Geolier, il rapper napoletano che ha rischiato di vincere il Festival di Sanremo
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È noto: Geolier non ha vinto il Festival di Sanremo, classificandosi “solo” al secondo posto dopo Angelina Mango. Resta però sul piatto una questione, anzi più d'una, e vanno affrontate tutte. Una premessa è però doverosa: i miei gusti musicali non sono necessariamente vicini alla scena trap; per quanto viva a Napoli da quindici anni, molti altri li ho passati in un paese equidistante dalla città della Campania in cui è nato e cresciuto Geolier e Lagonegro, paesino in provincia di Potenza, Basilicata, in cui è invece cresciuta Angelina Mango.
Dopo questa introduzione – in napoletano la si chiamerebbe “paraustiello”, dicono derivi dallo spagnolo “para usted” – cominciamo parlando del “caso televoto”. Come ribadito anche durante la conferenza stampa di chiusura alla 74esima edizione del Festival, Geolier, ha trionfato nelle votazioni tramite telefono o sms. Per lui non solo il 60% delle preferenze, ma il più alto numero di voti da quando esiste questo sistema. Ciò significa che era lui il vincitore agli occhi di una “giuria popolare” estremamente eterogenea. Ma chi è ad aver televotato Geolier?
Se, invece di interrogarci dei suoi sostenitori, ci chiedessimo dei supporters della terza classificata, Annalisa, probabilmente ci diremmo che si tratta di un gruppo diversificato di persone che ammirano il suo lavoro. Non ci sarebbe un profilo unico cui fare riferimento, dato che la musica può attrarre persone di tutte le età, con diversi background. Ad Annalisa, che ha ottenuto popolarità partecipando al talent Amici, riconosceremmo facilmente le grandi doti canore, l'impegno, lo stile e la capacità di infornare un successo dietro l'altro fino a raggiungere un pubblico sempre più vasto di adolescenti, giovani adulti e persone più mature che apprezzano il pop italiano. Inoltre, sapremmo che grazie ai social e alle piattaforme di streaming, è probabile che abbia fan in varie parti del mondo. Questo tipo di ragionamento deduttivo salta, però, se torniamo a Geolier. Sono altre le ipotesi che sono state fatte sui sostenitori dell'artista 23enne. E non sono belle.
Per elencarle tutte, però, dobbiamo cominciare con i rimproveri fatti proprio a lui. Cominciamo dal genere musicale che, per alcuni, combinato al dialetto e alle origini di Geolier – periferia nord di Napoli – indicherebbe non una produzione musicale, con i suoi stilemi e le sue peculiarità, bensì una rappresentazione e diffusione di modelli negativi per i giovani e per la città. Eppure, Geolier, non è appena spuntato nel panorama musicale italiano. Per quanto in molti l'abbiano scoperto solo di recente, ha esordito nel 2018 e il suo ultimo album Il coraggio dei bambini è stato il più venduto in Italia del 2023, cinque volte disco di platino. Ha più di 6 milioni di ascoltatori mensili su Spotify e il 2024 appena iniziato, lo vede, ad oggi, primo artista, internazionali inclusi, che si esibirà allo stadio Maradona di Napoli per tre date consecutive, sold-out.
Tuttavia, non è Napoli la città in cui è più ascoltato: viene prima Milano, poi Roma e infine il capoluogo campano. L'artista ha fatto del dialetto una cifra di stile, un linguaggio/slang che è riverbero sociale, ma diversamente da ciò che potrebbero immaginare alcuni, questo non sembra inficiare la comprensione dei testi o compromettere la gradevolezza del ritmo. Geolier è, insomma, una sorta di golden boy della discografia italiana. Eppure, il suo successo, evidentissimo, non è stato sufficiente a spiegare come mai, già nel corso delle prime serate del Festival e poi nella serata delle cover, avesse cominciato a scalare la classifica del televoto fino a raggiungere il primo posto per preferenze del pubblico. Piuttosto di mettere in relazione e concatenazione i dati sul successo di Geolier e farsi un po' di domande sui propri preconcetti, c'è stato infatti chi ha preferito immaginare un nuovo, ennesimo complotto.
Il televoto non ti basta
C'è stato chi ha fischiato e chi ha lasciato il teatro Ariston e chi, sugli account ufficiali del Festival, ha commentato di soldi della camorra e del reddito di cittadinanza utilizzati per sostenere il rapper. C'è chi ha cercato di analizzare e spiegarsi questi atteggiamenti considerando un eventuale sentimento d'esclusione vissuto da una parte di pubblico e chi ha argomentato di fanatismo identitario. In conferenza stampa, a differenza degli altri 29 artisti in gara, con piazzamenti in classifica diversi gli uni dagli altri, al solo Geolier una giornalista ha chiesto: "Non ti senti di aver rubato un po'? Non ti senti a disagio davanti agli altri?" Infine, l'accusa, nemmeno troppo velata: l'esistenza di un fantomatico tutorial su come votare con cinque schede diverse.
Perché è ovvio, no? Secondo un ragionamento che nessuno ammette d'aver fatto ma che pure è palese, un ragazzo della periferia napoletana che si esprime in dialetto e fa la trap, non può essere un artista di caratura nazionale, con una buona fan base a sostenerlo e portarlo alla vittoria e una major discografica che ha puntato su di lui; un ragazzo della periferia napoletana che si esprime in dialetto e fa la trap deve necessariamente essere vicino ad ambienti poco chiari ma restare lì, ringraziare tantissimo delle possibilità che gli vengono magnanimamente offerte per uscire momentaneamente dal “ghetto”, chinare il capo davanti agli altri, e manipolare la situazione a suo vantaggio muovendosi sottotraccia, arrangiandosi, facendo il cosiddetto “pezzotto” al televoto.
Geolier, che ha detto chiaramente dell'effetto che gli ha fatto la contestazione – «vincere con i fischi è stata la cosa più brutta della mia vita» – vanta invece una community di ascoltatori storici, un nutrito gruppo di nuovi, e una caterva di solidarizzanti, napoletani e non, conquistati proprio in seguito ai fischi e al razzismo strisciante, così sottile che pare innocuo. Tuttavia, per citare Big Mama – altra cantante in gara in questa edizione del Festival, anche lei campana, ma della provincia di Avellino – il televoto non ti basta. E non basta nemmeno la rabbia di chi si chiede perché la sua preferenza – espressa tramite telefonata o messaggio a pagamento – abbia valore relativo e minore rispetto al parere e alle votazioni della radio e della sala stampa, soprattutto se anche da questo contesto venivano congetture sull'ascesa di Geolier e un chiaro sentire a riguardo dei suoi sostenitori, condensato in una frase davvero brutta: "Non fate più votare la Campania".
I p' me, tu p' te e Napoli per tutti. Forse
È difficile negare che, ogni tanto, come l'olezzo del cavolfiore durante la bollitura, arrivi un leggero ma persistente effluvio anti-meridionale e anti-napoletano. Pierluigi Vitale, social media analyst, e Serena Pelosi, linguista, lo hanno rintracciato scandagliando per Fanpage.it quasi 40mila commenti Instagram relativi a Sanremo e al rapper napoletano. Tuttavia, i pregiudizi, i preconcetti, gli stereotipi e le incrostazioni di settarismo e parzialità che talvolta fluiscono in “hate speech” sui canali social, hanno oggi un effetto completamente diverso dal passato. Paradossalmente, invece di ledere l'immagine pubblica del cittadino napoletano, ne rafforzano l'identità, la consapevolezza, il legame con la città e con i suoi abitanti. È il caso del coro-offesa da stadio “Vesuvio erutta”. Il soggetto napoletano che subiva l'invocazione alla forza distruttrice del vulcano, se ne è appropriato, diventando così prima gruppo e poi rappresentanza di Napoli intera, capace di ergersi a sua difesa.
Per anni, Napoli e i napoletani hanno risentito di una sorta di “incantesimo lacaniano”, di un confinamento nello stadio dello specchio in cui era possibile riconoscersi e acquisire identità e valore solo attraverso la presenza, la percezione e lo sguardo di un altro. Nel 1983, dell'idea che possono farsi gli altri dei napoletani, Renzo Arbore, foggiano di nascita e napoletano d'adozione, Luciano De Crescenzo e Claudio Mattone, napoletanissimi, scrissero una canzone: Sud. Nella finzione filmica, il brano, cantato da Pietra Montecorvino aka Lucia Canaria, gareggiava proprio a Sanremo. La strofa mette insieme stereotipi riconosciuti in immagini così vivide da risultare dolorose; il ritornello, che vede la partecipazione di un coro – e nel coro, sempre più numeroso, Massimo Troisi – dice: "Sud, Sud/Nuie simm' d'o Sud/Nuie simm' curte e nire/Nuie simm' buon pe canta'/E faticamm' a fatica'". Solo un paio di anni prima, in Viento 'e terra, Pino Daniele aveva cantato “Se capisci va bene o sinò te futte", piantando il seme di un dialetto che non fa vergogna ma identità. E il primo passo per essere davvero se stessi è non doversi spiegare agli altri e non aver bisogno della convalida degli altri.
Stiamo parlando, però, di più di quarant'anni fa: non è solo l'identità e la percezione dei napoletani ad essere cambiata, ma Napoli stessa. Del boom turistico cominciato nel 2018 e sublimato nello scudetto calcistico del 2023 si è detto molto; la mia personale idea è che se prima eravamo subordinati e sottoposti a occhiate critiche e giudicanti, oggi ci ritroviamo vincolati e condizionati da sguardi compiaciuti, capaci di riconoscere la nostra bellezza. Ancora una volta, è davanti alla percezione altrui che il cittadino napoletano passa da “I p' me, tu p' te”, per dirla alla Geolier a “Napoli per tutti”. Forse.
Chi trap e chi no
Se è vero che c'è qualcosa che unisce i napoletani e li trova concordi e uniti al punto di estendere il sentimento di appartenenza alla città anche a chi non vi ha mai messo piede, allo stesso tempo ci sono elementi capaci di separare e disgregare la comunità e il sentire comune come acqua e olio. Ultimamente, al Dipartimento di architettura dell’università Federico II è stato presentato un progetto di ricerca che si propone di mappare le nuove disuguaglianze spaziali nelle città dell'Europa meridionale, tra cui Napoli. I primi dati raccontano di barriere che sulla carta topografica non sono segnate, ma che esistono e sono sempre più alte. Tra i residenti di Napoli Est e quelli di Napoli Ovest c'è una forbice di reddito di più di 30mila euro. Chi vive abbarbicato alla vista del golfo ha più opportunità e servizi di chi abita in zone in cui la vista è la prima negazione e, a volte, la prima conquista, si pensi ai murales a “ingentilire” palazzoni. Non si tratta, ovviamente, di una scoperta: il tema della Napoli doppia è ricorrente da Un posto al sole a Gomorra, da L'amica geniale a Mare fuori. Quello che, invece, si nota di meno, pur essendo basilare, è una sottile base comune, una sorta di beat che dà il ritmo alla questione.
Negli anni Ottanta, Domenico Rea scriveva di come a Napoli fosse possibile che un abitante di Posillipo, napoletano a tutti gli effetti, non si riconoscesse in uno di Forcella, anch'esso napoletanissimo, e che entrambi si ritenessero assai diversi e più autentici di chi risiedeva al Vomero, a Santa Lucia o a viale Augusto. Si trattava e si tratta di una lontananza più percepita che reale, eppure ogni cittadino, ieri come oggi, è convinto di essere più napoletano e più abilitato a rappresentare Napoli di un altro napoletano, e questo in base al quartiere in cui vive, al modo in cui parla, agli studi che ha fatto o non fatto, al lavoro che svolge o meno, ai soldi di cui dispone, e anche alla musica che ascolta. C'è chi, ad esempio, ascolta la trap. E chi no.
Il genere musicale, le tematiche che affronta, il modo in cui lo fa, l'atteggiamento dei rapper, i simboli, i riferimenti, le espressioni crude e talvolta offensive possono non piacere. Va tenuto presente, però, che questi elementi non riguardano il solo Geolier, ma la quasi totalità degli esponenti della trap, in Italia e all'estero. C'è chi, a questo punto, lungi dal chiedersi se l'idea che ha di questa espressione musicale sia un fatto personale, e quanto sia capace di separare il testo di una canzone dalla realtà dei fatti, ha puntato il dito ai testi violenti e aggressivi su basi sincopate dal ritmo incalzante.
Torniamo a un paragone per assurdo: nel testo vincitore di Sanremo, Angelina Mango canta: “Muoio senza morire/In questi giorni usati/Vivo senza soffrire/Non c’è croce più grande”. Nessuno, ovviamente, ha pensato di utilizzare questa strofa per individuare nell'artista che la interpreta una problematica di qualche tipo. È una canzone, comporta delle riflessioni e, mettendole in musica, ci consente di inquadrare meglio alcune cose e situazioni.
Nel caso di Geolier, però, si è andati ben oltre il brano sanremese alla ricerca di qualcosa che contribuisse a identificarlo come cattivo esempio per i giovani, capace di gettare l'onta su Napoli. Ed ecco l'accusa che ritorna: ho sentito una canzone in cui parlava di boss, diceva di avere un fratello criminale; ho visto un video (musicale) in cui imbracciava un fucile. È possibile che questo artista, malgrado i milioni di ascoltatori mensili, non piaccia e non parli a tutti – e tra questi tutti m'inserisco anch'io – ma chi si preoccupa di lui come possibile esponente culturale di un atteggiamento criminale se non camorristico assomiglia pericolosamente a coloro i quali credono che chi ascolta il genere metal sia un adoratore del demonio. Converrebbe, piuttosto, cercare di decodificare il messaggio di Geolier. Cantavano Le scimmie nel 2016: Già sapevamo tutte queste storie/Quando rappiamo eliminiamo scorie.
Emanuele Palumbo, classe 2000
Geolier prima di Geolier, è stato un ragazzino del rione Gescal, tra Miano e Secondigliano, periferia nord di Napoli, che rappava – e bene – davanti alla webcam. Geolier prima di Geolier, è stato un bambino che oggi compare nella fotografia dalla cooperativa sociale Il quadrifoglio. È un'immagine consueta, eppure potente. C'è un gruppo di piccoli partecipanti alle attività dell'educativa territoriale, veri presidi di possibilità in quei quartieri che ci piace definire “difficili” perché ci aiuta a credere che la difficoltà la si possa individuare (e rinchiudere) da una parte. L'unico bimbo che è possibile guardare in volto, con in testa un cappellino nero e lo sguardo fuori dall'inquadratura, si chiama Emanuele Palumbo, è nato nel 2000. Non sa, e forse neppure sogna, quante cose gli chiederemo quando sarà un giovane uomo di 23 anni quasi 24.
Prima ancora che arrivasse a Sanremo, gli abbiamo fatto la radiografia delle intenzioni nel riportare, per iscritto, il dialetto napoletano secondo una grammatica e un'ortografia ufficiale che però non esiste. Quando è arrivato sul palco dell'Ariston, abbiamo atteso lo sbaglio e l'errore come la consacrazione e la vittoria, e non è arrivato nulla da nessuna delle due parti. Geolier ha fatto il suo mestiere, senza artifici. Non si è preoccupato cioè di allisciarsi il pubblico con un siparietto. Non ha fatto conquistare grandi punti al Fantasanremo (oltre alla classifica). Non ha utilizzato un paio di frasi in dialetto napoletano perché Napoli è un trend. Non ha ripulito la sua lingua e la sua espressività per ottenere l'approvazione altrui e rendere il suo personaggio più digeribile a un pubblico più ampio.
Sotto i riflettori, non ha incarnato lo stereotipo del giovane napoletano di successo, giocoso e brillantissimo, sempre pronto alla battuta. È rimasto fedele a sé stesso e molto sulle sue, sia nei momenti in cui avrebbe potuto esprimere con maggiore forza il suo disappunto, sia in quelli in cui avrebbe potuto aprirsi e lasciarsi andare allo scherzo. Forse, il nodo da sciogliere non è tanto se sia piaciuto o meno, ma perché la sua autenticità sia stata messa in discussione. Forse, in un contesto di spettacolo in cui mostrarsi estroversi, effervescenti e inoffensivi fa parte del gioco, non si è conformato a pieno. Ma Geolier è un trapper. E vuoi vedere che, alla fine, il suo unico “errore” è stato qualcosa che non si mai perdona mai a un napoletano? Vuoi vedere che, alla fine, il problema vero è che non è riuscito abbastanza “simpatico a tutti”?
Immagine in anteprima: frame video RaiNews