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‘All eyes on Rafah’ e le contraddizioni del nostro tempo

3 Giugno 2024 8 min lettura

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‘All eyes on Rafah’ e le contraddizioni del nostro tempo

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Il 30 maggio ricorreva il terzo anniversario di Inside, il musical/stand up show/qualsiasi cosa volesse essere di Bo Burnham girato durante la pandemia che rifletteva un po’ su tutto ciò che lo circondava: il suo ruolo di comico bianco di fronte all’impegno politico, il nostro desiderio di essere amati, la banalità e la profondità che si nascondono dentro i nostri profili Instagram, il sexting, Bezos, la crudeltà e il magnetismo della Rete cantati nel pezzo “Welcome to the Internet” in cui ci viene ricordato come la Rete ci offra di tutto, dalle cose orribili a quelle più stupide, le une al fianco delle altre senza alcun tipo di curatela se non quella della nostra mutevole attenzione e quel piccolo capolavoro di ballad su depressione e egoismo che è “All eyes on me”, in cui Burnham canta il bisogno di fregarsene se il mondo va in rovina, se gli oceani si alzano, l’importante è che mi guardate.

Ogni volta che in queste ore mi è capitato di vedere la discussa story di Instagram “All eyes on Rafah” mi veniva in mente proprio “All eyes on me”. Non voglio farla passare come una accusa di “virtue signaling”, termine individuato, soprattutto dalle destre, per derubricare ogni attivismo su Internet a banale “vuoi solo far vedere che sei bravo”, era una sorta di riflesso condizionato, un tentativo di capire sul perché nelle piattaforme odierne sia così difficile parlare di qualcosa senza parlare anche di sé stessi.

Anche perché gli ultimi mesi su Instagram col genocidio a Gaza sono forse più vicini al ghigno di Welcome to the Internet e al suo offrirci storia dopo storia un video buffo, una ragazza discinta, un bambino decapitato, il coctkail di un nostro amico, poi altro video buffo, soldato isrealiano che ringrazia per gli aiuti umanitari ridacchiando, altro contenuto di un amico, una pubblicità di un videogioco e così via.

Si è parlato tantissimo di quella storia, uno dei contenuti più virali di sempre, si è individuato da dove è spuntata, si è discusso molto sull’opportunità di usarla o meno, sulle sue simbologie e metafore e sui danni che potrebbe fare. Lo faremo anche qua, consapevoli, lo dico subito, del fatto che non c’è una risposta giusta, non c’è una sentenza, un insindacabile giudizio e non ci dovrebbe essere.

Perché alla fine, per quanto sia corretto analizzare i meccanismi comunicativi che stanno dietro questa immagine, tutto sembra solo un vuoto esercizio da Primo Mondo, un tentativo di tenersi dentro l’inquadratura della Storia attaccando le altre posizioni e difendendo la propria, mentre la gente continua a morire sotto “tragici incidenti” mentre c’è chi non vede l’ora di mettere una bella colata di cemento sulle fosse comuni e costruirci un resort.

Al di là di buoni intenti e pessime riuscite, al di là di attivismo performativo e pietra d’inciampo digitale che magari apre uno spiraglio di interesse, è palese che sull’immagine si è scatenata l’ennesima guerra di posizione e posizionamento. I discorsi da fare su Rafah sembrano essere stati sostituiti da discorsi fatti su una immagine che parla di Rafah e da come questi discorsi parlano di noi. E questa immagine sembra essere una sorta di monade che contiene dentro di sé tutte le complessità e le contraddizioni della società che viviamo.

È un'immagine creata con la IA, quindi in qualche modo figlia di una logica predatoria e aggressiva nei confronti di artisti, fotografi, giornalisti e scrittori. E allo stesso modo sappiamo che altri tipi di IA sono state usate per profilare e colpire obiettivi a Gaza causando migliaia di morti. È un’immagine che si diffonde su Meta, su Instagram, piattaforma che ultimamente ha fatto la scelta di limitare di default i contenuti politici, lasciando che siano le persone a dover scegliere di volerli vedere (su cosa sia o meno un contenuto politico potremmo discutere ore), con ovvie ricadute anche sulla portata di contenuti che richiamano direttamente Gaza, Israele e la Palestina.

E perché lo ha fatto? Anche perché molti di quei contenuti sono violenti, terribili, difficili da sostenere. Come è giusto che sia. Mentre questa immagine in fondo cosa ci dice? Niente, ci ricorda solo che Rafah esiste, eliminando la violenza, le urla, le fiamme. È un contenuto addomesticato, anzi, gamificato, cioè reso una specie di gioco, una catena di Sant’Antonio per piattaforme addomesticate che sfrutta uno sticker per essere condivisa senza troppo sforzo. Il simbolo, piaccia o meno, di quanto sia facile prendere posizione senza fare niente e di quanto pensiamo che quella posizione possa cambiare le cose. E di quanto tutto sommato ci faccia piacere sentirci parte del momento presente, dell’evento, dello zeitgeist.

Tra l’altro non è neanche una forma di protesta nata da chi sta a Gaza o da chi negli ultimi mesi è stata la sua voce. Molti in questo momento stanno citando il caso di Black Lives Matter e la protesta, nata da persone esterne al movimento, delle foto completamente nere su instagram che finì per soffocare ogni altro contenuto sul movimento. Non so effettivamente sei i due casi si possano sovrapporre, ma senza dubbio ho visto più spesso quella foto di molti altri contenuti a tema e senza dubbio c’è il rischio che molte persone considerino assolto il loro dovere civile da una semplice foto che si è stata condivisa da milioni di persone, ma che magari è stata solo vista distrattamente, senza alcun tipo di coinvolgimento.

Poi c’è la questione del fatto che è molto difficile contrastare la narrazione di un bambino decapitato, mentre un'immagine neutra può essere facilmente combattuta con un’altra immagine, per non dire direttamente memata o disinnescata. E infatti puntuale è arrivata la controffensiva che ci ricorda di mettere gli occhi su Rafah, ma per trovare gli israeliani rapiti, che mostra un bambino minacciato da un militante di Hamas, in un’altra foto fatta con la IA.

Infine, c’è stato una sorta di “gatekeeping dell’attivismo”, se così vogliamo chiamarlo, che mi ricorda come ormai la dialettica nerd abbia pervaso tutto, soprattutto la politica. Il gatekeeping identifica infatti il gesto di ergersi a “guardiani del cancello”, ovvero persone che possono decidere chi può o meno entrare a far parte di determinate comunità. In questo modo si può decidere chi è un “vero fan” di una serie tv, chi è un “vero gamer”, chi è degno di fregiarsi di questo titolo e può parlarci da pari. È un momento tipico di ogni subcultura o movimento che improvvisamente diventa mainstream o che si confronto con i temi dell’inclusività e che si lega col nostro bisogno di crearci un’identità attraverso le nostre passioni, escludendo in qualche modo chi ne vorrebbe far parte o chi vuole farlo in un modo che a noi non piace.

Il salto da chi non ti considera se non conosci almeno due album a memoria del suo gruppo metal o quanti punti vita ha un beholder a chi ti insulta se solo oggi ti muovi per Rafah sta nel fatto che in effetti sono ormai mesi e mesi che la questione va avanti. E se lo fai solo oggi, se lo fai solo quando è tutto sommato “accettabile” farlo, perché sei confortato dal far parte di una massa critica (e non ti sei beccato le manganellate in piazza), sei solo un poser, un attivista performativo.

Quello dell’attivismo performativo è senza dubbio un problema dei nostri giorni. Molti influencer e creator hanno capito che posizionarsi su certe cause tipo la salute mentale, il femminismo, l’ambiente, la beneficenza, anche la politica, può garantire un ritorno d’immagine. Alla fine, è sempre stato così. Sponsorizzazioni di aziende, libri in vendita, convegni sono tutti modi per monetizzare il proprio attivismo senza arrivare alle schifezze di quelli che fanno finta di fare beneficenza su TikTok ai mendicanti. Chiudo questa parentesi con una opinione molto semplice: se cercano di vendervi qualcosa è solo marketing, se vedete che la persona si mette di fronte alla causa stateci attenti.

Ma in questo caso ha senso parlare di “poser”? Non sarebbe meglio invece prendere quanto c’è di buono e provare a usare questa viralità per cambiare qualche testa? Anche se la rivendicazione fosse un gesto egoriferito? Ma poi in fondo, anche io, che non ho condiviso questa immagine ma ne ho condivise altre, atroci, perché in preda alla rabbia e all’impotenza volevo fare qualcosa, ho forse cambiato il mondo?

Su questo aspetto si sono interrogati molti attivisti e attiviste, come ad esempio @madonnafreeeda che su Instagram scrive:

“Qual è il modo di tirare questa massa dalla nostra parte? Dobbiamo per forza umiliarli in pubblica piazza prima di accettarli nelle fila di noi che c'eravamo prima che fosse facile? Ma ben venga se è facile, quello era il punto, per questo facciamo divulgazione, sensibilizzazione, azioni di protesta visibili che trascinino la gente, per questo ci facciamo i fottutissimi meme, per normalizzare e rendere ovvio, naturale, lapalissiano il sostegno al popolo palestinese”. 

Anche perché dovrebbe essere chiaro che condividere una storia e sperare così di aver fatto qualcosa è una pia illusione, ma già iniziare a fare i conti con quel nodo alla gola che ti fa sentire in colpa, strano o comunque fuori luogo se non ti pronunci è un inizio. Quel senso di colpa può essere nutrito per diventare consapevolezza, informazione, lettura e forse chissà, anche mobilitazione, una donazione, atti concreti.

Faccio mie le parole di Slavoj Zizek, che di fronte a chi ha considerato atti vuoti il riconoscimento della Palestina e la richiesta di incriminazione del Procuratore capo della Corte Penale Internazionale ha titolato la sua ultima newsletter “Why today empty gesture matter more than ever”. “Qui entrano in gioco i cinici – scrive Zizek - tali grandi atti pubblici di condanna sono gesti vuoti che non influenzeranno in alcun modo in modo significativo la situazione sul campo di battaglia... in questo caso, una posizione così cinica è chiaramente falsa. La prova è evidente: possiamo tutti vedere come l’establishment filo-israeliano ha reagito in preda al panico al mandato della ICC e alle iniziative per riconoscere la Palestina”.

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Su tutta questa discussione gravita, come dicevo all’inizio, la nostra ipocrisia occidentale e di fruitori di social media. Quell’inevitabile meccanismo che ci rende quasi impossibile rimuoverci dall’equazione quando parliamo di una causa. Come il Tetsuo di Tsukamoto era ormai totalmente avviluppato dal metallo e dai circuiti, così le nostre identità sono una cosa sola col contenuto che postiamo e le inevitabili colpe grandi e piccole che il consumo comporta. E quindi se posti qualcosa contro la guerra, la discriminazione e la povertà sei l’ennesimo tizio benestante che lo fa da un telefono creato in condizioni miserevoli, magari indossando vestiti che sanno di sfruttamento. E ogni volta che parli di qualcosa su di te aleggia il dubbio: lo fa perché ci crede o per seguire un trend?

Non esiste soluzione a questa situazione, non siamo in una storia dove c’è bisogno di una fine, buona o cattiva che sia, le posizioni dei critici e degli entusiasti hanno entrambe punti a favore e contro, ma qua non c’è niente da vincere, c’è da fermare un massacro.

In questi anni di attivismo digitale, di cancel culture, di shitstorm e storie condivise tanto per fare numero e assolversi forse l’unica soluzione è abbracciare la complessità, ritenere quel senso di colpa come un sano anticorpo, scendere a patti col fatto che non se ne andrà mai, perché non tutte le situazioni e le complessità si risolvono, tenere la guardia alta con chi cerca di fare i soldi con l’attivismo, ma abbracciare chi inizia a informarsi, ricordandoci che no, il punto non siamo noi.

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