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La democrazia tedesca alla prova dell’estrema destra di AfD

31 Gennaio 2024 12 min lettura

La democrazia tedesca alla prova dell’estrema destra di AfD

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12 min lettura

Oltre un milione di persone in piazza, manifestazioni organizzate nell’arco di poche ore in decine di città grandi e piccole, praticamente in ogni angolo del paese, comprese le regioni dell’est ex comunista, oggi roccaforti dell’ultradestra xenofoba. Una mobilitazione così vasta, spontanea, trasversale a partiti e territori, intergenerazionale, non si vedeva da un pezzo. Sul piano della forza delle immagini si è infranto il predominio mediatico delle livorose marce “antisistema” cui abbiamo assistito negli scorsi anni, i cortei del movimento anti-immigrazione Pegida, quelli dei cosiddetti Querdenker contro la “dittatura sanitaria”. Chi ha familiarità con i metodi e il lessico della comunicazione politica dell’AfD non può trovarci nulla di nuovo né di stupefacente nei fatti rivelati dall’agenzia di ricerca e investigazione giornalistica Correctiv, che hanno scatenato la reazione, questa sì inattesa e stupefacente, di una fetta sostanziosa della società civile tedesca. 

Il concetto di Remigration, centrale nell’ideologia sia dei gruppi neonazisti tradizionali sia delle “nuove” destre identitarie, è in circolazione in Germania da quando il personale politico dell’AfD ha cominciato a farne ampio e regolare uso, talvolta edulcorandone subdolamente il significato (si vorrebbe solo favorire il rientro volontario di singoli migranti nei loro paesi d’origine), talaltra palesando le reali finalità perseguite, che vanno ben oltre la gestione e il regolamento della questione migratoria: il ripristino dell’omogeneità etnica della popolazione tedesca.

Espulsioni di massa e ricollocamento degli “stranieri” indesiderati in un non meglio precisato “stato modello” in Africa, qualcosa che richiama sinistramente alla memoria il piano nazista del 1940, poi abbandonato, di spostare gli ebrei in Madagascar: di questo si sarebbe parlato in un convegno riservato tenutosi lo scorso 25 novembre 2023 in un hotel alle porte di Potsdam, a poca distanza – altro dettaglio poco rassicurante – dalla tristemente nota villa Marlier sul lago Wannsee, dove nel gennaio 1942 i nazisti approntarono le procedure per lo sterminio di circa 11 milioni di ebrei europei. 

Quella tedesca di oggi è da decenni una società multiculturale e multietnica consolidata. Quasi il 30% degli abitanti della Germania ha, come si dice da queste parti, un “background migratorio”. Di questi 23,8 milioni, più della metà ha la cittadinanza tedesca. Nella lussuosa dependance dell’Hotel Adlon, dirigenti dell’AfD, neonazisti, imprenditori e giuristi sarebbero convenuti per mettere a punto, sul piano operativo, ciò che da tempo i “pensatori” neonazisti hanno sviluppato nei loro scritti e libri ovvero un masterplan [sic] per l’espulsione di milioni fra richiedenti asilo, stranieri legalmente residenti e cosiddetti Passdeutsche (distinti dai Biodeutsche, tedeschi “biologici”) ovvero immigrati di seconda e terza generazione con cittadinanza tedesca “non assimilati”. Oltre a fissare le categorie da allontanare, si sarebbe discettato dell’opportunità di dare vita a un comitato di esperti per l’aggiramento degli ostacoli giuridici nonché della necessità di predisporre, a supporto del “progetto”, un programma di costruzione del consenso attraverso mirate campagne propagandistiche e pressioni sull’opinione pubblica. L’incontro di novembre non sarebbe stato l’unico, ma solo l’ultimo di una serie di almeno sette incontri cominciata in estate.

Il momento è delicato, una tempesta perfetta

È stata sicuramente l’impressionante concretezza di congetture che i più ritengono impensabili e irrealistiche a toccare un nervo scoperto della società tedesca. Come il coniglio ipnotizzato dal serpente, una maggioranza silenziosa (ma non distratta), stordita, intorpidita e intimidita dalle martellanti provocazioni e istigazioni dei rappresentanti dell’AfD e altrettanto scoraggiata dal senso di impotenza trasmesso dai partiti democratici, ha assistito passivamente all’inarrestabile crescita di consensi dell’ultradestra, al suo consolidamento a livello nazionale (attualmente avrebbe superato il 20% e sarebbe il secondo partito tedesco), a come sia riuscita a piantare radici anche nell’ovest del paese, in Assia, in Baden-Württemberg e nella ricca Baviera, sfruttando le ansie e le resistenze di vaste aree della popolazione verso i cambiamenti epocali in corso. 

Ora il momento è particolarmente delicato, il clima pesante come raramente lo è stato nel passato recente. Lo shock del Remigrationsplan è piombato come una granata nel mezzo delle furiose agitazioni degli agricoltori, che insieme allo sciopero dei ferrovieri hanno paralizzato il paese per una settimana. L’AfD ha soffiato sul fuoco delle tensioni e della collera scatenata dall’impopolare decisione del governo “semaforo” di colmare un disavanzo nel bilancio per il 2024 tagliando i sussidi sul carburante per i veicoli agricoli. Tradendo la propria dottrina economica neoliberista, quasi anarco-capitalista, contraria alle sovvenzioni di Stato, l’ultradestra ha cercato di trasformare la legittima protesta degli agricoltori in una sollevazione generale, alimentando selvagge fantasie di “rovesciamento” del governo.

A inquietare di più però sono le prossime scadenze elettorali e i relativi sondaggi. In primavera si voterà per le europee e a settembre per rinnovare i parlamenti dei tre maggiori Länder orientali, Sassonia, Turingia e Brandeburgo. In tutte e tre le regioni, l’AfD sarebbe il primo partito con oltre il 30% dei consensi e margini di vantaggio significativi sulle altre formazioni concorrenti. 

Le federazioni regionali dell’AfD nella Germania orientale sono fra le più radicali, feudi di ferro dell’ala nazionalista völkisch di Björn Höcke. Quelle della Sassonia e della Turingia (ma anche della Sassonia-Anhalt, dove si voterà nella primavera successiva) sono state dichiarate dalle autorità di sicurezza organizzazioni “certificatamente estremiste” che perseguono obiettivi ostili all’ordinamento democratico. 

Ciò finora non ha avuto alcun effetto deterrente sull’elettorato che le sostiene. Lo scenario che appare al momento decisamente probabile prefigura un trionfo per l’AfD, in cui non si potrà dare vita ad alcuna coalizione di governo senza l’AfD, al quale spetterebbe anche di diritto l’incarico di nominare il primo ministro nei tre Länder. Ciò significherebbe non soltanto un radicale spostamento a destra dell’asse politico nazionale, un collasso dei grandi partiti popolari tedeschi vedrebbe crollare anche l’ultimo argine al dilagare continentale delle formazioni della destra populista, sovranista e xenofoba, con conseguenze gravi anche sugli equilibri politici interni all’Unione europea e sul quadro internazionale.

Una prova di maturità della democrazia tedesca, la più difficile dal dopoguerra

La sensazione è che ci si stia inesorabilmente avvicinando a un punto di svolta massimamente critico, un salto nel buio: l’AfD non è mai stata così vicino al potere come oggi. A completare questa tempesta perfetta si aggiunge l’incognita rappresentata dalla frammentazione del panorama politico, un processo già in atto da tempo, che giunge ora a maturazione con il debutto nell’arena politica di due partiti nuovi, figli di una doppia scissione. A sinistra si è staccata dalla Linke l’Alleanza Sahra Wagenknecht, a destra del CDU ha deciso di andare per conto proprio la Werte-Union, corrente formatasi nel 2017 col proposito di riportare a destra il partito che fu di Adenauer, sbilanciato troppo a sinistra dalla Merkel. 

Sotto la guida del controverso ex capo del servizio segreto interno Hans-Georg Maaßen, destituito dopo i fatti di Chemnitz dell’estate 2018, la Werte-Union potrebbe fare da stampella parlamentare per possibili maggioranze di destra che includano l’AfD. La duplice incognita di questi due nuovi soggetti politici minaccia un ulteriore sgretolamento del consenso di cui godono i partiti tradizionali e potrebbe accelerarne la crisi. L’ampliamento dello spettro politico non sarebbe un’anomalia (lo era semmai l’assenza di partiti radicali nei parlamenti) e, nella situazione presente, potrebbe avere il vantaggio di smontare la netta contrapposizione sistema-antisistema cementata dalla politica di isolamento dell’AfD, che non è riuscita a contenerne l’avanzata, al contrario ne ha favorito il consolidamento nel ruolo di unica opposizione fondamentale. 

Si tratta di una prova di tenuta e di maturità per la democrazia tedesca, la più difficile dal dopoguerra. Le manifestazioni imponenti dei giorni scorsi sono state un atto di risveglio dal torpore, una dimostrazione della consapevolezza diffusa in ampi settori dell’opinione pubblica che l’infiltrazione dell’estremismo di destra nel cuore della società si giova della passività dei più. “WIR SIND MEHR” (“Siamo noi la maggioranza”) è stato lo slogan più efficace per attaccare l’AfD laddove è vulnerabile: la narrazione incentrata sull’antagonismo popolo contro élite, la sua legittimazione tratta dalla pretesa (comune a tutti i populisti) di rappresentare la “vera” volontà popolare, tradita e ignorata dai governi che agiscono contro gli interessi delle popolazioni. 

Ora ci si interroga sugli effetti concreti e sulle prospettive di questo colpo di reni della società civile. Le reazioni stizzite dei leader dell’AfD, quelle velenose dei suoi agitatori e dei suoi più fanatici sostenitori, denotano un inaspettato nervosismo. Si lamenta un isterismo ingiustificato, sminuendo il significato del convegno di Potsdam, si accusa il governo di avere orchestrato un’infame campagna per squalificare il suo principale avversario e metterlo fuori gioco ricorrendo ai metodi della Stasi (la denigrazione del sistema democratico come DDR 2.0 è diventato uno dei principali cavalli di battaglia retorici dell’AfD), si diffama chi ha manifestato, definendoli claqueure pagati dal governo, si insinua che le immagini diffuse dai media delle piazze stracolme non siano reali ma fabbricate col ricorso all’intelligenza artificiale. Ci si atteggia a chi non è impressionato da ciò che è accaduto, e invece il messaggio è arrivato. 

Tuttavia, se anche si è riusciti a scalfire la convinzione dei populisti di detenere l’egemonia discorsiva in questa fase di crisi economica e politica, non è il momento di abbandonarsi a facili entusiasmi. Una parte significativa dei sostenitori dell’AfD non è raggiungibile, nell’immediato non si verificherà alcuna fuga di elettori dal partito, semmai c’è da attendersi un ulteriore irrigidimento dei fronti e un’ulteriore esasperazione della polarizzazione interna alla società.

Non siamo nel 1933 e l’AfD non è il Partito Nazista (NSDAP)

Non devono ingannare i cartelli o gli slogan intonati dai manifestanti favorevoli all’opzione di una messa al bando dell’AfD, avanzata da esponenti del governo. In verità, c’è nell’aria la consapevolezza di doversi misurare con un fenomeno complesso, un fenomeno del nostro tempo. 

Facili rimandi al nazismo, quand’anche inevitabili, non aiutano a riconoscere il problema e impediscono di agire efficacemente. Non siamo nel 1929 e nemmeno nel 1933, la Repubblica federale non è Weimar e l’AfD non è il Partito Nazista (NSDAP). L’AfD è già entrato da tempo in tutti i parlamenti regionali e al Bundestag, dove si possono osservare quotidianamente il suo modus operandi e i relativi effetti: i dibattiti risentono della comunicazione (che tocca le corde emotive e polarizza) dei deputati dell'AfD, che ostacolano sistematicamente il lavoro politico su progetti e iniziative di promozione dell’integrazione, del contrasto al razzismo e per il rafforzamento della partecipazione democratica. I fondi statali non vengono spesi dal partito per il lavoro politico sul territorio, perché non interessa questo tipo di radicamento. Si preferisce investirli nell’attività di propaganda, agitazione e disinformazione su social media, troll-server, social bots, network finalizzati a condizionare il clima politico nella società come l’agenzia di disinformazione digitale Reconquista Germanica, di cui è uno dei fondatori il capo degli identitari austriaci Martin Sellner, fra i relatori del convegno di Potsdam. 

L’AfD mostra di non avere fretta di andare al governo nazionale, perché punta su di una strategia di lungo periodo. Il partito evita espliciti riferimenti al regime hitleriano, peraltro vietati in Germania, il suo programma ufficiale non è più radicale di quello della Lega o di Fratelli d’Italia. Una componente neoliberista, antisocialista e nazional-conservatrice, minoritaria ma che esprime la co-presidente del partito Alice Weidel, funge da scudo e paravento alla componente völkisch (nazionalismo etnico e razzista), capeggiata e ispirata dalla figura carismatica del neofascista Björn Höcke. Gli analisti concordano nel ritenere che quest’ultimo, dopo avere preso il controllo del partito, ne abbia fatto il braccio parlamentare di una più articolata galassia radicale, seguendo una strategia “gramsciana” di conquista del potere attraverso un lento processo di costruzione dell’egemonia culturale.

Il campo di battaglia individuato da Höcke per preparare la società a un cambiamento radicale di paradigma ideologico, per rendere dicibile quindi pensabile e infine praticabile ciò che oggi è tabù è quello della comunicazione, delle parole (Kampf um die Sprache). In Germania, le parole dei politici hanno un altro peso e un altro impatto rispetto ai toni della comunicazione politica cui sono abituate le opinioni pubbliche di altri paesi europei. Come certifica uno studio pubblicato dall’Istituto tedesco per i diritti umani lo scorso giugno 2023, intitolato Perché si può sciogliere l'AfD, raccomandazioni allo Stato e alla politica (uno dei più lucidi documenti prodotti al riguardo): 

«L’AfD persegue attivamente e sistematicamente i suoi obiettivi razzisti ed estremistici, opera per spostare i confini di ciò che si può dire e quindi il discorso pubblico in modo tale che le sue posizioni nazionaliste e razziste diventino normali e accettabili anche nella sfera pubblica e politica. … [Pertanto,] per la difesa delle fondamenta indispensabili dei diritti umani e quindi dell’ordinamento democratico è di elementare importanza che la consapevolezza del pericolo rappresentato dall'AfD cresca sia nella società che nelle istituzioni e che tutti gli attori politici e lo Stato agiscano di conseguenza». 

L’opzione di mettere fuori legge l’AfD, per la sua agenda ostile all’ordinamento democratico e alla garanzia di rispetto della dignità umana sancita dalla Carta costituzionale, appare, tuttavia, in questo preciso momento, una scorciatoia assai rischiosa, che può rivelarsi controproducente o addirittura fatale per l’autorevolezza delle istituzioni. A prescindere dall’esito incerto e dalla lunga durata dell’iter previsto, sarebbe un’ammissione di fallimento, in primis della politica, che non è riuscita a misurarsi efficacemente con le ragioni del voto all’AfD. Sciogliere il partito vorrebbe dire cancellarlo dalla competizione politica, ma non si cancellerebbero certo, come con un tratto di penna, gli elettori e i motivi che li hanno spinti a sostenere per quel partito.

Per salvare la democrazia ci vuole la politica

Bisognerebbe riconoscere una buona volta, abbandonando ogni pietismo paternalistico, che, nel caso dell’AfD, siamo oltre il voto di protesta per i populisti contro i partiti tradizionali. Si vota consapevolmente e convintamente per una progettualità politica radicale ed estrema, autoritaria e illiberale, se non addirittura peggio, per la promessa di soluzioni di «ben dosata crudeltà» (espressione di Höcke a proposito di epurazione etnica della società per salvare la Germania dal “globalismo”), e lo si fa in parte perché non si crede più che i partiti che si alternano al governo siano capaci e interessati a garantire ancora il benessere e la sicurezza insidiati dalle grandi trasformazioni in atto, in parte perché vacilla la fiducia nel sistema politico nel suo complesso, nei principi e meccanismi stessi della democrazia. 

Ha attecchito e si diffonde l’idea – succede anche a sinistra, come dimostra l’offerta politica socialpopulista e securitaria della cosiddetta “rossobruna” Wagenknecht – che lo Stato di diritto e la società aperta siano un vaso di coccio, destinato a soccombere in mezzo ai vasi di ferro dei sistemi autoritari più spregiudicati e competitivi. 

È sotto gli occhi di tutti che risiedono nella crisi che attraversa il modello della democrazia plurale e liberale le radici dei problemi che stiamo vivendo, non solo in Germania. Detto questo, l’AfD non ha molto da offrire di alternativo di scardinare il vituperato “cartello dei vecchi partiti”, se non l’illusione di potere ripristinare un qualche rassicurante ordine del passato e mettere al riparo i tedeschi dalle intemperie del mondo isolandoli, chiudendo i confini, sciogliendo l’Unione Europea e la NATO, liquidando drasticamente la questione migratoria, ignorando quella ambientale. Il partito dà continua dimostrazione di non avere soluzioni concrete da proporre in vari campi, a cominciare dalla politica sociale (Weidel si professa thatcheriana), si nutre impietosamente delle difficoltà e degli errori dei suoi avversari, pronti a cavalcare qualsiasi disagio o recriminazione, è il partito del risentimento, della “collera repressa”, della battaglia per la riconquista della sovranità del “popolo”, minacciato dall’interno (politici “traditori”) e dall’esterno (migranti, istituzioni sovra-statuali, le congiure del Grande Reset, della “sostituzione etnica” dei popoli europei).

Non è vero, come si legge e si sente affermare nei social e nei dibattiti televisivi, che le manifestazioni degli ultimi giorni erano a favore del governo e nemmeno che a organizzarle siano state piattaforme di sinistra che volevano approfittarne per delegittimare qualsiasi posizione conservatrice e di destra. Un fatto nuovo è proprio il consenso democratico, la difesa della società democratica quale minimo comune denominatore a tutte le realtà e i soggetti sociali e politici che l’hanno a cuore, a prescindere dalla loro diversità, dalle associazioni sociali alle strutture locali dei partiti democratici sui territori, dal CDU alla Linke, fino alle Chiese. 

Ci si domanda che cosa fare ora, molti si chiedono come proseguire il loro impegno, se sia questo l’inizio di un vero e proprio movimento, se si riuscirà ancora a tenere insieme un fronte così largo nonostante le differenze politiche. C’è euforia, ma anche paura che giunga la doccia fredda della delusione, della presa d’atto che è stato inutile. Non lo è stato, almeno stando a vedere i risultati delle elezioni amministrative in un distretto della Turingia. Non si è manifestato contro le “fantasie völkisch” di una qualche testa calda, ma contro ciò che l’AfD sta facendo deliberatamente alla società tedesca, fomentando un clima di odio, rancore sociale e divisioni funzionale ai propri scopi, seminando incertezza in chi, proveniente da ogni dove, ha imparato ad apprezzare la Germania come uno dei paesi più tolleranti e accoglienti al mondo, compromettendo la pacifica convivenza sociale, l’efficacia delle dinamiche inclusive, destabilizzando scientemente un modello forte di società aperta e inclusiva. 

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Si è voluto mettere un punto, marcare una linea di cesura in un percorso che pareva a senso unico, la potenziale molla per un cambio di passo e di registro nel rapporto con l’ultradestra. E, con questo atto di self-empowerment, si è inviato alla politica, ai partiti, al governo un messaggio forte, mettendoli di fronte al loro fallimento (altro che sostegno al governo in difficoltà), si è indicata una strada, una volontà. 

Ricordarsi che il populismo ha preso piede in Germania quando Angela Merkel sosteneva che a determinate politiche non c’erano alternative, da lì bisogna muovere. C’è un immenso lavoro da fare. Nella società civile si è disposti a porsi a presidio della democrazia, ma contro l’AfD ci vuole la politica.

Immagine in anteprima: frame video Guardian via YouTube

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