La sorellanza femminista che noi uomini dobbiamo ancora creare
6 min letturaPoche idee storiche e sociali hanno in Italia un destino paradossale quanto il femminismo. Non si studia nella scuola dell'obbligo, compare poco e male nei manuali delle scuole superiori, eppure le persone ne hanno un'idea molto precisa – e, nella maggior parte dei casi, sbagliata. Per molte persone quell’idea è fatta di luoghi comuni e stereotipi, perché è in questo modo che se ne è parlato per decenni, e che ancora se ne parla.
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Le donne hanno acquisito consapevolezza come esseri umani con pari diritti lottando contro le culture maschiliste del loro tempo, le oppressioni sociali nei loro luoghi, secondo la propria situazione storica, da sempre. Attualmente, con una ovvia visione deformata dalla contemporaneità, una parte considerevole dell’opinione pubblica ne ha una visione caricaturale: quella di signore in vestiti lunghi che marciano composte per le vie della Londra ottocentesca, rivendicando cose ormai ottenute e consolidate; oppure donne sciatte e arrabbiate che bruciano reggiseni e urlano il loro desiderio sessuale represso in manifestazioni pittoresche degli anni ‘60 e ‘70. Al di là di questo, poco altro: e meno che mai è presente qualche concetto che coinvolga anche gli uomini nelle lotte femministe.
Esistono anche nel nostro paese abbondanti fonti storiche e documentazione sufficiente per correggere queste distorsioni, anche a disposizione del pubblico non specialistico. Quella che manca è la volontà di informarsi, e di comprendere quanto ancora siano necessari i femminismi, non solo per le donne. Basterebbe già soffermarsi a considerare che il “maschile” oggetto di critica femminista non è il dato biologico, è una idea educativa. Il problema non sono i soggetti che nascono con i cromosomi XY, ma le idee sociali condivise pubblicamente su cosa dovrebbero diventare quei soggetti: l’idea culturale di “uomo” è il problema, come quell’idea è costruita e cosa comporta crederci per chiunque faccia parte della società. Comprendere questo è il primo passo per orientarsi sensatamente, come rendersi conto che giudicare per slogan è un’azione ignorante e discriminante. Fatto salvo quindi un giudizio storico corretto, rimane poi da chiedersi cosa importi, di tutto ciò, agli uomini.
È questa, forse, la cosa più assurda di tutte: agli uomini dovrebbe importare parecchio dei femminismi. Gli uomini sono il genere che si suicida di più, che fa i lavori più pericolosi e insicuri ma non si batte per cambiare la visione sociale di sé che lo racconta destinato a queste cose. Gli uomini si inventano una manosphere per discutere di tutto ciò che gli succede ma non per comprendere da dove viene tutto quello che gli rovina la vita, al di là della solita risposta pregiudiziale e sbagliata: le donne.
I femminismi hanno già risposto da molto tempo, perché le loro pratiche di liberazione, certamente non dirette o pensate per gli uomini, sono state da sempre quella visione alternativa, quella critica da un altro punto di vista necessaria ad accorgersi di quello in cui gli uomini sono in mezzo. I femminismi criticano da sempre quelle forze sociali, quei poteri e quelle costruzioni culturali che producono le tante forme di oppressione che subiscono le donne, ma non lo fanno parlando di un altro mondo, di un altro pianeta.
Di quelle oppressioni gli agenti sono molto spesso uomini, ma quelle forze non sono - al contrario di tante chiacchiere pseudoscientifiche - biologicamente innate negli individui di sesso maschile: in tanti territori diversi, tempi diversi, culture diverse, si sono date forme di oppressione diverse nei confronti di chi non è uomo bianco etero, e al contrario anche di come suggerisce un immaginario distorto anche di tanti intellettuali, nessun femminismo incolpa gli uomini di essere ciò che sono. Tutti i femminismi, però, chiedono agli uomini di assumersi la responsabilità di quella idea maschile; la responsabilità di rendersi conto che nella loro “normale” educazione ci sono tantissimi condizionamenti mascherati da caratteristiche, abitudini, espressioni della maschilità. Quei condizionamenti sono molto spesso elementi tossici: immaginarsi destinati al ruolo di breadwinner (capofamiglia), arrogarsi il diritto di parlare dei corpi altrui, non considerarsi come genere, scambiare i propri privilegi sociali per caratteri innati o casualità sociali, imparare a mascherare e nascondere la propria interiorità fino ad ammutolirla.
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Chi non nasce uomo bianco etero è immediatamente oggetto di condizionamenti ben più forti, e per questo è in grado di descrivere quelli che subisce il genere che se ne immagina libero. Chi non nasce uomo bianco etero sperimenta bene cosa una società - chiamata patriarcale per coerenza storica - chiede di diverso rispetto a sé e secondo le direttrici di poteri che ineriscono la forma del proprio corpo, il colore della propria pelle, il ruolo sociale che la cultura locale esige dal genere di appartenenza e dal valore dato all’orientamento sessuale. Queste sono critiche preziose, testimonianze importanti, pratiche da comprendere e trasformare per sé, non colpevolizzazioni da travisare.
La violenza contro le donne è un fenomeno sociale che dovrebbe interessare molto anche gli uomini non perché debbano “pentirsi” o assumersi la “colpa” di qualcosa, ma perché quel fenomeno è un sintomo preciso anche di ciò che condiziona il loro comportamento. Quello che sostiene una logica femminicida non è il raptus tanto strombazzato dai media quanto smentito da qualsiasi persona minimamente preparata sul tema, ma è quella stessa idea di possesso così importante nella tipica educazione al maschile. Un uomo è valutato per quello che ha: donne, lavoro, beni - tutte cose rese quantificabili, monetizzabili, come la sua identità che assume così un valore quantitativo, in denaro - “che uomo sei?” significa “quanto vali, quanto potere hai sulle tue cose?”. Quando uno di quei “beni”, una donna, decide com’è libera di fare di interrompere una relazione, per molti uomini ciò significa valere di meno, avere una perdita di prestigio, di valore della propria maschilità. La reazione a questa perdita di valore è tristemente nota. Come sono note le reazioni a qualsiasi presa di coscienza delle donne di non essere un bene a disposizione, di non voler sottostare al continuo abuso di sentire il loro corpo valutato, giudicato, classificato.
Questo levarsi di scudi continuo nei confronti del femminismo è proprio la dimostrazione di quanto è necessario (“Comments on any article about feminism justify feminism”, twittò Helen Lewis nel 2012): è la dimostrazione di quel cameratismo che condiziona gli uomini ad aderire all’immagine condivisa di sé, a una idea di uomo continuamente da ribadire e da difendere da qualsiasi diversità, che si rispecchia nella difesa dello street harassment (molestie per strada), nel “sono solo parole”, nel #NotAllMen, nel “non sono sessista, ma…”, nel gender pay gap, nel “ho tanti amici gay”, nel “eh ma anche le donne sono violente”, nel “mia moglie/mia madre/le mie figlie sono femministe, figurati se io…” - in tutti quegli argomenti-fantoccio creati per difendersi da una supposta minaccia che invece è solo esercizio di sacrosanti diritti altrui.
L’antidoto sarebbe quella sorellanza femminista che ancora dobbiamo creare, come uomini. Quel sentimento per cui ci si riconosce simili malgrado le differenze culturali, sociali, economiche, storiche; quel sentimento che di fronte a un femminicida, a uno stupratore, dovrebbe farci non correre a manifestare quanto siamo differenti da lui, ma chiederci cosa abbiamo in comune con lui, riconoscendo che i suoi atti violenti non sono altrove rispetto alle battute maschiliste, agli insulti sessisti, all’imputare le carriere femminili all’uso sessuale del loro corpo, al ritenersi il solo genere destinato a comandare e gestire - sono alla fine di quella stessa strada dove si trovano questi comportamenti oppressivi.
Questa è una presa di responsabilità da fare insieme, invece di passare il tempo a indignarsi ipocritamente per accuse volutamente mal capite. I femminismi sono cose che si fanno, prima di discuterne, mentre invece tanti uomini continuano ad alzare muri di parole senza neanche provare la minima pratica che farebbe loro aprire gli occhi su quanti condizionamenti subiscono dalla loro stessa idea di maschile. Smettere di pretendere di avere un’opinione su tutto, non misurare quantitativamente il loro successo sociale, comprendere le differenze come opportunità facendo un passo indietro davanti alla loro autodeterminazione, ascoltare con rispetto quelle esperienze di genere che non si sono fatte o che non si possono fare, distruggere la barriera tra vita privata e vita pubblica che rende incoerenti, e che spesso trasforma in quella odiosa figura che è “il compagno sessista”. Queste abitudini permetterebbero loro di individuare effettive responsabilità sociali riguardo tutta una cultura, una simbologia, un immaginario maschile che illude di avere forme di superiorità, quando invece si tratta solo di abusi di potere. E il primo di questi abusi è per l’appunto credere di saperne abbastanza da giudicare i femminismi inutili, superati, “estremisti”, discriminanti.
*Lorenzo Gasparrini è autore, fra gli altri, del libro "Perché il femminismo serve anche agli uomini"
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