perché risultato positivo al Covid: non appena ha riconquistato la libertà è tornato a casa dove ad attenderlo c’era Maria. Di certo c’è che i due sono usciti insieme, a bordo della macchina di lui, e insieme hanno raggiunto un'area collinare della frazione di Cancello Scalo.
Da qui in poi la storia ha la voce narrante del solo Michele, che racconta di un litigio, l’ennesimo, per via della gelosia: il 34enne era contrariato dall’atteggiamento che la moglie aveva con un altro uomo. I toni si sarebbero accesi e Michele ha impugnato la pistola, legalmente detenuta, aprendo il fuoco contro Maria. Un omicidio d’impeto, a sentire la prima versione offerta dal 34enne.
La “voce narrante del solo Michele” è in effetti quella assunta da molti quotidiani che si sono occupati della vicenda. È lui a parlare di gelosia, sentimento che poi trova posto in titoli e articoli.
Anche qui non c’è niente di nuovo, niente di non già denunciato come profondamente sbagliato e dannoso. Già nel 2014 da una ricerca condotta dal dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna su articoli di cronaca riguardanti casi di donne uccise dai partner pubblicati su tre quotidiani italiani, era emerso come su 116 pezzi esaminati, 92 presentavano la vicenda come collegata a una “dimensione d’amore e passione, sottintendendo l’esistenza di una connessione forte tra il femminicidio della partner e uno stato di amore tormentato”.
I principali motivi del “crimine di passione” erano “la gelosia e l’incapacità di accettare la decisione del partner di terminare la relazione” a cui veniva accompagnata una “perdita di controllo” da parte dell’uomo. Secondo le ricercatrici, rifacendosi ad “amore romantico” e “perdita di controllo” da un lato si sostiene “che i femminicidi vadano intesi come il tragico e inaspettato epilogo di una contingente mancanza di capacità di discernimento dell’individuo”, dall’altro si “mitigano le responsabilità del killer per il crimine commesso”, suscitando “una rappresentazione simpatetica” di lui.
Gli articoli oggetto della ricerca si riferivano al 2012, siamo nel 2020 e ancora si parla di "pista passionale".
Tutti gli articoli, infine, vengono corredati da una foto di vittima e carnefice ritratti insieme, vicini o abbracciati, sorridenti. Rafforza l'idea della coppia felice, sulla quale inspiegabilmente si è abbattuta questa tragedia.
"Un vulcano di idee e progetti"
Il 7 novembre Alberto Genovese, 43 anni, di Napoli ma a Milano da molto tempo, viene fermato con l’accusa violenza sessuale, lesioni, sequestro di persona e spaccio di droga. Ad aver denunciato di essere stata stuprata e sequestrata per ore a una festa in casa sua mentre si trovava in stato di incoscienza, è stata una ragazza di 18 anni. Le testimonianze sono agghiaccianti. Le autorità indagano anche su altre feste in casa del 43enne e su altre possibili violenze.
Genovese è anche il fondatore di Facile.it e manager di altre realtà imprenditoriali. Ed è proprio su questo, e sul suo “genio” che si è concentrata gran parte della copertura mediatica. Oltre che su aspetti pruriginosi dei festini a base di coca, gente famosa e modelle – modelle, incidentalmente “vittime”. La trasmissione "Quarto Grado" su Rete4 gli dedica un servizio intitolato "Le voglie di Alberto Genovese", che indugia sul lusso dei party e racconta le violenze, ma definisce più volte il comportamento del 43enne "da predatore".
L’uomo è stato definito negli articoli di cronaca “l'imprenditore mago delle startup” (Repubblica), “mister startup” o “re delle startup” (Il Giorno), “genio del business sul web” (Affari Italiani).
Il caso più eclatante è stato quello del Sole 24 Ore, che il 9 novembre pubblica un articolo sulla vicenda che inizia così:
Un vulcano di idee e progetti che, per il momento, è stato spento. Alberto Maria Genovese, 43 anni, imprenditore napoletano lombardo di adozione, dopo la laurea in Economia all’Università Bocconi di Milano, non si è fermato un attimo. Sarà ora costretto a fermarsi in prima persona - almeno per un po’ e in attesa degli sviluppi giudiziari, dopo il fermo per accusa di violenza sessuale il 7 Novembre 2020.
L’articolo ha sollevato moltissime critiche. Anche le giornaliste della sezione Alley Oop del sito si sono lamentate, e il pezzo è stato poi modificato, eliminando le frasi sul povero vulcano spento. Travolto dalle polemiche, il Sole 24 Ore ha poi pubblicato delle scuse via social, spiegando che “dopo le primissime segnalazioni, rispetto ad alcune frasi presenti nell’incipit dell’articolo – riservato agli abbonati – siamo intervenuti a cambiarlo perché né per l’autore né per la redazione è accettabile l’equivoco che Il Sole 24 Ore possa difendere persone accusate di fatti così terribili. Tutto questo lo abbiamo ribadito in risposta ai commenti di molti lettori. Ci scusiamo per non aver valutato nella catena di controllo degli articoli come certe frasi trasmettano una visione che Il Sole 24 Ore rifiuta”.
Le scuse sono importanti, sono apprezzabili e possono costituire un precedente. Ma la narrazione dei casi di stupro neanche troppo velatamente come vicende che ruotano intorno a uomini più o meno di successo rovinati e donne che avrebbero potuto fare qualcosa per evitare perlomeno di trovarsi in quella situazione – cosa che diversi commenti sui social rimproverano alle ragazze alle feste di Genovese – è diffusa. È intrinseca a quella che viene definita “cultura dello stupro”.
È anche la scelta delle foto a insinuare una sorta di corresponsabilità delle vittime. Ad esempio questa – poi modificata – selezionata dal Corriere per parlare ancora della storia.
Un esempio non troppo lontano di racconto mediatico che fa propria la rape culture è la vicenda degli stupri di Firenze nel 2017, quando due studentesse americane hanno denunciato di essere state violentate da due carabinieri che le avevano riaccompagnate a casa con la macchina di servizio. La chiave usata dai giornali per raccontare quel caso è stata quella di accogliere ipotesi giustificatorie nei confronti dei carabinieri, e gettare discredito verso le due studentesse. Ad esempio si è insistito molto sul fatto che le ragazze avessero bevuto e fumato, sottintendendo che questo comportamento potesse aver avuto un ruolo nel verificarsi della violenza.
Intorno alla vicenda sono anche iniziate a circolare notizie false. Molti giornali hanno scritto che le ragazze, così come buona parte delle studentesse americane, avrebbero avuto una specifica assicurazione contro lo stupro. Si è insinuato, così, che la denuncia potesse essere strumentale. Questa circostanza – smentita poi dall’avvocato delle ragazze – è stata riportata da diversi media, che poi hanno cancellato il riferimento. Un altro dato non veritiero riguarda i numeri delle denunce per stupro poi rivelatesi false. Alcuni giornali e siti di news (ndr tra i primi a pubblicare il dato La Stampa, Il Messaggero, il Corriere della Sera) hanno scritto che ogni anno solo a Firenze vengono presentate da ragazze americane dalle 150 alle 200 denunce per stupro delle quali il 90% risulta completamente inventato. La stima, però, si è rivelata priva di qualsiasi fondamento.
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Gli strumenti ci sono, il giornalismo ha un problema
C’è un ultimo episodio che si è verificato sempre in quei giorni e che credo debba trovare posto in questa carrellata, perché è emblematico di un certo atteggiamento: quello di chi fa due passi avanti e uno indietro. Il 12 novembre – dopo due giorni di narrazioni di femminicidi perpetrati da uomini amorevoli al massimo un po’ gelosi – il profilo Instagram di Repubblica ha pubblicato questa grafica:
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È stato un passo importante, perché pone la questione su un piano preciso: il femminicidio è un problema che ha radici nel maschile, nella cultura patriarcale di cui tutti gli uomini, sì, beneficiano. Non è un’accusa di genere, è una generalizzazione che si basa sui numeri e sulle statistiche. Sono gli uomini ad ammazzare le donne in quanto donne. Ed è il patriarcato ad armarli.
La grafica è durata poco. Il post ha ricevuto diversi commenti di protesta di uomini che hanno tacciato la testata di sessismo, lamentandosi dell’associazione tra l’essere uomini e uccidere le donne. È quello che sta dietro l’espressione “Not all men”: un’impellente necessità di puntualizzare l’ovvio, ossia che non sono “tutti gli uomini” a commettere violenza. Dimenticando che non ammazzare, non stuprare, non picchiare, non controllare, è il minimo sindacale, non un merito particolare.
Dopo le proteste, Repubblica ha pubblicato un altro testo specificando “alcuni uomini”, aggiungendo come precisazione: "La storica discriminazione nei confronti delle donne ci impone una maggiore attenzione nei confronti di fenomeni come il femminicidio, in cui la vittima è colpevolizzata in quanto donna. Questo non significa che tutti gli uomini siano assassini, ovviamente. Ma non possiamo nemmeno trascurare la matrice patriarcale di questa specifica categoria di omicidi. Lo specifichiamo per i lettori che ce lo hanno chiesto".
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La specificazione diventa un’altra occasione persa, assieme ai workshop, ai decaloghi di redazione e via dicendo. Quello che però non si può non notare è la celerità con cui è stata effettuata la modifica, corredata di spiegazioni. Non succede spesso e, anzi, non succede quasi mai quando i quotidiani perpetuano quelle narrazioni sballate sui femminicidi – che pure scatenano polemiche e proteste sui social.
Gli strumenti per un racconto corretto della violenza esistono, anche se spesso sono ignorati. Esiste ad esempio il Manifesto di Venezia per la parità di genere nell’informazione, o avvalersi del documento della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ), adottato anche dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti, relativo a come parlare di violenza sulle donne sui media. Dal 1 gennaio 2021 poi nel “Testo unico dei doveri del giornalista” verrà inserito il “rispetto delle differenze di genere”, attraverso l’entrata in vigore di un articolo che riguarderà il comportamento da tenere nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca che coinvolgono aspetti legati all'orientamento e all'identità sessuale.
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Non si possono continuare a raccontare giornalisticamente stupri, femminicidi e abusi come se il modo in cui viene rappresentata la realtà non avesse importanza o ricadute sulla percezione che la società ha di un fenomeno. Ne ha moltissima, specialmente nel caso di una questione, come quella della violenza sulle donne, che ha radici culturali profonde, che si nutre di stereotipi e che per questo esige la necessità di un cambio di narrazione.
Immagine in anteprima via UnWomen