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Il quadro politico in Francia davanti alla sfida dell’estrema destra e alla vigilia del voto storico del 7 luglio

4 Luglio 2024 12 min lettura

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Il quadro politico in Francia davanti alla sfida dell’estrema destra e alla vigilia del voto storico del 7 luglio

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«Che la parola sia data al popolo sovrano… è tempo per una chiarificazione indispensabile,» ha detto Emmanuel Macron la sera del 9 giugno in un messaggio a reti unificate, annunciando a sorpresa la dissoluzione dell’Assemblée Nationale e scatenando la più intensa, importante e breve campagna elettorale nella storia della 5a Repubblica francese. 

In questo mese che sembra essere durato un anno intero - talmente i colpi di scena si sono succeduti l’uno con l’altro - le chiarificazioni sono state numerose, ma ben poche sembrano aver favorito Macron, il suo gruppo parlamentare o il suo progetto politico. 

Se raccontare l’intero periodo appena trascorso richiederebbe un libro intero, una serie di tendenze generali sembrano abbastanza chiare da poter essere riassunte schematicamente, alla vigilia del secondo turno di domenica.

Un primo turno senza precedenti

Da quando nel 2002 è stata istituita la riforma del calendario elettorale, le elezioni per la Camera dei deputati francesi si tengono immediatamente dopo le presidenziali. Da allora e fino al 2022, vi è stata «una concordanza sistemica tra il colore politico del presidente e il colore politico della maggioranza parlamentare», come ha detto il direttore di un istituto di sondaggi francese qualche anno fa. È per questo che le legislative hanno tassi di astensione tradizionalmente molto più alti delle presidenziali. 

Due anni fa, dopo le presidenziali dalle quali Macron è uscito vincitore dal ballottaggio con Marine Le Pen, per la prima volta dal 2002, il partito presidenziale non è riuscito a ottenere una maggioranza assoluta ma solamente relativa. Un terremoto per la politica francese, causato dalla crescita della pattuglia parlamentare di estrema destra e, allo stesso tempo, dall’unione delle sinistre Nupes, trainata dall’egemonia de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. 

Questa piccola introduzione è d’uopo per sottolineare l’eccezionalità di queste legislative convocate a sorpresa da Emmanuel Macron. Domenica sera, al primo turno delle legislative, si è recato a votare il 66% degli aventi diritto, più di 20% in più rispetto a quelle del 2022, un dato senza precedenti dalla riforma del 2002. Poiché accedono al ballottaggio tutti i candidati che hanno raccolto almeno 12.5% delle preferenze degli iscritti alle liste elettorali, un aumento così forte della partecipazione ha provocato l’esplosione dei ballottaggi «triangolari», cioè a tre candidati. I «triangolari» erano stati appena 7 nel 2022, a fronte di 301 in questo scrutinio. 

A confronto con le elezioni del 2022, 9 milioni di elettori supplementari si sono recati alle urne. Tra questi «nuovi» elettori, circa 6 milioni hanno votato la lista condotta dal Rassemblement National (RN e alleati, totale 10,6 milioni di voti, 33%), mentre 3 milioni circa hanno votato la coalizione delle sinistre del Nouveau Front Populaire (NFP, totale 9 milioni di voti, 28%). Appena 600 000 di questi elettori che non avevano votato nel 2022 hanno scelto la compagine presidenziale (Ensemble, 6,4 milioni di voti, 20%). 

La fine del macronismo e la progressione della sinistra e dell’estrema destra: da tre «blocchi» a due 

Rispetto alle legislative del 2022, il partito di Marine Le Pen (con gli alleati gollisti di Éric Ciotti) ha più che raddoppiato i propri voti, formulando una seria ipoteca per una maggioranza quantomeno relativa in parlamento. Se il RN è andato forte tra tutti i settori e le classi sociali, ha consolidato in particolare il proprio «zoccolo duro» storico, costituito dai settori bassi della classe media, dai piccoli salari a tempo indeterminato, spesso proprietari dei propri alloggi, in modo particolare al di fuori dei centri urbani confermando una tendenza già presente alle presidenziali di due anni fa. 

La macronie dal canto suo appare in decomposizione completa, in una maniera che ricorda molto da vicino la situazione del Partito socialista (PS) al termine della presidenza di François Hollande. Nel 2022, Macron ottenne 244 seggi - un risultato considerato all’epoca una disfatta. Secondo le proiezioni più affidabili - presso le quali è necessario esercitare grande cautela, visto il disordine della situazione - l’inquilino dell’Eliseo può considerarsi fortunato se, all’indomani del secondo turno di domenica, la sua coalizione potrà contare su un centinaio scarso di deputati.

La sinistra unita sotto i colori del NFP, malgrado le speranze, non è riuscita a tenere testa al RN. Sebbene sia progredita rispetto al 2022, non lo ha fatto abbastanza da contendere il primo posto alla coalizione di estrema destra. Tuttavia, si conferma l’unico argine possibile al progetto di società lepenista, capace - nonostante tutto - di presentare un programma di trasformazione e di riforma a tratti radicale, raccogliendo un gran numero di consensi. In particolare, il NFP ha tenuto testa all’estrema destra tra gli strati più precari e poveri delle classi popolari, nei quartieri popolari delle zone urbane grandi e piccole, oltre che nelle città in generale e tra i giovani, che hanno scelto in massa di votarlo.

Il confronto con le elezioni legislative del 2022 è pertinente solo fino a un certo punto. In realtà, è soprattutto con le elezioni presidenziali dello stesso anno che alcune analogie appaiono più corrette. Per esempio, alle presidenziali del 2022 ha votato il 71% degli aventi diritto, un dato più vicino al 66% delle legislative del 2024. 

Il parallelo con le presidenziali spiega meglio la progressione del voto dell’estrema destra. Al primo turno di due anni fa, Marine Le Pen raccolse 8 milioni di voti (23%, 2 milioni in meno di Jordan Bardella al primo turno di domenica scorsa) e al secondo 13 milioni di voti (41%, tre milioni in più). La sinistra di Mélenchon raccolse 7,7 milioni di voti (22%, 1,3 in meno di quanto fatto dal NFP al primo turno), e Macron 9,7 milioni di voti al primo turno (28%) e 18,7 al secondo (59%). Malgrado l’apporto di figure come Éric Ciotti, la progressione del voto dell’estrema destra appare certo importante se confrontata con le legislative del 2022, ma molto meno considerevole se confrontata con le presidenziali. Allo stesso tempo, il crollo dei consensi di Macron si mostra in tutta la sua drammaticità, mentre la sinistra resta tutto sommato stabile, se ai consensi raccolti da Mélenchon si aggiungono quelli dei Verdi (4%) del PCF (2%) e del PS (1.7%). 

In sintesi, quello che appare chiaro da questo insieme di dati, è che la composizione a tre «blocchi» sancita dalle elezioni del 2022 si sta rapidamente mutando in un panorama a due blocchi, con la scomparsa della compagine macronista e la crescita parallela della sinistra e dell’estrema destra, quest’ultima a un ritmo più accelerato rispetto al campo progressista. Nel 2012, Mélenchon disse in TV che «alla fine, resteremo noi (la sinistra di «rottura» e loro (l’estrema destra)». Una profezia che sembra essersi avverata. 

L’incerta resurrezione del «fronte repubblicano»

Di fronte all’altissimo numero di «triangolari», non appena pubblicati i primi risultati, Jean-Luc Mélenchon si è presentato davanti alla telecamere per annunciare che i candidati del NFP si sarebbero ritirati, qualora arrivati in posizione sfavorevole in un ballottaggio a tre nel quale un candidato del RN avrebbe potuto essere eletto. 

Si tratta della strategia del «fronte repubblicano», una pratica politica consolidata - fino a pochi anni fa - nella politica francese, risultato del particolare sistema elettorale che regge la 5a Repubblica fondata da De Gaulle. In un sistema uninominale a doppio turno, nel caso di ballottaggi «triangolari» diventa fondamentale che, per non far eleggere deputati dell’estrema destra, uno degli altri due candidati si ritiri a favore dell’altro candidato «repubblicano», cioè non di estrema destra, al fine di non disperdere voti e sbarrare il passo al RN. 

Dopo lo spoglio di domenica, la compagine macronista ha dato segnali contrastanti. Inizialmente, è sembrata prevalere la linea del «né-né»: né l’estrema destra, né La France Insoumise, che Emmanuel Macron ha da tempo accomunato al RN in una faziosa retorica da «opposti estremismi». «Combatto il RN, ma non voto LFI», ha detto per esempio lunedì mattina, subito dopo il primo turno, Bruno Le Maire, ministro dell’economia, echeggiando dichiarazioni simili di altri pezzi grossi come Edouard Philippe (ex-primo ministro) o Yael Braun-Pivet, ex-presidentessa della Camera. 

Alla fine, tuttavia, il centro macronista è sembrato cambiare idea. Figure di primo piano, come il primo ministro Gabriel Attal o l’ex-prima ministra Elisabeth Borne, hanno invocato il ritiro sistematico dei candidati arrivati in posizioni sfavorevoli nei «triangolari». Martedì sera, il termine ultimo per depositare le liste per i ballottaggi, Le Monde ha contabilizzato 81 «desistenze» di candidati macronisti (a fronte di 129 del NFP). Quattordici candidati della coalizione presidenziale, tuttavia, hanno rifiutato di lasciare il passo agli altri candidati, malgrado i rischi di far eleggere deputati dell’estrema destra. 

A questa resurrezione sul filo del rasoio del «fronte repubblicano», non ha partecipato invece la destra gollista dei Républicains (LR). Una parte di questi ultimi, capeggiata da Éric Ciotti, è già passata con armi e bagagli con Le Pen. L’altra parte ha rifiutato di dare indicazioni o di ritirare candidati. Secondo uno degli esponenti di spicco di LR, «il pericolo per il nostro paese, oggi, è l’estrema sinistra», contro la quale sarebbe necessario «fare barrage (diga, ndr)». 

Malgrado i ritiri dei candidati, le esitazioni del campo macronista e la diserzione del gollismo tradizionale rischiano di portare un colpo fatale alla strategia del «fronte repubblicano». 

La coalizione delle sinistre e l’equilibrio dei rapporti di forza interni

Stando alle ricostruzioni dei giornali francesi, nello sciogliere le Camere, Macron aveva «scommesso sulla divisione della sinistra». Effettivamente, finita l’alleanza della Nupes, spaccatasi su temi come la risposta da apportare alle rivolte dopo la morte di Nahel o al genocidio in corso a Gaza, i vari partiti non erano riusciti a trovare un accordo per presentarsi uniti alle europee. Nel corso dell’ultimo anno, la distanza sembrava incolmabile tra i Verdi e il Partito Socialista, rappresentato alle europee da un moderato come Raphaël Glucksmann, da un lato, e tra la sinistra de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, dall’altro. 

Alle europee, LFI è stato tuttavia l’unico partito della sinistra a progredire considerevolmente, ottenendo un milione di voti in più rispetto al 2019, sfiorando il 10% (rispetto al 6% di cinque anni prima). Il blocco socialdemocratico tradizionale, costituito dagli elettori ecologisti e del Partito socialista, si è invece mantenuto stabile. Nel 2019, i Verdi condotti da Yannick Jadot e i socialisti guidati da Raphaël Glucksmann ottennero, assieme, il 19% delle preferenze (13% e 6% rispettivamente). Cinque anni dopo, i ruoli si sono invertiti: Glucksmann ha ottenuto il 13% dei voti, mentre la candidata dei Verdi Marie Toussaint ha raccolto il 5.5% delle preferenze (18.8% in totale). 

Una «stagnazione» che, se da un lato ha rimesso il PS al centro della scena, dall’altro ha spinto i dirigenti del Partito socialista a cercare l’accordo per formare una nuova coalizione con La France Insoumise, malgrado le critiche molto severe della destra del PS - e in particolare di Raphaël Glucksmann - nei confronti di Mélenchon e di LFI. 

Grazie all’apporto di deputati come François Ruffin e alla pressione delle basi dei partiti, a 24 ore dall’annuncio di Macron, la sera del 10 giugno, i dirigenti del PS, di LFI, dei Verdi e del Partito Comunista Francese (PCF) hanno annunciato davanti a una folla festante che il Nuovo Fronte Popolare (NFP) era una realtà. Tre giorni dopo, gli stessi dirigenti hanno presentato un programma comune e annunciato d’aver trovato l’accordo sulle candidature comuni che sono state presentate in ciascuna delle 577 circoscrizioni in palio. 

Il programma del NFP riprende in larga parte quello già elaborato dalla Nupes nel 2022, aggiornandolo e, a tratti, edulcorandolo. Profondamente keynesiano sui temi economici (aumento immediato del salario minimo e degli stipendi nel pubblico, abrogazione della riforma delle pensioni, blocco dei prezzi, tassazione dei grandi patrimoni), il programma riprende le proposte della Nupes e di LFI sulla transizione ecologico-sociale, sulla riforma della polizia, sulla disobbedienza ai trattati europei sull’austerità, sul riconoscimento dello stato palestinese, sulla necessità di un immediato cessate il fuoco per fermare gli attacchi israeliani a Gaza e sulla condanna dei crimini di guerra israeliani e di Hamas. Fa invece propria la linea del Ps sull’Ucraina, promettendo di dare sostegno e armi al governo di Zelensky. Sul piano della politica economica, il NFP ha ricevuto il sostegno degli economisti più rispettati del paese, come Thomas Piketty, Michael Zemmour, Gabriel Zucman e almeno 300 altri accademici.  

La ripartizione interna dei seggi segnala, invece, un riequilibrio dei rapporti di forza interni. Rispetto al 2022, l’ala più radicale rappresentata da LFI è rimasta maggioritaria e ha presentato 230 candidati, ma ha ceduto al Partito Socialista, con 170 candidati, un centinaio di circoscrizioni, mentre i Verdi e il PCF hanno ottenuto rispettivamente 90 e 50 candidature. Al contrario di quanto accaduto con la formazione della Nupes, LFI non ha più la «maggioranza assoluta» all’interno della coalizione, anche se rimane il gruppo più importante della gauche.

Infine, la vastità della coalizione, messa in piedi a tempo di record, sembra essere tanto una risorsa quanto un limite. Il NFP include figure detestate dalla sinistra come l’ex-presidente François Hollande, o l’ex-ministro macronista Aurélien Rousseau. Al lato opposto, si sono unite al NFP esponenti dei movimenti sociali antifascisti come Raphaël Arnault, o figure della galassia trotzkista come Philippe Poutou. 

Tale diversità può essere un punto di forza, un modo per allargare il proprio bacino di consensi, ma non può che far sorgere dei dubbi quanto alla capacità di una coalizione del genere ad applicare un programma decisamente di rottura, tanto rispetto alle politiche macroniste, quanto a quelle messe in atto durante la presidenza di Hollande. Tra il 2012 e il 2017, quest’ultimo mise in atto una politica economica molto simile a quella di Macron, seppure più «soft» per alcuni aspetti, fondata cioè sugli sgravi fiscali per le grandi aziende. Il programma del NFP è interamente costruito in opposizione a tale eredità e, malgrado che vi siano per ora poche chances per la sinistra di ottenere una maggioranza assoluta, resta da vedere quanto figure appartenenti alla destra del PS come l’ex-presidente siano disponibili a rinnegare completamente la propria stessa eredità. 

Cosa succederà in Francia l’8 luglio?

Resta da risolvere la questione principale: cosa succederà lunedì 8 luglio? È difficile - anche se non impossibile - che il RN ottenga una maggioranza assoluta, così com’è difficile che l’ottenga la sinistra. A quel punto il paese si troverebbe in una certa misura bloccato, almeno per un anno (il limite minimo tra una dissoluzione e un’altra, secondo quanto stabilito dalla Costituzione). 

Qualora l’estrema destra ottenga una maggioranza relativa «forte», non è affatto impossibile che esprima un primo ministro, e che in qualche modo si trovi un accordo su alcuni temi sui quali Emmanuel Macron e Marine Le Pen hanno già mostrato di convergere, nel passato. Nel 2023, per esempio, la Francia ha approvato una «legge immigrazione» estremamente conservatrice, che addirittura metteva in discussione lo ius soli, coi voti del RN (Marine Le Pen la definì una «vittoria ideologica»). Alcune misure proposte dal ministro degli Interni macronista Gérald Darmanin, in particolare sull’allargamento della legittima difesa per i poliziotti, sono del tutto compatibili col programma lepenista. Lo stesso dicasi per leggi repressive nei confronti dei cittadini musulmani o percepiti come tali, come la famigerata «legge contro il separatismo» approvata nel 2021 con l’obiettivo di «contrastare l’Islam politico». Una legge le cui disposizioni e il cui arsenale retorico sono direttamente ispirate a quelli dell’estrema destra. 

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In maniera speculare, Jordan Bardella e Marine Le Pen hanno anch’essi limato progressivamente il loro programma, soprattutto la parte «sociale». L’abolizione della riforma delle pensioni, gli aumenti del salario, la revisione della fiscalità, la messa in discussione delle regole europee, sono tutti punti programmatici che la direzione del RN si è affrettata a eliminare dal programma. Rimangono, invece, le ossessioni identitarie: repressione dei cittadini bi-nazionali, ai quali si vorrebbe vietare l’accesso ad alcune cariche nella funzione pubblica; divieto di portare il velo in pubblico; eliminazione dello ius soli…

L’altro scenario possibile, ventilato in questi giorni da figure come Gabriel Attal, Raphaël Glucksmann e Marine Tondelier, la segretaria dei Verdi, è una «grande coalizione» per escludere il RN dal potere - una possibilità alla quale LFI ha già opposto un rifiuto netto, così come alcune figure più a sinistra del PS e dei Verdi. D’altronde, che forma potrebbe prendere un governo simile? Un governo tecnico? Incarnato da chi? Per fare cosa? Con quali numeri in parlamento? Per ora, tutti questi interrogativi rimangono in sospeso, almeno fino a domenica sera. La «chiarificazione» voluta da Macron sembra, a oggi, ancora ben lontana dall’essersi avverata.

Immagine in anteprima: frame video WION via YouTube

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