Gaza, la tregua regge ma il messaggio di Netanyahu è chiaro: non ha più timore di lanciare una guerra
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Chissà perché li chiamiamo danni collaterali, una definizione non solo incongrua, ma che deumanizza ancora una volta chi vive a Gaza. I danni collaterali sono morti, feriti, la massima parte civili, anche in questa ultima operazione militare israeliana su Gaza che sabato sera si dovrebbe essere conclusa. Alle 10 di sera locali del 13 maggio, infatti, è entrato in vigore il cessate il fuoco raggiunto tra Israele, da un lato, e Jihad Islamico a Gaza, dall’altro. Accordo ancora una volta negoziato dall’Egitto guidato dal presidente Abdel Fattah al-Sisi, che Netanyahu ha subito formalmente ringraziato.
Cinque giorni di bombardamenti, e un bilancio pesantissimo: questo il risultato dell’operazione militare israeliana denominata “Scudo e Freccia”. I numeri parlano da soli: 33 morti e 147 feriti. Tra i morti, alcuni uomini indicati dalle forze armate israeliane come operativi del Jihad Islamico: il bersaglio dei raid dell’aviazione militare israeliana che, dice, voleva colpire comandanti del Jihad e le basi di lancio dei razzi diretti verso Israele. Tra i bambini colpiti nei raid su Gaza, 6 morti e 48 feriti. Vittime collaterali, si dice. Vittime civili, si deve dire, che vivono ammassati in una striscia di terra che contiene due milioni e duecentomila palestinesi.
Colpire comandanti del Jihad, ritenuti responsabili di aver lanciato razzi e di progettare attacchi terroristici, questa è la giustificazione dell’operazione “Scudo e Freccia”, iniziata a ben guardare dopo la morte di Khader Adnan. In conseguenza della morte di Khader Adnan. Il 2 maggio scorso, l’esponente del Jihad era morto in un carcere israeliano dopo 87 giorni di sciopero della fame. Una morte annunciata, per un uomo che aveva intrapreso già altri scioperi della fame durante le sue dodici detenzioni, la gran parte preventive, in attesa non solo di un processo ma di un’accusa. Quasi otto anni trascorsi in carcere che lo avevano fatto diventare un simbolo, tra i palestinesi, della pratica della detenzione preventiva. La rapporteur speciale sulla situazione dei diritti umani nel Territorio palestinese occupato dal 1967, Francesca Albanese, era subito intervenuta definendo la pratica della detenzione arbitraria di massa dei palestinesi “crudele” e “inumana”. Dopo la morte, ampiamente prevedibile, di Khader Adnan in un carcere israeliano, il Jihad islamico ha lanciato in risposta oltre cento razzi verso Israele, e l’aviazione israeliana ha reagito con sedici raid su Gaza.
Nella grammatica armata di questi ultimi quindici anni, si sarebbe inquadrato ciò che è successo all’inizio di maggio come una fiammata contenuta tra Israele e le fazioni armate della Striscia di Gaza. E invece, dopo una settimana, quella fiammata si è trasformata in una vera e propria operazione militare israeliana sull’enclave che dal 2007 è chiusa da un embargo totale. Una operazione militare che riprende la strategia usata agli inizi degli anni Duemila, quella degli omicidi mirati, che per la legalità internazionale si chiama esecuzione extragiudiziale.
Il primo risultato politico, per Benjamin Netanyahu, è già raggiunto. Per la prima volta da 19 settimane, la grande manifestazione di protesta del sabato a Tel Aviv è stata cancellata per questioni di sicurezza. Le sirene, infatti, sono risuonate nella parte centrale di Israele più volte in questi ultimi giorni. Gli oltre mille razzi lanciati dal Jihad dalla Striscia verso Israele, e in gran parte intercettati dal sistema Iron Dome, hanno colpito diverse località, provocando due vittime, un’anziana israeliana e un palestinese di Gaza in Israele per lavoro.
È cosa nota, e scritta a più riprese da diversi analisti, che le guerre anche in Israele compattano il consenso. Più volte, nella storia recente, sono state lanciate operazioni militari e guerre alla vigilia di elezioni. Anche il governo di Yair Lapid è stato protagonista, lo scorso agosto, di un bombardamento “preventivo” – così definito delle forze armate di Tel Aviv – su Gaza, dopo l’arresto in Cisgiordania di un militante del Jihad islamico, il movimento palestinese più vicino all’Iran. La guerra compatta il consenso, come aveva già sperimentato lo stesso Netanyahu nel 2012, quando – nel giro di pochi giorni – diede prima l’ordine di uccidere a Gaza Ahmed al Jabari, uno degli uomini più importanti delle Brigate al Qassam, il braccio militare di Hamas, con un omicidio mirato. E poi diede l’ordine di far partire l’Operazione Pilastro di difesa, giorni e giorni di bombardamenti sulla Striscia, di morti e di distruzione. Era il novembre 2012, le elezioni anticipate da lui pilotate si sarebbero svolte di lì a due mesi, nel gennaio 2013. Una vittoria annunciata per Netanyahu.
Stavolta la situazione è molto diversa. Israele vive spaccature profonde, e Netanyahu non ha più davanti a sé una carriera politica in ascesa. Il suo governo è instabile, e lo stesso sostegno americano non è quello di dieci anni fa, della seconda presidenza Obama. È certo, comunque, che questa operazione militare lancia anche messaggi all’interno della coalizione di destra che governa in Israele. Netanyahu indica, cioè, ai suoi alleati che non ha timore di lanciare una guerra su Gaza.
È però il messaggio implicito lanciato alla comunità internazionale che è inusuale. L’operazione Scudo e Freccia è stata lanciata alla vigilia della commemorazione della nakba, la “catastrofe”, come i palestinesi definiscono la cacciata di settecentomila persone dalle loro case e dalle loro città verso un esilio che ancora dura. 75 anni dalla fondazione dello Stato di Israele, e 75 anni dalla nakba. Per la prima volta in 75 anni, però, la giornata del 15 maggio viene commemorata nella sede delle Nazioni Unite, a New York, per un preciso mandato dell’Assemblea Generale. Si tratta di un preciso riconoscimento internazionale della nakba, che invece da Israele non è stata mai riconosciuta. E se non bastasse una ricorrenza di questa dimensione storica e politica, tutti i palestinesi e i giornalisti hanno commemorato in questi giorni il triste anniversario dell’uccisione di Shireen Abu Akleh, l’icona del giornalismo arabo, da parte dei militari israeliani a Jenin, una uccisione di cui ancora non esiste un colpevole, un processo, una imputazione, una indagine, una ragione.
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