Dopo il genocidio: cosa hanno imparato gli scienziati dal Ruanda
|
Gli eventi catastrofici, proprio a causa della loro eccezionalità, sono anche poco studiati. Per esempio, la maggior parte di quello che sappiamo sugli effetti dell'esposizione a livelli altissimi di radiazioni ionizzanti lo sapevamo essenzialmente dalle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki e ora anche dall'incidente di Chernobyl. Eventi che nessuno si auspicherebbe mai di nuovo. Ma dal momento che si sono verificati, è essenziale ricavarne tutte le informazioni possibili perché ovviamente non potranno mai essere ripetuti in condizioni controllate.
Conoscere un fenomeno estremo, capirne le cause, i fattori scatenanti, quelli concomitanti, capirne gli effetti e le conseguenze, è importante per prevedere, se possibile prevenire, gestire, rimediare. Questo vale anche per eventi estremi di altro tipo, come i genocidi. A 30 anni esatti dal genocidio del Ruanda un'articolo pubblicato su Nature ci spinge a ricordare per imparare qualcosa dalla storia passata, invece di dimenticarla pensando che sia un orrore non ci riguardi.
Fino al 1994 il riferimento per eccellenza per il termine "genocidio" era l'olocausto portato avanti dalla Germania nazista. Anche se ci sono stati altri eventi definibili o definiti come genocidio, come quello degli armeni ad opera dei turchi nel 1915, mentre dai primi anni del '900 fino al collasso dell'Unione Sovietica armeni e azeri si sono scambiati in diverse occasioni il ruolo di carnefici e vittime (leggere Tempo di seconda mano, di Svetlana Aleksievic). C'è stato l'Holodomor in Ucraina, più recentemente abbiamo di nuovo visto in azione le follie del genocidio e della pulizia etnica nel corso delle guerre balcaniche dell'ex Jugoslavia. E oggi si discute se quello che sta succedendo in Ucraina e a Gaza sia genocidio.
Da ognuno di questi eventi, che hanno molti elementi in comune, potremmo imparare qualcosa. Ma evidentemente non lo facciamo, perché periodicamente si ripetono.
Il genocidio in Ruanda nel 1994, è stato un caso unico per come la violenza esplose e si consumò in un breve arco di tempo: in soli 100 giorni ci furono circa 800 mila morti, con stime che arrivano al milione, mentre 250 mila donne vennero stuprate (ma probabilmente furono molte di più) e spesso poi uccise.
Solo diversi anni dopo divenne un caso di studio. Anche perché per studiare qualcosa bisogna conoscere il contesto in cui si verifica. E chi conosceva bene il contesto non c'era più.
Citando dall'articolo su Nature:
“Una delle lezioni che emergono dal Ruanda è l’importanza di coinvolgere – e sostenere – i ricercatori locali, il cui lavoro, competenze linguistiche e accesso alle comunità traumatizzate possono essere essenziali per comprendere le radici della violenza e le migliori tecniche di riconciliazione. Ciò può essere difficile, nel caso del Ruanda perché il genocidio ha spazzato via quasi tutta la sua comunità accademica”
Oltre a conoscere il contesto sociale, politico, economico, etnico e religioso (il terreno in cui cresce un genocidio), è importante capire se un genocidio è stato una reazione incontrollabile a una situazione storica preesistente, o se è stato preparato. Per esempio in Ruanda i media per mesi fecero con accanimento opera di disumanizzazione dei Tutsi, esasperando la retorica del "noi" e "loro" basata su una appartenenza etnica creata artificialmente dai colonizzatori e lasciata in eredità assieme all'odio che alla fine sarebbe esploso.
La disumanizzazione è un meccanismo fondamentale del genocidio, è quello che consente di torturare, stuprare e uccidere senza un motivo e senza vincoli morali. Non è qualcosa che esplode all'improvviso, ma è pianificata e preparata. Secondo alcuni esperti, la violenza stessa che genera a sua volta favorisce la disumanizzazione, in pratica innescando una spirale che si autoalimenta.
Ma oltre a studiarne le origini, se possibile per riconoscerne i caratteri distintivi in altre situazioni e provare a prevenire, è importante capire gli effetti che la violenza di un genocidio ha su di noi, sul nostro organismo, sulla nostra mente. Cosa succede nella mente di chi subisce per mesi una strategia di disumanizzazione dell’altro, che alla fine si sente giustificato a uccidere anche se era il suo vicino di casa? E, soprattutto, cosa succede nella mente di chi sopravvive a quella violenza? Che tipo di disturbi, come affrontarli, come evolveranno? Chi saranno i sopravvissuti che dovranno ricostruire il proprio mondo distrutto dalle violenze? Chi saranno quelli che sono riusciti ad uccidere e stuprare ed ora dovranno tornare far parte di una società civile? Come crescerà chi è nato dopo un genocidio? Quanto si porterà dentro di una violenza che non ha visto direttamente? Qualcosa si sa da situazioni precedenti come l'Holodomor in Ucraina.
Negli anni scorsi c'è stato un fiorire di studi su questo argomento (questo è l'aspetto che interessa in modo particolare un biologo molecolare come me, a seguire ci sono alcuni link a pubblicazioni scientifiche in cui si riferisce di quello che racconto). Si sta scoprendo l'impatto che eventi traumatici eccezionali hanno avuto sui sopravvissuti a vario livello, non solo mentale. Analogamente ad alcune sostanze chimiche come farmaci o contaminanti ambientali, molecole prodotte dal nostro organismo a seguito di questi eventi avrebbero la capacità di indurre alterazioni biochimiche del DNA (metilazione delle citosina) che influenzano la struttura e la funzionalità di regioni specifiche del nostro genoma, deregolando il controllo epigenetico di quelle regioni, determinando alterazioni a lungo termine a livello metabolico, immunitario, ormonale, psichico che, in alcuni casi, ci si chiede se possano essere adattative/compensative, in altri sono solo il modo in cui il trauma esercita effetti a lungo termine sul nostro organismo.
Abbiamo già dati sulle alterazioni epigenetiche con effetti persistenti sia a livello metabolico che mentale in chi aveva sofferto, o era stato concepito e cresciuto in tempo di forti carestie, fenomeno tutt'oggi intensamente studiato col sospetto che sia associabile a effetti anche a distanza di molto tempo, anche sulla psiche.
E ormai ci sono diversi studi a sostegno dell'ipotesi che gli effetti del trauma da denutrizione possano essere trasmessi sotto forma di alterazioni epigenetiche anche alla discendenza per una o anche per due generazioni. Sono stati studiati sia casi di denutrizione sofferta in utero o in età prepuberale dalle future madri ma anche da maschi adulti (prigionieri di guerra, o reduci dell'assedio di Leningrado) che alla discendenza hanno fornito solo il DNA nei loro spermatozoi. Gli effetti osservati nella discendenza sono molto variabili e a volte apparentemente in contrasto tra di loro a seconda dello studio e del campione. Questo dipende dalla complessità del fenomeno studiato, da fattori come l'età in cui si è subito il trauma, il genere del soggetto sopravvissuto e quello della discendenza (alcuni effetti sembrano legati al sesso), dal contesto passato e quello successivo. A dimostrazione del fatto che i fattori coinvolti sono molti. È una scienza ancora relativamente nuova e c'è ancora molto da capire.
Analogamente alle carestie, c'è l'ipotesi che anche nel caso dei traumi da guerra, e ovviamente quelli da genocidio, si possano verificare alterazioni molecolari persistenti con effetti a vario livello, e che queste possano essere trasmesse alle generazioni successive.
Sul primo aspetto, ormai sono stati fatti diversi studi, anche recenti e molto complessi, su veterani reduci delle guerre del golfo con diagnosi di Stress Post traumatico (Post Traumatic Stress Disorder, PTSD) da cui risultano variazioni persistenti nella regolazione di molti geni, diversi dei quali coinvolti nella risposta immunitaria ed infiammatoria. L'infiammazione cronica è una caratteristica del PTSD, e le variazioni corrispondenti a livello della regolazione epigenetica di quei geni sono coerenti con la persistenza della condizione anche a distanza di tanti anni. Non è invece ancora molto chiaro se queste variazioni possano essere anche transgenerazionali, ovvero se vengano trasmesse alla discendenza.
E, prevedibilmente, iniziano a essere pubblicati studi analoghi anche per i sopravvissuti del genocidio del Ruanda da cui si evincono effetti a livello epigenetico sia nelle madri con una gravidanza in corso nel periodo in cui esplosero le violenze, sia nella prole di quelle madri. Non ci sono associazioni funzionali con alcune delle conseguenze note del genocidio (a 25 anni dalla fine più del 28% della popolazione adulta soffriva di PTSD, il 41% se ristretto alle donne). Ma è una storia ancora tutta da scrivere.
E se qualcuno si chiede se anche le conseguenze di quello che sta succedendo oggi a Gaza le studieremo tra qualche anno, la risposta è sì, se qualcuno lo farà.
Per questo è importante studiare i genocidi, perché sono delle situazioni che non si risolvono con la fine politica della crisi ma durano per decenni, forse per generazioni. Anche se in Ruanda, a differenza di quello che è successo e succede in altri scenari di genocidio, è stato fatto molto per cercare, da un lato, di fare giustizia, dall'altro di rimettere insieme i pezzi, di favorire la riconciliazione tra perpetrators e survivors, non si può pensare che tanto orrore non lasci tracce a lungo termine nella popolazione, che basti aspettare e dimenticare. Nel 1996 Human Rights Watch ha pubblicato un documento che raccoglie racconti di donne vittime di violenza sessuale durante il genocidio in Ruanda. Le stesse storie si possono leggere in un documento analogo con le testimonianze delle donne vittime di violenza sessuale in Bosnia. Stessi racconti, stesse dinamiche, stesso orrore. Ruanda e Bosnia, Africa ed Europa sono molto più vicine di quanto possiamo pensare.
Immagine in anteprima: Gil Serpereau, CC BY-NC-ND 2.0 DEED, via Flickr.com