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La resistenza della Georgia: da cento giorni in piazza per nuove elezioni, democrazia e libertà

7 Marzo 2025 8 min lettura

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La resistenza della Georgia: da cento giorni in piazza per nuove elezioni, democrazia e libertà

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7 min lettura

Sono passati cento giorni da quando l’ennesima ondata di proteste ha investito la Georgia. A scatenarle, le dichiarazioni del primo ministro Irakli Kobakhidze dello scorso 28 novembre sul fatto che l’integrazione europea non sarebbe entrata nell’agenda dell’attuale legislatura (che terminerà alla fine del 2028). In questi oltre tre mesi a Tbilisi, e non solo, si è manifestato quotidianamente, festività incluse. Gruppi più o meno grandi di persone (si parla comunque di migliaia di partecipanti) sono scesi, infatti, in piazza a Capodanno, Natale (7 gennaio), nonché nell’anniversario dell’inizio dell’invasione russa su larga scala dell’Ucraina (24 febbraio), nel giorno cui si commemora l’inizio dell’occupazione sovietica della Georgia (25 febbraio) e per la festa della mamma (3 marzo). Si è manifestato nella prima parte più tiepida dell’inverno così come durante le inusuali intense nevicate che hanno colpito il paese nelle ultime settimane. 

On Mother’s Day in Georgia, President Salome Zurabishvili is joining tonight’s protest march of mothers whose children have been unlawfully imprisoned—and are spending this day behind bars—marking the 96th day of nonstop protests across the country. #GeorgiaProtests

[image or embed]

— Katie Shoshiashvili (@kshoshiashvili.bsky.social) 3 marzo 2025 alle ore 18:07

Le richieste dei manifestanti sono sempre le stesse: una nuova tornata elettorale in virtù dei brogli che hanno caratterizzato le elezioni parlamentari di ottobre (evidenziati, tra gli altri, nel rapporto finale della missione di osservazione elettorale internazionale dell’OSCE/ODIHR) e la liberazione dei prigionieri politici. In particolare, la detenzione della giornalista Mzia Amaghlobeli, fondatrice delle testate Batumelebi e Netgazeti è diventata il simbolo della repressione delle proteste. Amaghlobeli è in custodia cautelare dall’11 gennaio per aver dato uno schiaffo al capo della polizia di Batumi durante un’accesa discussione nel corso di una manifestazione nella città sulla costa del Mar Nero. Il processo penale nei suoi confronti è appena iniziato. Un gruppo internazionale di giornalisti, redazioni, difensori della libertà di stampa e dei diritti umani ha firmato un appello congiunto per la sua liberazione.

Di cosa parliamo in questo articolo:

Il fronte interno

In questi cento giorni poco è cambiato a livello di politica interna. Le forze di opposizione non riconoscono il risultato delle elezioni di ottobre e si sono rifiutate, fin dal principio, di prendere parte ai lavori del parlamento, che quindi è presenziato solo dagli esponenti del partito di governo, Sogno Georgiano. Quest’ultimo ha il saldo controllo delle istituzioni dello Stato, inclusi tutti i gradi della magistratura. Per tale motivo non si può fare affidamento sulle sentenze che avevano validato il risultato delle elezioni di ottobre, respingendo le accuse di brogli. La ricchezza del fondatore di Sogno Georgiano, Bidzina Ivanishvili, un miliardario con una fortuna che corrisponde a circa un quarto del PIL del paese è fonte di un potere economico impareggiabile nel paese e spiega la forza del partito.

Le autorità continuano a fare ricorso alla tattica messa in pratica durante l’ondata di proteste della primavera del 2024. Si lascia fare nei giorni in cui ci sono poche persone in piazza, mentre si usa la mano pesante quando i numeri salgono. Esempi in tal senso ci sono stati a dicembre e a gennaio. Il 2 febbraio i manifestanti hanno provato, imitando il modello delle proteste di Belgrado, a occupare l’asse viario principale per accedere a Tbilisi da ovest. La manovra non è riuscita: non c’erano gli stessi numeri che in Serbia e la polizia ha fatto ricorso alla violenza, con cariche e arresti, per riaprire le strade.

Anche se nelle ultime settimane non ci sono più stati scontri rilevanti tra manifestanti e forze dell’ordine, la repressione continua. Diversi partecipanti alle proteste si sono visti recapitare multe ingenti (5mila lari georgiani, quasi 1700 euro) per aver “intralciato il traffico” e il parlamento monocolore ha adottato leggi via via più stringenti. Tra queste, il divieto di coprirsi il volto e di  possedere e utilizzare fuochi d’artificio e l’integrazione di bande esterne nelle forze di polizia per le “pattuglie di strada”. Il primo punto era una priorità perché i fuochi d’artificio venivano inizialmente usati dai manifestanti per combattere le forze dell’ordine. 

Il secondo è la formalizzazione dell’uso di quelli che vengono chiamati in gergo titušky, gruppi di disturbatori che nella prima fase delle proteste si erano resi protagonisti di violenze contro manifestanti e giornalisti. Una norma che facilita il licenziamento dei dipendenti pubblici ha reso poi possibile liberarsi di chi si è espresso troppo liberamente spaventando molte persone nell’apparato statale.

In questi giorni in parlamento, inoltre, sono in discussione altre norme liberticide. Un parlamentare del partito Potere al Popolo, una costola di Sogno Georgiano che a dicembre si è separata (una manovra cosmetica) per creare “un’opposizione sana”,  ha proposto di limitare l’accesso ai social media nel paese. Questo perché le manifestazioni sono in larga parte autogestite, principalmente su gruppi su Facebook. 

Sta passando l’iter legislativo anche una nuova versione della legge sugli agenti stranieri che includerà norme penali per la sua violazione (la legge attuale prevede solo pene amministrative). Ricordiamo che la normativa sugli agenti stranieri impone alle entità giuridiche (organizzazioni della società civile e media) che ricevono almeno il 20% dei loro finanziamenti dall’estero di iscriversi a un registro di “organizzazioni che perseguono gli interessi di una potenza straniera”. Le numerosissime organizzazioni non governative che rientrano in questa fattispecie giuridica sono obbligate a fornire dettagli sui propri finanziamenti allo Stato che ha anche accesso ad altre informazioni sensibili quali per esempio i contatti degli informatori delle testate giornalistiche. Sogno Georgiano aveva provato ad adottare una norma sul tema nel marzo 2023 salvo ritirarla in virtù delle forti manifestazioni. Lo stesso schema si era ripetuto nella primavera del 2024, con il Partito che aveva portato a casa la legge nonostante oltre tre mesi di proteste. 

Secondo il primo ministro Kobakhidze questa nuova versione è la copia del Foreign Agents Registration Act americana. L’intento del premier è chiaro: superare la retorica che descrive la normativa come una legge russa, mostrando invece che è copiata dagli Stati occidentali. In questo articolo spiegavamo perché la presenza di una norma in un paese in cui non c’è una separazione tra i poteri dello Stato è differente da quella degli Stati Uniti (perlomeno prima dell’era di Donald Trump).

Manifesti del 2024 affissi da Sogno Georgiano per smentire la narrazione sulla “legge russa”. Il titolo è: “Perché questa legge non è russa, ma europea?” [Foto dell’autore]

Il fronte internazionale

Proprio il punto sulla legge contro gli agenti stranieri ci porta al contesto internazionale in questa congiuntura, negativo per chi si oppone a Sogno Georgiano.

Ai primi di gennaio tutti in Georgia aspettavano con trepidazione l’insediamento di Trump per capire quale sarebbe stato il suo atteggiamento nei confronti della situazione nel paese caucasico. Il responso è stato che il nuovo presidente pare completamente disinteressato alla Georgia. Tuttavia, il taglio ai finanziamenti a USAID, oltre ad aver fatto perdere il lavoro da un giorno all’altro a moltissime persone, è un innegabile regalo per Sogno Georgiano visto che rischia di silenziare tante voci dissenzienti che non erano influenzabili dal Partito e dai soldi di Ivanishvili. 

Un esempio in tal senso è quello della testata Open Caucasus Media. Si tratta di una fonte di informazioni preziosa in inglese su tutta la regione del Caucaso. Una parte dei loro finanziamenti arrivano dal National Endowment for Democracy, un’agenzia statunitense finanziata dal Congresso, e da USAID. Il taglio di questi fondi mette in difficoltà il progetto. Adesso il piano è quello di affidarsi esclusivamente alle donazioni. Certamente potrebbe anche essere una svolta positiva, ma si tratta di uno schema che non tutti i media possono permettersi; inoltre non è facile trovare abbastanza persone disposte a finanziare un giornale che si occupa di un argomento di nicchia come il Caucaso. Per le testate in lingua georgiana che non hanno lettori all’estero sarà più difficile sopravvivere in un paese in cui lo stipendio medio è sotto ai 700 euro, e finanziarsi con gli introiti delle inserzioni pubblicitarie è impossibile, tanto quanto ricevere sussidi pubblici perché ciò vuol dire cedere la propria indipendenza.

Nonostante il disinteresse della nuova amministrazione, è innegabile l’allineamento ideologico fra Trump e Sogno Georgiano. Ormai da anni il partito al governo della Georgia parla di un fantomatico “partito globale della guerra” che vuole portare la Georgia nel conflitto tra Russia e Occidente. Non a caso, in reazione alla conferenza stampa del 28 febbraio fra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il premier Kobakhidze si è complimentato con il capo di Stato americano per il suo lavoro “per la pace”, contro il “partito globale della guerra”.

Nella UE non c’è consenso pieno sulla Georgia. Il 12 febbraio il parlamento europeo ha adottato una risoluzione non vincolante per chiedere nuove elezioni in virtù dei brogli a ottobre. Tuttavia, in sede di Consiglio Europeo le cose sono più complesse. A fronte dei paesi baltici che, come da tradizione, hanno preso una posizione forte contro Sogno Georgiano, ci sono Slovacchia e Ungheria che hanno riconosciuto le elezioni e sostengono il partito di governo. Infine, c’è la posizione di mezzo di grandi paesi come Francia, Italia e Germania. Questi ultimi non hanno riconosciuto le elezioni, ma mantengono le loro ambasciate in Georgia con i diplomatici che sono in una posizione complessa, divisi tra la necessità di collaborare con le autorità del paese ospitante e il mancato riconoscimento del governo. 

Emblematico, in tal senso, il caso dell’Italia. Il 3 febbraio l’Ambasciata del nostro paese ha pubblicato su Facebook un post su un incontro tra l’Ambasciatore e la ministra degli Esteri, Maka Botchorishvili, suscitando un’ondata di messaggi accorati contro quello che veniva percepito come un endorsement al governo di Sogno Georgiano. Le cose si sono parzialmente calmate il 7 febbraio quando l’ambasciatore ha parlato con i parenti dei prigionieri arrestati durante le proteste. Tuttavia questo piccolo esempio ha messo di nuovo in evidenzia la situazione di tensione che si vive in Georgia.

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Il complicarsi dei rapporti tra il paese caucasico e i suoi tradizionali partner occidentali è reso evidente anche dal fatto che la delegazione georgiana ha sospeso la sua partecipazione ai lavori dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (che non è un’ istituzione dell’Unione Europea) il 29 gennaio. Anche in questo caso si tratta di uno sviluppo soprattutto simbolico, ma emblematico della crisi in corso. 

Da ormai due anni Valigia Blu pubblica articoli indicando i rischi di una deriva autoritaria in Georgia. Questi rischi si stanno purtroppo avverando e il paese si è allontanato da qualsiasi prospettiva di integrazione europea, vista favorevolmente da gran parte della popolazione. È difficile prevedere se le cose cambieranno, ma è anche complesso come il paese potrà uscire da questa crisi costituzionale, fatta di manifestazioni quotidiane, scontro frontale tra le forze politiche e violenza. All’inizio dei cento giorni di proteste avevamo parlato di un “vicolo cieco” per descrivere quanto sta avvenendo e questa similitudine pare ancora attuale a distanza di più di tre mesi.

Immagine in anteprima: frame video Niniko Robakidze via Bluesky

2 Commenti
  1. Giorgio

    Purtroppo temo che finché le proteste si limiteranno a scendere in piazza e sventolare bandiere, non saranno ottenuti risultati sostanziali. Capisco che i georgiani possano sentirsi scoraggiati dal fatto che i (timidi) blocchi autostradali non hanno funzionato, ma devono riprovarci, riorganizzarsi meglio, non possono mollare tutto al primo fallimento. Uno dei problemi è che le proteste di oggi (non solo in Georgia, ovunque) sono decisamente meno efficaci di quella di una volta, non perché "tutto era meglio prima", ma perché organizzate in quattro e quattr'otto sui social. Questo garantisce i numeri molto alti che vediamo nelle foto e nei video, ma anche minore coesione e forza, perché non c'è un grosso lavoro di preparazione preliminare come c'era anni fa. "Tutti in piazza mercoledì alle 13:00!" OK, però poi? Non ci si conosce bene , non c'è un piano d'azione e una strategia per affrontare i tentativi di sabotaggio, non c'è un servizio d'ordine e quindi bastano quattro titushky a mandare tutto all'aria perché molti sono lì solo a far numero. Che per carità, è assolutamente importante ma non è sufficiente, del resto come dici tu stesso, il governo ha perfettamente imparato come gestire le varie tipologie di protesta.

    • Aleksej Tilman

      Ciao Giorgio, sono assolutamente d'accordo con te. Posto che parlare da fuori è semplice, per me la cosa più grave è che da questi ormai due anni di proteste in Georgia non sia venuto fuori niente di nuovo più strettamente politico. Nonostante l'appuntamento elettorale di ottobre, nessuno ha provato a capitalizzare veramente sul malcontento (i partiti di opposizione lo hanno fatto poco convintamente e sono stati poco convintamente votati). Nessuna forza politica ha usato le energie, l'entusiasmo e l'inventiva di queste persone che scendono in piazza tutti i giorni per fare una campagna elettorale più capillare. E non è uscita fuori nessuna figura carismatica nuova. E questo a fronte del fatto che nel giorno di voto c'è stata una mobilitazione davvero impressionante per osservare e registrare le violazioni. Come hai detto te, questo problema mi pare accomunare diversi paesi. Forse hai ragione è troppo "semplice" organizzarsi per protestare sui social, più difficile è costruire qualcosa fuori dalla piazza.

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