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Le Olimpiadi perse da un certo modo di fare giornalismo sportivo in Italia

6 Agosto 2024 6 min lettura

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Le Olimpiadi perse da un certo modo di fare giornalismo sportivo in Italia

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L’Italia dello sport sta facendo indubbiamente una bella impressione ai Giochi Olimpici, ed è un peccato non sia sempre raccontata con la dovuta serietà e competenza da parte degli addetti ai lavori. Essere giornalisti sportivi, nel nostro paese, non è un mestiere semplice, ma la situazione non può non sembrare paradossale nel momento in cui troppo spesso si leggono sui quotidiani articoli di penne illustri che abbondano di superficialità e retorica. Purtroppo, le ultime settimane ci hanno regalato non pochi casi di questo tipo, ultimo dei quali un articolo di commento di Aldo Cazzullo sulla medaglia d’oro della ginnasta Alice D’Amato. Nella chiusura del pezzo, il giornalista del Corriere della Sera scrive che questo successo, unito al cammino della squadra femminile di volley, testimonia non solo la crescita della scuola italiana nella ginnastica, ma è anche “la conferma della forza morale delle donne italiane”.

Una bella frase, a sentirsi, ma totalmente svuotata di significato: quale sarebbe questa “forza morale” che caratterizza le “donne italiane” (si badi bene: non le atlete, ma le donne in generale) rispetto a quelle di altri paesi, che di certo non sono da meno in termini di medaglie nelle più svariate discipline? Si potrebbe pensare, per esempio, all’eccezionalità della brasiliana Rayssa Leal, che a soli 16 anni ha già partecipato a due edizioni dei Giochi, vincendo un argento a Tokyo e un bronzo a Parigi nello skateboard. Brasiliana come Rebeca Andrade, oro a Tokyo nel volteggio e, quest’anno, nel corpo libero, davanti a Simone Biles.

L’uso delle parole di Cazzullo desta delle perplessità: se si fosse parlato di forza “mentale” si sarebbe potuto comprendere (sebbene, anche in questo caso, la questione andrebbe un po’ smitizzata, come proprio Biles ha fatto capire in passato). Ma da quando in qua il successo sportivo è indice di “moralità”, qualunque cosa si intenda con questo termine? Nell’articolo in questione non ci sono considerazioni tecniche di alcun tipo, non c’è nulla che uno spettatore non avrebbe potuto carpire dalla visione della gara. Cosa aggiunge un giornalismo sportivo di questo tipo? Ci si sofferma, invece, su dettagli da retorica nazionalista vecchio stampo, come D’Amato - cinque volte su sei chiamata solamente “Alice”, senza cognome - che canta “emozionatissima” e “in sussurri” l’inno di Mameli, “con la mano sul cuore”. Cioè, allo stesso modo della maggior parte delle atlete e degli atleti, italiani e non solo.

Moralità e cattiveria

La vacuità di questo commento è addirittura amplificata da un altro pezzo di Cazzullo uscito solamente il giorno precedente, e dedicato all’oro vinto da Novak Djokovic nel tennis. Anche in questa occasione, l’articolo si conclude con un riferimento ambiguo alla “forza morale” del serbo, che dovrebbe essere “una lezione per tutti noi”. L’ossessione per la moralità degli atleti, trasmessa e dimostrata in modi imperscrutabili dai successi sportivi, diventa un motivo ricorrente e una narrazione di comodo, una facile scappatoia da discorsi più prettamente incentrati sul lato sportivo. Parlando di Djokovic emerge però anche un altro tratto distintivo del commento olimpico di Cazzullo: l’esaltazione della “cattiveria” come elemento distintivo del campione, anche se poi lo stesso autore non sa descrivere in cosa consista questo concetto, e riesce solamente a elencare cosa non è.

La stessa retorica era stata usata in un precedente articolo sugli schermidori italiani di Parigi, ritenuti molto bravi ma, come difetto, “troppo bravi ragazzi”. Li contrapponeva ai colleghi del passato, citando due esempi alquanto spiazzanti. Di Paolo Milanoli, Cazzullo non citava i successi, ma il fatto che combattesse “duelli al primo sangue in una palestra buia”, compiacendosi del fatto che, essendo la scherma un’uccisione metaforica dell’avversario, “meno metafora è, più si vince”. A proposito di Stefano Cerioni, il giornalista del Corriere della Sera ricorda invece con altrettanta malcelata simpatia come “da ct finì nei guai per un video in cui sottoponeva una matricola a un fastidioso rito iniziatico”. Questo culto della crudeltà del guerriero non si capisce in che modo possa sposarsi con l’esaltazione della “moralità” fatta pochi giorni dopo. Sta di fatto che Daniele Garozzo, che nel fioretto ha vinto un oro a Rio e un argento a Tokyo, ha replicato all’articolo segnalandone la retorica come “fuori luogo e anacronistica”, ma soprattutto “diseducativa”.

Garozzo non è stata la prima persona del mondo dello sport a dimostrare, nelle ultime settimane, una sensibilità completamente opposta a chi invece commenta sui media, come ha dimostrato il caso tra Pilato e Di Francisca (anche se, ovviamente, in questo caso pure la seconda è stata un’atleta). La retorica della cattiveria agonistica sembra oggi molto più radicata tra chi parla e scrive di sport che tra chi invece lo pratica, con conseguenze che dal piano atletico si spostano su quello comunicativo. Julio Velasco, leggendario allenatore di volley italo-argentino, già alle Olimpiadi di tre anni fa aveva centrato il punto, commentando le critiche ingenerose che già all’epoca Di Francisca fece alla scherma italiana: “Sembra che adesso cercare di essere buono è un difetto. Adesso risulta che uno che cerca il bene è un idiota, un buonista, che non è sincero, che è falso”.

L’assenza di cultura sportiva si nota con sempre maggiore evidenza nel giornalismo di settore, che non tra gli atleti, generando spesso un circolo vizioso: gli atleti competono, ma non fanno opinione con le proprie parole; il giornalismo, invece, insegna ai tifosi questa cultura distorta. Lo ritroviamo nelle domande aggressive e spesso provocatorie che Elisabetta Caporale ha spesso fatto agli atleti durante i collegamenti Rai da Parigi di questi giorni, oppure in precedenza da un articolo di Massimo Gramellini in cui accusava gratuitamente Sinner di essere un talento “più costruito che naturale” (altra retorica priva di senso, da cui chiunque scrive di sport dovrebbe tenersi alla larga).

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Un giornalismo senza medaglie

L’Italia tornerà certamente soddisfatta da Parigi, sul lato sportivo, ma su quello giornalistico è stata sconfitta (quasi) su tutta la linea. Quest’anno si è visto un forte scollamento tra chi lo sport lo pratica e chi lo racconta, specialmente sui grandi quotidiani (ma ormai, nel giornalismo sportivo, la tendenza generale è questa: qualità e competenza si stanno spostando sempre più sull’online e sulle testate indipendenti, e sono spesso sottopagate, se non del tutto volontarie). Ne è un esempio abbastanza evidente il discusso titolo di La Repubblica sulla squadra della scherma femminile, “Le 4 regine: l’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la veterana”: in seguito alle polemiche che ne sono seguite, il titolo è stato riscritto, cambiando “l’amica di Diletta Leotta” con “la musicista”.

Questa superficialità si ripercuote a più livelli della narrazione, come si è visto anche nel caso della pugile algerina Imane Khelif, che quasi ogni testata italiana ha definito come “trans” senza un minimo di approfondimento e verifica. Il nostro giornalismo sportivo si è fatto trovare del tutto impreparato nel discutere di una questione che è tanto sportiva quanto politica.

Dovremmo domandarci a cosa serve un giornalismo sportivo così incapace di raccontare lo sport di oggi, sia a livello culturale che nelle sue problematiche sociali. E com’è possibile che le sue firme più prestigiose - quelle che hanno il privilegio di poter fare opinione e di parlare a un vasto pubblico - sembrino oggi così fuori dal mondo che sono pagate per raccontare. Il prima citato Aldo Cazzullo ha seguito come inviato sei edizioni dei Giochi Olimpici e altrettante dei Mondiali di calcio: non è certo l’ultimo arrivato del settore. Eppure è difficile capire, oggi, a chi vogliano parlare i suoi articoli.

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