La questione umanitaria a Gaza è una questione politica
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L’ospedale al Shifa, il più grande e importante dell’intera Striscia di Gaza, non esiste più. Non esistono più le ventisei camere operatorie, i 750 letti di degenza, la terapia intensiva e il centro dialisi. Bruciato da terra a cielo, come mostrano le foto e i video che riempiono i social network, e come mostrano i video che Al Jazeera trasmette dal primo aprile, da quando – cioè – le forze armate israeliane si sono ritirate dopo due settimane di accerchiamento e occupazione dell’ospedale che già a novembre, peraltro, avevano sottoposto a un primo assedio.
I medici del nosocomio hanno improvvisato una conferenza stampa di fronte alle macerie dell’ospedale, al suo scheletro annerito, per spiegare che cos’era l’ospedale al Shifa per gli abitanti di Gaza, per gli oltre due milioni di palestinesi che ricorrevano al più importante centro sanitario non solo nei tempi (frequenti) di guerra, ma nei tempi di sopravvivenza sotto embargo. Quando era già a rischio (e almeno da oltre quindici anni) l’ingresso di molti prodotti considerati “dual use” – cioè di uso sicuramente civile e potenzialmente militare - dal Cogat, l’ufficio di coordinamento del ministero della difesa israeliano che funge da connettore tra Tel Aviv, l’Autorità Nazionale Palestinese e le organizzazioni internazionali. Al Cogat è demandato il compito di controllare tutto ciò che entrava ed entra a Gaza e in Cisgiordania, perché il controllo è sempre stato – ancora di più oggi - nelle mani israeliane.
Con il passare delle ore e dei giorni, le testimonianze e le tracce di quello che è stato compiuto allo Shifa si accumulano. A parlare sono i civili palestinesi sopravvissuti: descrivono arresti, detenzioni arbitrarie, torture, ferimenti, mentre dalla terra di fronte all’ospedale ci sono tracce di esecuzioni sommarie, corpi sfigurati dai bulldozer, con i polsi legati, medici uccisi. Le forze armate israeliane parlano di arresti di combattenti appartenenti a Hamas, compresi figure di spicco del movimento islamista, senza però entrare nei particolari. I palestinesi sopravvissuti parlano di centinaia di persone uccise, di pazienti morti per mancanza di cure durante l’assedio, di un intero quartiere residenziale attorno al nosocomio sottoposto a totale chiusura, ai colpi dei cecchini, ai bombardamenti. Grida d’aiuto senza alcuna possibilità di risposta. Morte. Distruzione.
Quanta attenzione mediatica è stata data allo Shifa? Quanto spazio è stato dedicato a una storia che, sia durante l’assedio sia nei giorni successivi, già appare come una tragedia dalle proporzioni enormi? Da questa storia è stato appena sollevato il coperchio, che subito la guerra su Gaza ha aperto altri capitoli, tutti però collegati. Anzitutto, l’attacco israeliano contro il convoglio di World Central Kitchen (WCK), la ONG del cuoco spagnolo Josè Andres, la sera dell’1 aprile. Era stata una giornata iniziata già all’insegna di una impennata della tensione. Si era infatti aperta con l’attacco missilistico contro l’ambasciata iraniana a Damasco, e la conseguente totale distruzione del palazzo del consolato con un primo bilancio di 14 vittime, ivi compresa la figura più importante in Medio Oriente della forza Al Quds, il braccio internazionale delle Guardie della rivoluzione. Israele non aveva, come fa sempre, rivendicato l’attacco, ma gli Stati Uniti avevano comunque sottolineato di non essere stati messi al corrente da parte di Israele dell’ennesimo attacco in territorio siriano.
A Gaza, la stessa sera, tre missili lanciati da droni in tre diversi momenti avevano colpito in successione le tre macchine che componevano il convoglio del World Central Kitchen, uccidendo tutt’e sette le persone che, in coordinamento con le forze armate israeliane, stavano compiendo un tragitto già concordato. Il World Central Kitchen, peraltro, è una ONG che ha un rapporto consolidato con il governo di Tel Aviv, come dimostra l’editoriale a firma del suo fondatore apparso il 3 aprile sul principale quotidiano israeliano, Yedioth Ahronot. Il WCK non ha distribuito pasti caldi solo ai civili palestinesi, attraverso la missione umanitaria che da Cipro ha portato davanti alle coste di Gaza la Open Arms. Ha anche distribuito dal 7 ottobre poco meno di due milioni di pasti caldi agli israeliani sfollati sia dal sud del paese, al confine con Gaza, sia dal nord di Israele, sempre più coinvolto nella escalation con Hezbollah. Un particolare, raccontato dallo stesso Josè Andrès, che fa comprendere il rapporto speciale con Tel Aviv e rende ancor più incomprensibile l’attacco a un convoglio segnalato, conosciuto, considerato affidabile.
Sull’uccisione mirata dei sette operatori umanitari di WCK l’attenzione mediatica è stata immediata, nonostante la loro morte si debba sommare agli altri 196 operatori umanitari uccisi tra il 7 ottobre e il 20 marzo. La maggior parte, 176, erano dell’UNRWA, tutti palestinesi. Un totale, questo, di fonte Nazioni Unite, comunicato dal capo dell’ufficio di coordinamento dell’ONU per gli affari umanitari del Territorio Palestinese Occupato (OchaOpt), Jamie McGoldrick. Dei sette componenti il convoglio di WCK, uno era palestinese, e sei erano stranieri, internazionali, considerati parte del mondo occidentale: un polacco, una australiana, un canadese-statunitense, tre britannici. Le immediate prese di posizione dei loro paesi, le pressioni forti esercitate su Israele hanno avuto una immediata risposta, con le scuse del premier Benjamin Netanyahu e la promessa di aprire una indagine interna per capire la dinamica dell’attacco. Indagine interna, non internazionale, come sarebbe stato il caso di chiedere.
Solo, però, inserendo l’uccisione dei membri del convoglio di WCK all’interno di una dinamica che va avanti da mesi è possibile comprendere quanto la questione umanitaria è una questione eminentemente politica. Lo si sapeva già, a dire il vero, ma ci sono voluti mesi per mostrare che “il re è nudo”. Che l’umanitario è politico. Ed è il motivo per il quale il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha finalmente approvato il 25 marzo, con l’astensione statunitense, una risoluzione che impone a parole, ma non sul teatro di guerra, un cessate il fuoco e l’ingresso degli aiuti umanitari. È il motivo per il quale la Corte Internazionale dell’Aja, di nuovo interrogata sull’argomento dal Sudafrica, ha emesso il 28 marzo, vale a dire tre giorni dopo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, un dispositivo che impone a Israele di “prendere tutte le necessarie ed efficaci misure per assicurare, senza por tempo in mezzo, e in piena cooperazione con le Nazioni Unite, “la fornitura senza ostacoli e su larga scala, da parte di tutti gli interessati, dei servizi di base e dell'assistenza umanitaria necessari con urgenza, tra cui cibo, acqua, elettricità, carburante, ripari, abbigliamento, servizi igienici, nonché forniture mediche e assistenza sanitaria ai palestinesi di tutta Gaza, anche aumentando la capacità e il numero dei punti di attraversamento terrestri e mantenendoli aperti per tutto il tempo necessario”.
Nulla è cambiato, sul terreno, ma un segnale è arrivato dagli Stati Uniti anche in seno al Consiglio di sicurezza, nella riunione urgente del 2 aprile dedicata all’attacco alla sede diplomatica iraniana a Damasco. Robert Wood, che rappresentava Washington, ha avuto toni duri, mai così duri, sulla questione umanitaria, proprio a cominciare dall’attacco aereo delle forze armate israeliane sul convoglio di World Central Kitchen. “Questo incidente è un ulteriore monito al fatto che Israele deve fare molto di più per proteggere il personale e le strutture umanitarie a Gaza. È inaccettabile e inspiegabile che, a quasi sei mesi dall'inizio del conflitto, i meccanismi militari israeliani di deconfliction non funzionino in modo adeguato”.
A quasi sei mesi dall’inizio del conflitto, i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza non si sono però mai interrotti, come si è potuto constatare anche nel caso dell’attacco al convoglio di WCK. E anche il ritiro delle truppe dall’ospedale al Shifa non è definito da Israele come un segno di una diminuzione delle operazioni militari. Quello che invece sta accadendo, dopo le pressioni su Israele da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU e della Corte Internazionale dell’Aja, è che “l’umanitario” è diventato il cuore della questione. Un cuore, stavolta sì, tutto politico. Di fronte alla morte per fame, ormai conclamata anche da fonti ONU, di fronte alla malnutrizione e all’affamare, insomma al cibo usato come strumento di guerra, la questione dell’apertura dei valichi terrestri, a nord e a sud di Gaza, è diventata chiara e urgentissima. Fondamentale lo era sin dall’inizio, evidente lo è solo da poco, dopo che tutti hanno chiarito che sia gli aiuti paracadutati, sia quelli via mare non possono sostituire l’ingresso dei camion e la loro distribuzione da parte delle agenzie delle Nazioni Unite. In primis attraverso l’UNRWA, che lo fa da decenni dentro Gaza.
A Gaza c’è un rischio imminente di carestia
Il caso dell'uccisione mirata dei sette operatori di WCK sta cambiando, però, le carte in tavolo. Con un effetto immediato. Non è solo World Central Kitchen ad aver sospeso le sue operazioni a Gaza, ma il domino ha già coinvolto altre ONG, mentre le agenzie dell’ONU chiedono un meccanismo trasparente di deconfliction, come ha reiterato il direttore generale del WHO, Tedros Adhanom Ghebreyesus. Fino a che non verrà assicurata l’incolumità per i loro funzionari, le operazioni saranno sospese. In che percentuale? E per quanto tempo? Non è dato sapere. Per il momento, l’ONU ha sospeso gli spostamenti notturni nella Striscia di Gaza per almeno 48 ore.
Certo è, ora, il risultato di questo ennesimo, terribile capitolo della guerra su Gaza: i palestinesi, i civili palestinesi, l’intera popolazione di Gaza è vittima, non solo una volta. Vittima dei bombardamenti e della fame, con un bilancio che è arrivato a 33mila persone uccise, la metà bambini. Vittima di una invisibilità resa ancora più chiara dalla velocità con la quale la comunità internazionale (occidentale) si è occupata giustamente dell’incolumità degli operatori umanitari internazionali che hanno sacrificato la loro vita per l’umanità dolente di Gaza. Sono, però, mesi che i palestinesi muoiono, vengono uccisi, senza che la comunità internazionale (occidentale) nella sua compattezza sia così pronta nel chiedere e imporre il cessate il fuoco. Una differenza che per la gran parte del mondo non solo non è comprensibile, ma è inaccettabile.
Nell'ambito dell'iniziativa Valigia Blu Live, Paola Caridi (Cofondatrice e presidente di Lettera 22 e firma di Valigia Blu) e Francesca Mannocchi (giornalista e scrittrice) interverranno il 20 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia nell'incontro "Dal Mediterraneo al Giordano: i fronti di guerra".
Immagine in anteprima: frame video Guardian via YouTube