Finanziaria, PNRR e Patto di Stabilità: sull’economia il Governo Meloni è più debole che mai
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Quella manovra che la Presidente del Consiglio aveva definito, a più riprese, come “responsabile” sta in realtà scontentando tutti. Nel corso di queste settimane, infatti, non sono mancate critiche al governo Meloni e in generale alla sua gestione della situazione economica, sia in patria sia con i partner europei.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Le critiche alla manovra finanziaria: dagli osservatori internazionali ai sindacati
Tra le voci critiche, non si può che partire dagli osservatori internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il direttore del dipartimento europeo, Alfred Kammer, presentando un report sugli sviluppi e le proiezioni riguardanti l’economia europea, ha sottolineato l’assenza di politiche per la crescita da parte del Governo Meloni e la necessità di spendere adeguatamente i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In particolare, Kammer ha sottolineato la necessità di un aggiustamento fiscale più rapido. Per via delle scelte della Banca Centrale Europea (BCE), il costo di rifinanziamento del debito rimarrà elevato e ciò costituisce un problema per un paese come il nostro che presenta un debito tra i più elevati al mondo.
Su questo fronte le critiche arrivano anche da Banca d’Italia. Nell’audizione in Commissione Bilancio, il vicecapo del dipartimento Economia e Statistica, Andrea Brandolini, ha infatti sottolineato che una manovra espansiva come quella del governo risulta rischiosa in un momento di elevata incertezza come quella odierna. Pone invece un accento diverso la Corte dei Conti: le misure più importanti volute dal governo sono di carattere transitorio e, in un contesto come quello odierno, richiederanno “decisioni difficili” in materia di razionalizzazione della spesa.
Non è entusiasta della manovra nemmeno Confindustria. Nella sua audizione, il Presidente Carlo Bonomi ha infatti dichiarato:
Riteniamo che il DDL Bilancio sia, da un lato, ragionevole, nella misura in cui concentra le poche risorse disponibili sulla riduzione, per il solo 2024, del cuneo contributivo; dall’altro, incompleto, vista la sostanziale assenza di misure a sostegno degli investimenti privati e, più in generale, di una strategia per la crescita e la competitività.
Tra i critici anche i sindacati, nonostante permangano delle differenze tra CGIL e UIL, da una parte, e CISL, dall’altra. Nella giornata di venerdì 17 novembre le prime hanno organizzato uno sciopero molto contestato dal governo tanto che dal palco della manifestazione in Piazza del Popolo a Roma, il segretario generale della UIL, Pierpaolo Bombardieri, ha attaccato il ministro Salvini, che ha usufruito della facoltà di limitare lo sciopero dei trasporti. Al centro dello sciopero non c’è solo la manovra, che secondo i sindacati fa poco contro l’emergenza salariale, ma anche varie altre questioni come la regressione sui diritti dei lavoratori attuata dal governo Meloni con provvedimenti come il Decreto Lavoro.
Più articolato invece il giudizio della CISL che nella manovra vede “molte luci e molte ombre”. Secondo il sindacato, il governo ha fatto bene a confermare il taglio del cuneo fiscale, aiutando poi i redditi più bassi con l’accorpamento dei primi due scaglioni IRPEF. Le critiche si rivolgono invece ai provvedimenti in materia pensionistica, giudicati insufficienti dalla CISL, mentre si chiede maggior attenzione alle questioni sociali e alla sanità.
Infine sono arrivate critiche anche da parte dell'Europa. Attraverso le parole del vicepresidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis e del commissario Paolo Gentiloni, gli Stati devono essere più prudenti dal punto di vista fiscale. L'Italia risulta tra i paesi rimandati per quel che riguarda la spesa pubblica, mentre altri paesi come la Francia non rispettano il tetto al debito.
Il problema del debito (e non solo)
Concentriamoci quindi sulla critica principale rivolta alla manovra del governo Meloni: quella riguardante la stabilità dei conti pubblici.
Partiamo dal ricordare la situazione: secondo i dati contenuti nella Nota d’Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF), il debito per quest’anno si attesterà al 140,2% scendendo al 140,1 il prossimo anno, con un calo quindi di solo 0,1 punti percentuali. Di fatto, secondo le stime del Governo Meloni, il debito rimarrà stazionario intorno al 140% nei prossimi anni. Bisogna quindi considerare due aspetti.
Il primo, come avevamo già sottolineato analizzando la manovra, è che la dinamica del debito è influenzata dalla situazione di elevata inflazione che abbiamo vissuto. In questi anni si è visto un aumento rapido del PIL nominale, cioè quello considerato ai prezzi correnti che sono appunto cresciuti, stimato (per fare l’esempio del nostro paese) intorno al 5,3% nel 2023. Poiché si è interessati alla dinamica del rapporto tra debito e PIL, un aumento del PIL (che sta al denominatore) permette un rientro del debito più dolce: si tratta del cosiddetto snowball effect. Il governo Meloni poteva quindi avere vita facile nel ridurre il debito, vista l’inflazione persistente. Ma se questo riguarda il passato e il presente, a preoccupare di più è la situazione nel corso dei prossimi anni.
E questo ci porta al secondo aspetto da considerare: la delicata congiuntura macroeconomica che non solo l’Italia, ma anche l’Europa e il resto del mondo stanno affrontando. L’incertezza sull’andamento dell’economia rimane alta, ma per ora le economie non sono in recessione. Per esempio, il nostro paese vede una crescita lieve del PIL (reale): secondo l’ISTAT, dopo una contrazione nel precedente trimestre, in quello appena trascorso rimane stabile, con una variazione acquisita dello 0,7%, cioè la crescita a fine anno qualora nel secondo trimestre dovesse essere nulla. Quindi, non solo il nostro paese non è in recessione, ma vi sono vari indicatori che segnalano anzi una certa resilienza del sistema: il tasso d’occupazione a settembre si attesta al 61,7%, con un aumento, seppure debole, della produzione industriale rispetto ai mesi precedenti.
Questo potrebbe cambiare nei prossimi mesi: negli Stati Uniti il cosiddetto Indice di Sahm, che è riuscito a identificare ogni recessione a posteriori dal 1960 in poi, mostra che l’economia potrebbe presto entrare in recessione – anche se la stessa Claudia Sahm, l’economista che ha sviluppato l’indice, rileva che in condizioni come quelle che stiamo vivendo il suo indice potrebbe non funzionare. Anche in Europa le possibilità di una recessione si fanno più vivide.
Qualora dovesse arrivare una recessione, gli Stati si troverebbero così a utilizzare la leva fiscale, quindi la spesa pubblica, per ridare slancio al settore privato. Queste manovre di tipo anticiclico (con il governo che interviene massicciamente quando l’economia è in recessione) necessitano ovviamente delle risorse per farlo. E questo è appunto il problema del Governo Meloni: i mercati, che non intravedono la volontà del governo di mettere mano ai conti pubblici, potrebbero richiedere degli interessi molto elevati, andando quindi a peggiorare ancora di più la situazione sul fronte del debito.
Anche il governo è consapevole del rischio che corre. Lo si legge d’altronde nella già citata NADEF. Nel documento, gli esperti del ministero hanno infatti simulato l’impatto dei conti pubblici di un rischio finanziario, che si tramuta in un aumento dello spread, e in un rischio tasso di cambio. In ambedue i casi si assiste a un cambio qualitativo della traiettoria del debito che aumenterebbe arrivando al 143% nel 2026. Questo aumento del debito, che si renderebbe necessario per far fronte a una recessione, avrebbe però delle conseguenze di lungo periodo sul resto dell’economia del nostro paese. Legherebbe le mani ai governi successivi in materia fiscale, costringendo il paese a concentrare le sue risorse sul consolidamento fiscale.
Ma perché viene fatto questo debito? Uno dei motivi è proprio il provvedimento principale della manovra: il taglio del cuneo fiscale. Questo mostra ancora una volta i limiti della misura sul lungo periodo, come abbiamo più e più volte sottolineato: il taglio del cuneo fiscale costa. Quindi se andava bene in un contesto come quello affrontato dal Governo Draghi, giustificato in via emergenziale, già con la Manovra del 2022 sarebbe stato necessario trovare altri strumenti per sostenere i redditi bassi. Tra questi strumenti, di nuovo, ci sarebbe il salario minimo che è a costo (quasi) zero per lo Stato, ma che il governo Meloni ha sonoramente bocciato.
Secondo Meloni e la ministra Marina Elvira Calderone, che ha ribadito il concetto in un’intervista a La Stampa, la strada da seguire è il rafforzamento della contrattazione collettiva. Eppure questa strada non sembra condivisa dagli alleati di governo, a partire dalla Lega che nei giorni scorsi ha presentato un progetto di legge per adeguare lo stipendio al costo della vita del luogo in cui si vive. Lo strumento per farlo, ha dichiarato il senatore della Lega, Massimiliano Romeo, è la contrattazione di secondo livello. È improbabile che questa proposta passi, ma segnala comunque una spaccatura in seno alla maggioranza.
La questione debito, però, non è l’unico problema emerso dalla manovra. Il più importante riguarda certamente la sanità. Come avevamo già sottolineato, buona parte dei fondi stanziati da Meloni serviranno solo per il rinnovo dei contratti. A farlo notare è Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che riporta come in un’audizione al Senato il ministro Schillaci abbia dichiarato che l’80% dei fondi andrà via solo per i rinnovi, dato poi ripreso dalla Corte dei Conti. Sempre Cartabellotta segnala come il piano di Meloni per abbattere le liste d'attesa si tramuti in realtà a un regalo alle strutture private.
Delicata anche la questione, sollevata dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) e ripresa da Fanpage, sui fondi per le persone con disabilità. Dal 2024 verrà istituito un nuovo fondo, il Fondo Unico per l’Inclusione delle Persone con Disabilità, che ha però un importo inferiore rispetto ai fondi che va a sostituire. Infatti i numeri della relazione dell’UPB mostrano come il valore del fondo sarà di 282 milioni, 50 in meno rispetto ai fondi che vorrebbe accorpare. Inoltre, segnala la relazione, c’è la questione del Fondo per le Politiche in Favore delle Persone con Disabilità, che non viene accorpato nel fondo di prima. Questo fondo, per mancanza di decreti attuativi, non è mai stato utilizzato per quel fine, ma ora il governo Meloni ha deciso direttamente di non rifinanziarlo.
PNRR e Patto di Stabilità: l’Italia non tocca palla in Europa
Le difficoltà del governo sul fronte economico non si fermano certo qui. Tra i problemi c’è la missione sulla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione italiana nel contesto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Di questo si è infatti occupata in uno dei due approfondimenti la Corte dei Conti, nell’ambito della Relazione Semestrale sul piano presentata al Parlamento. Secondo la Corte infatti mancherebbero 65mila figure professionali del campo STEM all’interno della pubblica amministrazione. Si tratta di una carenza che il nostro paese sconta da tempo, avendo una delle PA più anziane dei paesi OECD (almeno stando ai dati di qualche anno fa). Ma negli ultimi anni la situazione si è fatta a tinte ancora più fosche, come rileva la Corte:
Il recupero dei ritardi attraverso l’incremento del personale specializzato rappresenta una sfida difficile, soprattutto alla luce delle difficoltà riscontrate nell’ultimo biennio dall’attività concorsuale per il reperimento di profili professionali tecnici o particolarmente specializzati. Questa carenza infatti rende difficile l’attuazione del piano, che tra le altre cose serve proprio a effettuare la transizione digitale.
Oltre a questo, la relazione della corte non è del tutto negativa nei confronti del governo. Si sono fatti progressi nel campo degli obiettivi europei, meno invece riguardo agli obiettivi strettamente nazionali. Più problematica invece la situazione circa la revisione del PNRR, su cui la Corte sottolinea:
Appare sempre più urgente una spedita finalizzazione della fase di revisione del Piano per rimuovere fattori di incertezza, sia per le iniziative che rimarranno gestite nell’ambito del PNRR sia per quelle che dovranno fuoriuscirne, consentendo a soggetti responsabili e attuatori gli opportuni adattamenti.
Non sono mancate però le critiche del ministro per Affari Europei, Raffaele Fitto, alla relazione. All’interno del documento, poiché si è nel mezzo della rimodulazione del piano, non si è toccato l’aspetto della capacità di spesa relativa ai progetti, se non con un campione non rappresentativo nel secondo tomo della relazione. Fitto ha quindi accusato la Corte di utilizzare dati parziali e non coinvolgere direttamente la struttura di missione del PNRR presso la Presidenza del Consiglio.
La questione più cruciale per il futuro del nostro paese è però la riforma del Patto di Stabilità, che dovrebbe concludersi in questi mesi. Il Patto di Stabilità regola la disciplina di bilancio europea, in particolare sui limiti al debito e il deficit. Le colonne portanti sono di fatto due: la prima è che il debito degli Stati membri non dovrebbe mai superare il 60% in rapporto al PIL e, qualora il debito fosse più alto, gli Stati dovrebbero ridurlo di un ventesimo all’anno; il secondo è che il deficit non deve mai superare il 3%.
Per far fronte alle sopraggiunte problematiche della pandemia, il patto era stato sospeso nel 2020 garantendo agli Stati più indebitati, come il nostro, di avere spazio di manovra e fornire gli aiuti necessari a cittadini e tessuto produttivo nei momenti di chiusura. Ma nel 2024 è previsto un ritorno delle regole precedenti o una riforma, già presentata dalla Commissione Europea. Tornare ai precedenti vincoli, infatti, impedirebbe lo spazio fiscale necessario per determinanti investimenti pubblici che, avendo effetti anche sul PIL, andrebbero in realtà a ridurre – sul medio lungo periodo – il rapporto debito PIL.
La riforma della Commissione permette un rientro del debito più dolce, adattandolo alle specifiche del paese. Gli Stati membri dovranno quindi presentare un proprio piano di riduzione del debito. In questi mesi, i ministri delle Finanze si sono ritrovati per discutere di eventuali modifiche alla proposta della commissione. Come già avvenuto al tempo del Next Generation European Union e nelle precedenti discussioni sulle regole fiscali, vi sono stati due fronti: da una part,e i paesi frugali, come Germania, paesi nordici e Paesi Bassi; dall’altra, i paesi che chiedono maggiore flessibilità, come Italia, Spagna e Francia.
Tuttavia, i rapporti tra l’Italia e i paesi con cui avrebbe dovuto far gioco forza per spingere su determinate modifiche, come, ad esempio, togliere dal computo del deficit determinati investimenti come quelli sulla transizione ecologica e digitale, sono quantomeno delicati. Basti pensare alla Francia, con cui più volte ci sono stati attriti.
Nel contesto europeo, inoltre, i partiti della maggioranza si trovano in famiglie che non hanno tra le loro priorità, per usare un eufemismo, quella dell’alleggerimento delle regole fiscali. La partita, tecnicamente, dovrebbe chiudersi entro l’8 di dicembre, senza che le richieste italiane siano state seriamente prese in considerazione.
Ma in Europa persistono altri problemi per l’Italia, come per le procedure d’infrazione arrivate in questi giorni. Tra tutte, la più importante riguarda la questione "balneari": dopo l’invio della lettera, il nostro paese avrà due mesi di tempo per rispondere ed evitare una maxi multa.
Il pomo della discordia è sulla percentuale di spiagge occupate dagli stabilimenti balneari: la direttiva Bolkestein infatti si applica soltanto a quei servizi che sono “scarsi”. Questa è proprio la strategia difensiva del governo italiano: secondo la mappatura effettuata in questi mesi soltanto il 33% delle nostre spiagge è occupato da stabilimenti balneari e quindi le spiagge non sarebbero assoggettate alla direttiva.
Non è dello stesso avviso la Commissione Europea che fa, ad esempio, notare come il calcolo della superficie occupata sia stato fatto non escludendo porti, aree industriali per la produzione di energia e altre aree che non sarebbero in alcun caso assoggettate alla direttiva. Molte aree, sottolinea il commissario UE al Mercato Interno, Thierry Breton, nei Comuni più turistici potrebbero già essere oggetto di concessione, ma la mappatura italiana è solo a livello nazionale e non entra in una valutazione più specifica.
La seconda infrazione, invece, riguarda l’assegno unico per i figli a carico, i cui requisiti di residenza sarebbero discriminatori nei confronti dei cittadini europei.
Il governo Meloni alla prova dei fatti
L’analisi svolta suggerisce che il governo finora ha avuto vita più facile del previsto, con una situazione economica segnata sì dall’inflazione, ma con una crescita sostenuta nel 2022 e positiva nel 2023. Non è detto che la situazione rimanga tale, visti i venti di rallentamento (o addirittura recessione) che spirano sull’eurozona. Una situazione per cui il governo non ha ovviamente colpe, ma la scarsa attenzione ai conti pubblici in una situazione tutto sommato positiva rischia di non lasciare risorse per affrontare un eventuale rallentamento. Secondo le stime dell’UPB (Ufficio Parlamentare di Bilancio), nel 2024 la crescita, già fiacca, dipenderà in larga parte dal PNRR, sulle cui capacità di spesa però rimangono varie perplessità.
Un debito reso ancora più schiacciante dal pressoché totale isolamento del nostro governo in sede europea. Se con Spagna e Francia ci fosse stata una maggiore intesa, si sarebbe potuto fare gioco forza per allargare le maglie della riforma del patto di stabilità, garantendo lo scorporo dal computo del deficit di quegli investimenti pubblici che avrebbe ricadute più sulla crescita che sul debito. Invece così non è stato, ed è difficile vedere all’orizzonte un cambio di tendenza. Una difficoltà le cui conseguenze ricadono sull’intero paese.