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Ghali e Dargen D’Amico: l’impresa eccezionale di essere normali a Sanremo

13 Febbraio 2024 6 min lettura

Ghali e Dargen D’Amico: l’impresa eccezionale di essere normali a Sanremo

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“Perché Sanremo è Sanremo”, recita un fortunato slogan che, nella sua semplicità, dice molto sull’evento nazional-popolare per eccellenza, del suo essere inizio e fine, alfa e omega del nostro sentire comune. Ma, appoggiandosi al fortunato slogan, viene da dire anche “Perché la Rai è la Rai” e “Perché l’Italia è l’Italia”. Cambia il mondo attorno a questa bolla accidiosa che è il nostro paese, ma resta l’inerzia con cui si cerca di far restare tutto com’è, e guai a chi sgarra: si scatena una forza uguale e contraria per far rientrare tutto nei ranghi. 

Così, se Ghali dice “stop al genocidio” sul palco, seguono proteste, tra gli altri, dell’ambasciatore di Israele e di Maurizio Gasparri. A Domenica in Mara Venier ha letto il comunicato di Roberto Sergio, amministratore delegato della Rai: “Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo, la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica è sentita e convinta”. 

Prima ancora, i versi anti-militaristi della canzone hanno innescato polemiche da parte del presidente della comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi: “A differenza di Ghali non possiamo dimenticare che questa terribile guerra è il prodotto di quanto successo il 7 ottobre”. Ghali si giustifica facendo notare che il testo è stato scritto prima degli attacchi di Hamas, ma poi, a conti fatti, non si tira indietro: “Se la mia esibizione porta a ragionare sull'irragionabile, se la mia canzone porta luce su quello che si finge di non vedere, allora ben venga”. 

Dal palco dell’Ariston, anche Dargen D’Amico si è espresso sul conflitto in corso nella Striscia di Gaza, chiedendo esplicitamente cessate il fuoco. Dargen D’Amico è stato inoltre protagonista di un’altra crisi diplomatica in Rai, stavolta in diretta e sul tema dei migranti. A Domenica in ha fatto sbroccare Mara Venier nel rispondere a una domanda sulla sua canzone sanremese, Onda alta. Una canzone sull’immigrazione, ha spiegato l’artista, provando a percorrere la strada della razionalità per dire che “la bilancia economica dell’immigrazione è in positivo, quello che gli immigrati mettono nelle nostre tasche per pagare le nostre pensioni è più di quanto spendiamo per l’accoglienza”. Sono scattati gli applausi, tra i quali è arrivato l’intervento di Mara Venier per tagliare corto: “Qui però è una festa”. Durante lo stacco dell’orchestra, si è sentita Venier dire ai giornalisti :“Non mi mettete in imbarazzo”. Insomma: sono solo canzonette, niente attualità. Oppure: va bene portare testi politici, ma che si resti nel recinto destinato agli "artisti impegnati".

Non è la prima edizione in cui si consumano questo tipo di polemiche in cui l’attualità irrompe nei testi e tra una canzone e l’altra, e di certo non sarà l’ultima. L’anno scorso si arrivò persino a umiliare un paese invaso, l’Ucraina, con l’assurdo tira e molla per un intervento del suo presidente, Volodymyr Zelensky. C’è chi, non potendo invocare apertamente la censura, si trincerò dietro la mancanza di un “contraddittorio”. Alla fine Amadeus lesse una lettera del presidente ucraino. Del resto l’Italia, prima di essere un paese che ha consegnato alla storia il fascismo, è un paese di ignavi, e l’ignavia è bipartisan. A tal proposito, è vergognoso che il direttore artistico di Sanremo abbia firmato il murale di chi, nella Mariupol occupata, ha fatto il pittore di corte. A proposito di genocidi e relativa convenzione, giova ricordare che la Corte Internazionale di Giustizia ha in corso il caso Ucraina vs Russia. Ma del Sanremo 2023 va ricordato Tango di Tananai, con il video della sua canzone dedicata a una coppia Ucraina, all'amore che resiste nonostante tutto.

Possiamo quindi trarre una prima considerazione, una volta per tutte: la retorica del “lasciamo la politica fuori dalla musica/Sanremo” è una sciocchezza da farisei dei giorni nostri, è semplicemente un modo per dire “non parliamo di quella politica”. La politica fuori dalla musica è John Travolta che si esibisce nel Ballo del qua qua, e in ogni caso anche su quello si è polemizzato. La politica fuori dalla musica è chiedere ai cantanti in gara “preferisci Il ballo del qua qua o Bella ciao?” neutralizzando il valore del canto della resistenza per riportarlo su un piano idealmente platonico di canzonette per trastullare.

Una seconda considerazione riguarda Ghali, che sta subendo un trattamento più duro rispetto a Dargen D’Amico, e su questo, non prendiamoci in giro, contano le origini e la razzializzazione compiuta nei confronti del primo. Anche se Ghali non ha nominato direttamente Israele o Gaza, il sistema di inferenze in cui il messaggio è stato prodotto ha fatto sì che le autorità di un paese abbiano visto come discorso d’odio l’invito a non uccidere bambini o a colpire ospedali.

Sembra un distinguo veniale, una sottigliezza, ma se una canzone resta nel tempo, il suo messaggio travalica le contingenze che l’hanno prodotta. Tra dieci anni, forse, Casa mia sarà usata per esprimere dolore, smarrimento e appartenenza di fronte a un altro conflitto, ad altri ospedali bombardati, ad altri bambini uccisi. Ci sono purtroppo genocidi in corso nel mondo, pulizie etniche e massacri: Ucraina, Siria, Darfur, gli uiguri nella regione dello Xinjiang, gli yazidi, i curdi per citarne alcuni. I motivi per cui certi versi e certi appelli diventino universali non mancano. Bisognerebbe ampliare l’eco di simili slogan, espanderne la consapevolezza, difendere i capisaldi del diritto cui si ancorano e quel patrimonio comune di definizioni che il diritto concede.

Che le autorità di un paese si siano proclamate offese, dice molto di queste ultime, e ben poco del messaggio di partenza. So che tra chi legge qualcuno scatterà, perché comprensibilmente associa questi discorsi alla rimozione di un trauma collettivo: i pogrom compiuti da Hamas il 7 ottobre, la logica distruttiva alla sua radice, la minaccia che ha innescato per gli ebrei nel mondo. Trauma che qualunque agenda politica incentrata sulla “pace” o sul “cessate il fuoco” non può ignorare, poiché significherebbe mistificare il ruolo degli attori coinvolti nel conflitto, e quindi la persuasione che la diplomazia e la comunità internazionale possono mettere in campo senza alimentare ulteriore distruzione. 

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Va tuttavia esplicitato un altro principio: un massacro non crea nella parte che lo subisce un credito di vittime da riscuotere attraverso un altro massacro. Questa lezione avremmo dovuta impararla dall’11 settembre, e purtroppo così non è stato. Mentre, tornando ai giorni nostri, resta da capire come bombardare a tappeto distruggendo ogni cosa possa salvare degli ostaggi, o se ci sia qualcuno in grado di vincere tra le due forze all’opera, intanto che sale la conta dei civili morti. Solo nella logica della rappresaglia, della punizione collettiva e dell’occhio per occhio si può trovare ammissibile tutto ciò, e scorgere odio nelle parole di Ghali, o in quelle di Dargen D’Amico. Esistono manifestazioni contro la guerra a Gaza promosse da cittadini israeliani, esiste un dibattito critico molto forte nei confronti di Nethanyahu: perché facciamo finta che non esista tutto ciò e applichiamo un massimalismo manicheo?

Nel momento in cui partecipiamo, anche solo da spettatori a queste polemiche, bisogna ricordare poi che si sta esercitando un privilegio, da cui discende una responsabilità. E la responsabilità è un potere che possiamo decidere se usare o meno, se vivere in modo attivo o annegarlo nell’accidia. Perché accapigliarsi attorno a questa o quella dichiarazione, significa prima di tutto trovarsi nella condizione di non dover scappare mentre attorno a noi tutto esplode e crolla. O di compiere traversate immani per una vita possibile solo lasciandosi dietro tutto, andando avanti perché fermarsi significa morire. Domenica notte sono iniziati i bombardamenti a Rafah. Lontani dai palchi sanremesi, nel Mediterraneo si sono consumati ancora naufragi o soccorsi.

Va riconosciuto a Ghali e a Dargen D’Amico di essersi preso un rischio, in un paese dove l’ignavia pavimenta carriere e dove, a forza di importare sottocosto parole vuote dalla destra americana ci siamo dimenticati come funziona la censura nel nostro paese, o l’autocensura, o il grigiore dei burocrati e di chi si allinea ai desiderata altrui. Anche quando simili condotte si ritorcano contro chi cerca di metterle in atto (grazie, effetto Streisand), bisogna prendersi un momento per denunciarle in quanto tali.

Se c’è qualcosa di cui essere grati a Ghali o a Dargen D’Amico, a prescindere da come la si pensi, è di aver mostrato lo spazio per delle polemiche e per un dibattito salutare; osceno sarebbe stato un Sanremo senza frizioni di questo tipo, un "paese di musichette mentre fuori c'è la morte". Ci sono momenti in cui è doveroso dare scandalo, che non vuol dire sparare la prima scemenza che viene in mente, ma smuovere l’equilibrio di chi è immobile, o uncinato al comodo ramo di un albero che fruttifica tutto l’anno.

Immagine in anteprima: frame video via Corriere.it

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