I movimenti e gli studi femministi “cancellati” dai libri di storia
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Le donne, non è un mistero, sono sempre state escluse dai manuali di storia. Il problema si è posto con forza negli ultimi anni, tra i vari tentativi di riscrittura di indici e canoni, programmi scolastici e manuali di letteratura. Ma se c’è una storia ancora più negletta di quella delle donne eccellenti, è quella del femminismo, fatta spesso di donne comuni e difficile da inquadrare e conoscere.
Prima di entrare nel vivo della storia del femminismo, bisogna provare a darne una definizione. È però utile partire da quello che ancora molte persone ritengono essere il contrario di femminismo, ovvero maschilismo. Si sentono infatti spesso frasi come “Non sono né femminista né maschilista”, come se queste parole fossero equivalenti e sancissero la preferenza per un genere su un altro. Secondo il vocabolario Treccani, maschilismo è un “termine, coniato sul modello di femminismo, usato per indicare polemicamente l’adesione a quei comportamenti e atteggiamenti (personali, sociali, culturali) con cui i maschi in genere, o alcuni di essi, esprimerebbero la convinzione di una propria superiorità nei confronti delle donne sul piano intellettuale, psicologico, biologico, ecc. e intenderebbero così giustificare la posizione di privilegio da loro occupata nella società e nella storia”. Questa definizione è importante perché chiarisce due dei più grossi equivoci sul femminismo: ci dice infatti che il termine maschilismo è successivo al termine femminismo, da cui peraltro deriva, e chiarisce inoltre che questa parola si riferisce a “comportamenti e atteggiamenti” che esprimono “la convinzione di una propria superiorità nei confronti delle donne” e la giustificazione rispetto a una “posizione di privilegio”.
Proviamo a mettere questa definizione a confronto con quella di femminismo offerta dall’enciclopedia Treccani: “movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne; in senso più generale, insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una collocazione sociale paritaria in quella pubblica”. La definizione mette in evidenza alcuni aspetti fondamentali:
- Il femminismo è un movimento di rivendicazione dei diritti, quindi è fatto di azioni politiche collettive, non di comportamenti e atteggiamenti di una singola persona;
- Il femminismo è un insieme di teorie critiche, che provano cioè a immaginare una realtà diversa e non a difendere una condizione di privilegio preesistente.
Ne deriva che maschilismo e femminismo sono due parole che non possono essere considerate in alcun modo equivalenti, perché la prima esprime una postura individuale che mira a mantenere lo status quo attraverso la supremazia di un genere sull’altro, mentre la seconda si riferisce a un movimento e a una filosofia politica che hanno una storia di cui si può individuare il punto di inizio.
Il fatto che il femminismo sia fatto sia di teoria che di prassi è una caratteristica molto importante per capirne gli sviluppi. Nella storia ci sono sempre state donne, artiste, intellettuali e filosofe che hanno ragionato sulla condizione femminile o si sono distinte per essersi opposte ai ruoli di genere. Pensiamo a Ipazia d’Alessandria, Giovanna D’Arco, Christine de Pizan o ad Artemisia Gentileschi, figure che oggi vengono considerate “icone femministe” ma che in realtà non facevano parte di un movimento con altre donne o non avevano un progetto politico in mente. È necessario l’arrivo dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese e della sua promessa di partecipazione dei cittadini alla vita politica perché in tutta Europa si avvii il dibattito sulla condizione femminile nella dimensione pubblica. Le figure più importanti di questa fase, che viene chiamata protofemminismo, sono in Francia Olympe de Gouges (1748-1793), autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791), modellata sul famoso documento rivoluzionario, e in Inghilterra Mary Wollstonecraft, autrice della Rivendicazione dei diritti della donna (1792) e tra l’altro madre dell’autrice di Frankenstein Mary Shelley. Questi due testi, scritti a un anno di distanza, sono i primi a porre il problema dell’uguaglianza giuridica tra uomo e donna, cioè a porsi il problema della donna come soggetto.
Questo problema diventerà ancora più urgente un secolo più tardi, con il consolidarsi delle democrazie liberali in Europa. Se da un lato infatti sempre più persone partecipano alla vita democratica, le donne continuano a esserne sistematicamente escluse. Nell’età vittoriana si è infatti consolidata una teoria detta “delle sfere separate” secondo cui all’uomo appartiene la sfera pubblica e politica, mentre alla donna quella privata e domestica: tutto, dall’abbigliamento all’urbanistica, risponde a queste due diverse esigenze. Per questo appare inammissibile non solo che una donna possa votare, prendendo parte alla vita politica, ma anche solo che abbia il desiderio di farlo. Tuttavia, alcune donne bianche e borghesi cominciano a reclamare questo diritto (anche perché, nel frattempo, diverse ex colonie inglesi hanno ottenuto il suffragio femminile) riunendosi in associazioni come la Women's Social and Political Union, fondata nel 1903 in Inghilterra da Emmeline Pankhurst. Già nel movimento delle cosiddette “suffragette” c’è quell’unione di teoria e prassi che caratterizzerà i gruppi femministi successivi: dall’elaborazione teorica e politica, all’immaginazione di un altro mondo possibile, le suffragiste affiancano un’intensa attività di rivendicazione, che si traduce anche in guerriglia urbana, con esplosioni di vetrine e cassette della posta e incendi. Nonostante la dura repressione, le inglesi conquistano il diritto di voto nel 1918 e le statunitensi (bianche) nel 1920. Anche l’Italia ha il suo movimento per il suffragio, la cui esponente di spicco è Anna Maria Mozzoni. Anche se nel 1925 le italiane ottengono il diritto di voto attivo alle amministrative, con le elezioni plebiscitarie del regime fascista le donne votano per la prima volta solo nel 1945 alle amministrative e nel 1946 per il referendum istituzionale e l’assemblea costituente.
Questa appena descritta è generalmente considerata la “prima ondata” femminista. Nel 1968 sul New York Times appare un articolo a firma di Martha Lear intitolato “The Second Feminist Wave: What do These Women Want?” che mette a confronto le rivendicazioni delle nuove femministe con quelle delle suffragiste. Nei primi anni Sessanta escono infatti due libri fondamentali che pongono nuovamente il problema della donna nella società, il saggio La mistica della femminilità di Betty Friedan (1963) e il romanzo La campana di vetro di Sylvia Plath (1962). Entrambi i libri, pur diversissimi anche nella forma, mettono in discussione il modello di realizzazione femminile e l’ideale della domesticità, scoperchiando quello che Friedan chiama il “problema inespresso” ("a problem that has no name"): durante la Seconda guerra mondiale, avendo ricoperto i ruoli dei mariti impegnati al fronte, le donne hanno conosciuto l’indipendenza economica e una vita diversa da quella del focolare. Ora che quei ruoli vanno riconsegnati agli uomini, la vita delle donne va riempita con qualcosa, e in particolare con la promessa di una nuova realizzazione nella vita domestica: non più sguattere e serve del marito, ma regine della casa, che diventa però una prigione dorata. La consapevolezza intorno a questo problema esplode con i movimenti di liberazione della donna come il Women’s Liberation Movement americano, che si concentrano su nuovi temi come il rapporto tra uomo e donna, il sesso, la maternità, l’aborto e la violenza di genere.
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L’eco di queste battaglie arriva anche in Italia grazie a delle conferenze organizzate dalla linguista Alma Sabatini, che all’epoca studia negli Stati Uniti e dal Partito Radicale. A queste conferenze partecipano anche Carla Accardi ed Elvira Banotti (famosa per aver incalzato Montanelli in tv sulla sposa bambina), che fonderanno nel 1970 uno dei primi e più importanti gruppi femministi italiani insieme a Carla Lonzi: Rivolta Femminile. Nel giro di pochi anni, l’Italia si anima di un ampio e articolato movimento femminista che agisce in dialogo o in aperto contrasto con i principali indirizzi politici. Esistono gruppi marxisti e comunisti, come il Collettivo di Via Pomponazzi, gruppi vicini al Partito Radicale come il Movimento di Liberazione della Donna e altri, come Rivolta Femminile, che si tengono lontani dalla politica ritenendola una pratica maschile. I temi vengono discussi in assemblee aperte alle sole donne che utilizzano la pratica dell’autocoscienza, che Sabatini descrive così in un articolo del 1975: “Un numero limitato di donne (dalle 6 alle 10) che si incontrano periodicamente (almeno una volta alla settimana) per parlare di sé, della propria vita, delle proprie esperienze. Non si fanno discorsi astratti, discussioni ideologiche. Queste presupporrebbero che noi sapessimo già quello che siamo e quello che vogliamo o che accettassimo le definizioni che la cultura maschile ha sempre dato di noi. Il principio è quello della «politica dell’esperienza»”.
Con l’arrivo degli anni Ottanta, il femminismo sembra vivere una battuta d’arresto. Nel giro di un decennio, molte donne raggiungono posizioni di potere nelle aziende e nella politica, da Margaret Thatcher alla prima presidente della Repubblica al mondo in Islanda, Vigdís Finnbogadóttir. Si comincia a parlare di postfemminismo: le donne sembrano aver ottenuto tutto quello che c’era da ottenere. Ma non tutte. Il femminismo nero e radicale di Angela Davis, bell hooks, Maya Angelou e Audre Lorde scoperchia l’esclusione che il femminismo bianco ha fatto delle questioni razziali sin dalle origini. Si comincia a parlare di intersezionalità delle lotte, un concetto coniato dalla giurista Kimberlé Crenshaw per descrivere la doppia discriminazione vissuta dalle donne afroamericane, in quanto donne e in quanto nere. Oggi con "femminismo intersezionale" si intende quindi un femminismo capace di individuare e combattere le intersezioni fra i vari assi di potere, tenendo insieme genere, classe, razza, orientamento sessuale e abilità. Intanto, il movimento delle donne trova legittimazione nelle università, con il fiorire degli studi di genere, queer e postcoloniali, e nelle istituzioni, con l’attenzione sempre maggiore verso la parità da parte di organismi come l’Onu o il Fmi, con risultati non sempre positivi. Nel 1990, la testimonianza in diretta tv di Anita Hill contro il giudice candidato alla corte suprema Clarence Thomas, accusato di averla molestata sessualmente, fa parlare di una terza ondata sulle pagine di Ms. Magazine, la storica rivista femminista co-fondata da Gloria Steinem nel 1971.
La terza ondata parla a una nuova generazione di donne e si diffonde con la musica delle riot grrrl e le zine autoprodotte. L’ingresso del femminismo nella cultura pop lo proietta nella dimensione in cui lo conosciamo oggi: con l’esplosione di Internet e dei social network, nel nuovo millennio il femminismo arriva a una quantità di adolescenti e giovani donne mai raggiunta prima. Oggi è un fenomeno complesso, articolato, che tiene insieme popstar milionarie come Beyoncé e movimenti globali come Non Una Di Meno. Si muove in un contesto profondamente diverso da quello delle origini, ma i temi restano sempre gli stessi: come le suffragiste osavano portare i loro corpi in piazza strappandosi da quel ruolo domestico che era stato loro assegnato, così oggi i temi più sentiti riguardano proprio l’orizzonte del corpo, del desiderio e della sessualità, come dimostra ad esempio il #MeToo o tutto il dibattito sull’identità di genere.
Finora abbiamo parlato di ondate del femminismo e quella appena descritta generalmente è considerata la quarta. Ma alla luce di quello che abbiamo detto, è giusto chiamarle così? Un’ondata è qualcosa che va e viene, mentre il femminismo ha una presenza costante nella storia recente, anche quando non sembra, e per questo da tempo ci si interroga se si tratti della metafora giusta. La principale obiezione è che identificando ogni ondata con una serie di valori, da un lato si perde di vista il filo continuo che accompagna il femminismo della storia, dall’altro si riduce l’importanza delle lotte concrete. Inoltre, la suddivisione delle ondate risponde a una visione biancocentrica e americanocentrica: le donne afroamericane, ad esempio, non hanno affatto ottenuto il diritto di voto durante la prima ondata, ma quasi agli albori della seconda.
Come scrive la filosofa Rosi Braidotti, il femminismo è un’attività molecolare, fatta non solo o non tanto da un susseguirsi di figure, azioni esemplari o conquiste, ma da un grande sforzo collettivo, teorico e pratico insieme, senza gerarchie e senza capi. Più che ondate, quindi, la storia del femminismo è fatta di particelle difficili da classificare o da riunire sotto un’unica definizione. Per usare un’altra bella formula della filosofa, è gioiosa creazione di atti di insurrezione.
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- bell hooks, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata, Tamu 2021
- Silvia Federici, Calibano e la strega, Mimesis, [1998] 2012
- Paul B. Preciado, Manifesto controsessuale, Fandango, [2000] 2020
- Rosi Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, Luca Sossella Editore, 2002
- Nancy Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi del neoliberalismo, Ombrecorte, 2014
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