Il femminicidio di Saman Abbas, le distorsioni del dibattito pubblico e la strada dell’alleanza
11 min letturaAggiornamento 6 gennaio 2022: Il corpo ritrovato il 18 novembre 2022 a Novellara, nei pressi dell'abitazione di famiglia appartiene a Saman Abbas. A confermarlo è l'avvocata Barbara Iannucelli, che assiste l'associazione 'Penelope' ed è parte civile nel processo che a febbraio inizierà a carico di cinque familiari della giovane pachistana uccisa la notte del 30 aprile 2021. L'identificazione è stata possibile da un'anomalia dentaria, grazie a foto e video", riferisce la legale. "L'osso ioide è fratturato nella parte sinistra e sono necessari accertamenti istologici per stabilire se questo sia avvenuto pre o post portem", continua l'avvocato. La frattura dell'osso, nella parte anteriore del collo, avvalorerebbe l'ipotesi di strangolamento da parte dello zio, come sostenuto dall'accusa. “Il 17 febbraio è stata fissata un'udienza per le conclusioni dell'anatomopatologa Cristina Cattaneo, ma non so se sarà confermata. La dottoressa potrebbe chiedere una proroga", ha aggiunto l’avvocata.
Per la morte di Saman Abbas sono imputati cinque familiari della 18enne: il padre Shabbar (arrestato in Pakistan e in attesa di estradizione), la madre Nazia Shaheen (latitante), lo zio Danish Hasnain e i cugini Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, questi ultimi in carcere in Italia. Tutti devono rispondere delle accuse di sequestro di persona, omicidio volontario e soppressione di cadavere.
A partire dalla drammatica storia di Saman Abbas, vorrei contribuire a una più ampia riflessione. Premetto che scrivere questo articolo è stato estremamente difficile perché da una parte mi carica dell’enorme responsabilità di provare a parlare di temi divisivi (per la superficialità con cui se ne parla solitamente), e dall’altra parte mi impegna a sviscerare, se pur parzialmente, un alto grado di complessità. E dietro alla parola complessità spesso ci si nasconde e ferma. Urge iniziare a entrare, invece, nel merito.
Con questo articolo vorrei provare a prendere in esame alcuni punti che reputo importanti e vorrei far emergere alcuni dei nodi che spesso spostano il dibattito sul piano sbagliato, o comunque non utile:
- La distorta narrazione su Saman “e dintorni”
- Come questi episodi tragici risvegliano sistematicamente l’interesse verso “mondi sconosciuti”, stimolando una componente emotiva, prevalentemente di paura, che richiama l’evergreen “scontro tra civiltà”
- Cosa vuol dire vivere da ibridi, spesso lacerati, tra due o più identità culturali (e non solo)
- Cosa si fa e cosa si dovrebbe fare per affrontare quei retaggi culturali che negano alle donne la loro libertà
- Quali sono i protocolli istituzionali che dovrebbero proteggere le Saman di turno?
È ormai nota quasi a tutti la storia di Saman. Ragazza di origini pakistane, arrivata in Italia da piccola, viveva a Novellara in una famiglia che restringeva il suo campo di libertà e autodeterminazione, a costo di farle del male pur di tutelare l’onore della famiglia.
Saman a tutto questo non si è voluta piegare: denuncia la famiglia e viene portata in una casa famiglia per minorenni. Dopo aver raggiunto la maggior età Saman, forse forte dei suoi diritti di adulta e forse illusa di potersi riconciliare un po’ con la famiglia, torna dai genitori, pare per recuperare dei documenti, perché Saman voleva andarsene con il suo ragazzo.
Sono dolci le conversazioni tra i due fidanzati che si mandano messaggi progettando una nuova vita insieme, dolcezza che viene spezzata quando Saman, una volta a casa della famiglia, capisce che le sarebbe potuto succederle qualcosa di terribile. Il fidanzato di Saman preoccupato per lei a febbraio aveva avvisato i carabinieri che, secondo quanto emerge dalla ricostruzione e testimonianze dello stesso riportate dalla trasmissione "Chi l'ha visto?" su Rai 3, avevano sminuito il pericolo.
Già da questa prima ricostruzione emergono elementi che portano a farci delle domande: perché Saman non è stata accompagnata a casa dei genitori dagli operatori che la seguivano? Perché le istituzioni che conoscevano il suo caso non hanno provveduto a rifare i documenti alla ragazza senza che dovesse tornare nel luogo da cui era scappata? Perché la denuncia del fidanzato sarebbe stata inascoltata?
Se questi passaggi fossero andati diversamente forse Saman sarebbe ancora qui, e non possiamo non domandarci se c’è stata qualche (ir)responsabilità da parte di chi doveva proteggerla.
Eppure il dibattito principale si è appiattito su altro piano. Sulla cultura di origine e religione di Saman e sull’incompatibilità di queste con i valori occidentali, i presunti veri colpevoli di tutto questo.
Di fatto una semplificazione pericolosa che finisce per stigmatizzare e processare una intera comunità, anzi più di una, ed una intera religione e i suoi fedeli.
Nulla di nuovo, succede ogni volta che avviene un fatto di cronaca nera che ha come protagoniste persone di origini straniera, marcando lo stigma religioso se sono musulmane. In scena va il solito copione: banalizzazione, semplificazione, strumentalizzazione della tragedia che va a sostenere la narrazione dello scontro di civiltà e o incompatibilità tra la civiltà e cultura occidentale vs l’incivile e retrograda cultura del paese di turno e o dell’Islam più in generale. Una modalità semplice che funziona perfettamente.
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Ciò che avviene è l’appiattimento del dibattito che non permette di approfondire né di capire né tantomeno di trovare o proporre soluzioni a criticità esistenti. Diventa difficile raccontare cosa sia accaduto senza cadere nel relativismo culturale da una parte o nell’intolleranza tout court dall’altra.
Analizzando il caso di Saman Abbas notiamo che decine di trasmissioni, articoli di giornale, telegiornali hanno enfatizzato la narrazione della “ragazza che voleva vivere all’occidentale” e per questo è stata uccisa dalla famiglia. Si è spesso fatta passare l’idea che Saman avesse un fidanzato italiano che i genitori non volevano e che lei volesse scappare alla cultura dei genitori cercando rifugio in quella italiana. Una narrazione funzionale alla tesi prima citata che vorrebbe “buoni vs cattivi”.
La realtà, invece, dice che Saman era fidanzata con un ragazzo pakistano che amava, con il quale addirittura non escludeva l’opzione di tornare a vivere in Pakistan, stando sempre a quanto riportato da "Chi l'ha visto?". Saman teneva alla sua religione, la invocava spesso anche negli audio con il fidanzato ventunenne e non rinnegava la cultura pakistana.
La realtà dice che Saman è stata vittima di femminicidio in un quadro familiare di adesione a un modello patriarcale, misogino e maschilista, in cui l’onore della famiglia viene prima di tutto, a costo della vita, dove spesso l’onore è incarnato dall’adesione della donna a certi standard etico-morali.
Eppure Saman cercava l’equilibrio tra “i suoi due mondi” perché sapeva che si poteva essere altro rispetto alle pretese di una cultura o dell’altra. Voleva “solo”, con tutta se stessa, poter scegliere chi essere: Saman rifiutava certi retaggi culturali che sono, sì, diffusi in alcuni strati culturali del paese di origine. Li riconosceva come sbagliati perché limitanti della libertà individuale e sapeva che in molte altre fasce socio-culturali, nello stesso suo paese di origine, non sono accettati. In Pakistan, per esempio, la legge condanna e vieta i matrimoni forzati e i delitti d’onore, quindi il Pakistan formalmente ammette che sono pratiche da superare e sbagliate. Di fatto, purtroppo, le autorità non sono sempre in grado di controllare le usanze repressive e costrittive ai danni delle donne in particolare. Possiamo dire che esiste una ipocrita tolleranza che non riesce a scardinare retaggi culturali millenari. Neppure la diffusione dell’Islam in quelle regioni, che tali pratiche le vieta, è riuscito a cambiare certe usanze, anzi, si è sviluppato un filone interpretativo che le avalla e o tollera, inglobando per esempio il sistema delle caste che ha origini ben più lontane ed è trasversale alle religioni del subcontinente indiano.
Qui si apre un enorme capitolo che riguarda due aspetti: la religione e le tradizioni culturali, e l’essere figli di immigrati che si trovano divisi e spesso lacerati tra due (o più) culture ed identità.
Parto dal primo aspetto: la religione e le tradizioni culturali.
Quando accadono fatti di cronaca nera dove i protagonisti sono musulmani si manifestano principalmente due posizioni. Da una parte, chi coglie l’occasione per trovare nell’Islam il capro espiatorio e il male assoluto, narrazione funzionale al già citato scontro di civiltà che legittima il discorso della superiorità culturale occidentale e le successive azioni restrittive verso i musulmani (si pensi ai continui dinieghi nei Comuni italiani per concedere spazi riconosciuti per moschee o sale di preghiera, alle leggi ad hoc per impedire l’apertura degli stessi; si veda la legge della Regione Lombardia del 2015 sulle attrezzature religiose più volte finita al Tar per passaggi incostituzionali; oppure la narrazione islamofobica che scatena intolleranza verso i musulmani, e così via).
Dall’altra parte, scatta d’ufficio la difesa dei musulmani che dicono “l’Islam non c’entra nulla è solo cultura”.
I sostenitori della prima posizione li vediamo spesso in televisione attraverso le figure di politici, opinionisti, giornalisti. Mediamente disinteressati al confronto e all'approfondimento ma solo allo show funzionale alla ricerca del consenso (elettorale, di share televisivo o ideologico).
I musulmani – che, legittimamente, si mettono sulla difensiva – commettono però, non di rado, un errore: pur di difendere la religione nell’appassionato tentativo di spiegare il senso originale dell’Islam che contrasta con certi retaggi patriarcali, dimenticano di ammettere che in alcuni paesi a maggioranza islamica ha prevalso comunque una interpretazione fanatica dell’Islam che avalla la discriminazione della donna e la negazione della sua libertà sposandosi perfettamente con tradizioni e usanze locali che vanno in quel senso. Quindi alla domanda: “L’Islam c’entra o meno con questi drammi familiari?”, come nel caso di Saman, si rischia di dire una evidente mezza falsità o verità, rispondendo di no.
All’interno di questo quadro di riferimento le comunità musulmane cosa fanno? Non c’è un modello unico da raccontare, ma diversi.
C’è chi è aperto al confronto e dialogo, promuovendo iniziative locali che coinvolgono istituzioni e cittadini. Sono comunità che si vedono parte integrante del tessuto sociale e promuovono progetti volti anche a superare e contrastare quei retaggi culturali che negano le libertà individuali e l’autodeterminazione. Per fare un esempio: a Milano nel 2016 è nata una associazione promossa da molte comunità islamiche locali, che ha come obiettivo il contrasto alla violenza di genere e discriminazione delle donne all’interno delle comunità. Un progetto che ha dato ispirazione a molte donne e uomini per occuparsi del tema. Progetto che trova collaborazione con istituzioni e realtà locali che si occupano dello stesso tema. Un modello sicuramente positivo di cui però si parla molto di rado. Perché?
Inoltre, per fare un altro esempio, sempre più imam e guide religiose sono impegnate a sollecitare i fedeli a rispettare quelle che sono le libertà individuali. C’è consapevolezza della necessità di lavorare su retaggi culturali che molti si portano dietro dai paesi di origine spesso cristallizzandone l’dea (idealizzandola), come forma di tutela della propria identità, perdendosi addirittura i progressi e i cambiamenti che avvengono nei paese di origine. Un progetto importante, che già nel 2007 era stato portato in Italia da alcune comunità islamiche, è quello del contrasto ai matrimoni forzati e o combinati. Tema su cui si fa sempre più attenzione anche grazie alle battaglie di tante e tanti che contrastano questa pratica tribale o di casta. Quanto spazio si è dato sui media per raccontare queste battaglie? Quante istituzioni locali hanno accolto il progetto? Zero. Io stessa lo proposi nel 2008 a Milano e fu scartato perché “è complicato da affrontare”.
Molto spazio mediatico, invece, si dà a quelle parti che si chiudono in una bolla autoreferenziale che respinge ogni confronto o cambiamento. Comunità dove prevale un atteggiamento omertoso quando accadono situazioni drammatiche in certe famiglie e si cerca di tutelare l’immagine e l’onore del gruppo non ammettendo né riconoscendo eventuali criticità interne che possono accadere: donne chiuse in casa dai mariti, violenze domestiche, figlie piccole a cui è imposto il velo, figli a cui si impongono gli schemi culturali familiari, ecc.
Come è intuibile da questi brevi accenni che ho fatto, raccontare l’estrema pluralità esistente nel mondo musulmano e la crescente complessità delle nostre società è un compito difficile. Salvo poche e ristrette iniziative culturali, sono poche le occasioni serie e costruttive di confronto, approfondimento su ampia scala. È così che prevale una distorta rappresentazione della realtà che allontana dal punto più importante: come prevenire, gestire e cambiare situazioni di criticità che possono anche diventare tragedie?
In tutto questo, in mezzo a tutto questo, si trovano i figli.
I figli di tante diaspore, tra loro diverse, ognuno con i propri bagagli identitari che presto o tardi dovranno confrontarsi tra loro e con la società di arrivo. Società che spesso li vede tutti uguali, tutti ridotti a cliché sostenuti da stereotipi e pregiudizi o semplicistiche mezze verità o mezze bugie.
Difficile “essere” in queste condizioni. Si è spesso lacerati nel profondo.
Così era Saman. Né pienamente di qua e né pienamente di là. Né pienamente accettata da una parte, né pienamente accettata dall’altra. Ci si trova, così, alla continua ricerca di un sé nuovo al di là di tutti e tutto.
Ibridi, ci chiamano. Noi figli di più culture. Forse lo siamo forse no. La definizione è relativamente importante. Ciò che importa, e oggi è sempre più forte, è la ricerca del cambiamento. Cambiamento di cosa?
Non ci si vuole solo svincolare da quelle abitudini tribali o di caste che molti genitori si portano dietro, ma ci si vuole trascinare verso una nuova dimensione inclusiva. Perché a volte, in certe comunità, non rispettare le tradizioni di origine o ribellarsi a esse può portare all’isolamento, all’esclusione dalla famiglia o dalla comunità.
Allo stesso tempo, la società italiana in cui si vive spesso non ti riconosce le tue battaglie, non riconosce la complessità dietro alla tua identità, non apre canali per avvicinare chi può essere ponte tra le parti. Quante occasioni mancate! Anche qui serve un cambiamento di prospettiva verso un noi allargato e condiviso.
Oggi come oggi quello che vediamo prevalentemente è un dibattito pubblico appiattito ai pro o anti-islam o ai pro o anti-stranieri o ai pro o anti-velo, eccetera. Inutilità allo stato puro.
Eppure una soluzione c’è e si chiama alleanza. Alleanza tra le parti per lavorare sui diversi fronti e poi farli incontrare. Alleanza per contrastare obiettivi comuni, il patriarcato, ad esempio, che non è certo esclusiva del subcontinente indiano o di certi paesi mediorientali o africani o asiatici… ce lo abbiamo anche qui ed è duro a morire.
Questa alleanza va fatta tra le comunità e le istituzioni, con sostegno di mediatori professionisti, terzo settore e qualsiasi altra parte che possa contribuire a costruire percorsi e progetti di conoscenza reciproca, di protocolli di tutela là dove si creano condizioni di pericolo. Serve una scuola più attenta al tema della pluralità, con antenne preparate a cogliere i problemi e attivare procedure efficaci.
Alleanze possibili e anzi già in divenire che hanno solo bisogno di visibilità, sostegno e istituzionalizzazione delle buone pratiche.
In questi giorni si stanno consolidando reti di confronto tra giovani provenienti dal subcontinente indiano che vogliono trovare soluzioni alle criticità diffuse nelle loro comunità di origine, che vogliono che si ammetta che ci sono problemi su cui bisogna lavorare, vogliono che le istituzioni li veda come fonte di ricchezza e strumento di risoluzione dei problemi. Reti di questo tipo già attive da anni ci sono anche tra giovani di altre origini.
Personalmente ho promosso gruppi di riflessione tra ragazze e donne musulmane per discutere di come affrontare e superare certi retaggi culturali ancora radicati in molte famiglie, come dire no a un matrimonio combinato o forzato, come trovare la strada dell’autodeterminazione cercando di non rompere con famiglie e comunità. Perché l’ideale è accompagnare le comunità a un nuovo livello di consapevolezza libero da usi e costumi che restringono le libertà, senza strappi definitivo che non contribuirebbero a un dibattito interno necessario per un cambiamento. Alleanze.
Martedì 22 giugno alle ore 17.45 dal mio profilo Instagram parlerò di tutto questo con voci di giovani pakistani e non solo. Una occasione di ascolto per molti che vogliono conoscere e capire.
Perché per costruire alleanze più ampie è necessario un esercizio profondo di educazione alla conoscenza e alla complessità che cambi lo sguardo di chi deve approcciare la pluralità, ovvero tutti noi.
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Immagine in anteprima via Radio Onda D'Urto