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Femminicidi in Italia: tutte le crepe di un sistema che non tutela le donne

24 Novembre 2023 12 min lettura

Femminicidi in Italia: tutte le crepe di un sistema che non tutela le donne

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Solo pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, il numero delle donne vittime di femminicidio in Italia è aumentato ancora: Rita Talamelli, 66 anni, è stata uccisa da suo marito Angelo Sfuggiti, che è poi stato arrestato e accusato di omicidio volontario. Dall’1 gennaio al 19 novembre 2023, il ministero dell’Interno conta 106 vittime donne di omicidio volontario, di cui 87 in ambito familiare e affettivo. In 55 casi a uccidere è stato un partner o l’ex partner.

Sono numeri che, a differenza degli omicidi, restano costanti e non diminuiscono nel tempo. Mostrando così come non si possa parlare di eccezioni e di casi isolati, ma piuttosto di un problema sistemico, che richiede misure concrete e a lungo termine. In seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin, in tanti - dalla politica alla società civile - hanno richiesto un inasprimento delle pene per far fronte al fenomeno della violenza di genere e una maggiore educazione al rispetto nelle scuole. 

Il problema degli approcci di emergenza

Il governo stesso ha avanzato delle proposte: un disegno di legge che rafforzi il Codice Rosso, un piano per le scuole superiori e un opuscolo informativo sulle ‘spie’ che potrebbero indicare “un possibile aggravamento di violenza”. Cinzia Marroccoli, consigliera nazionale della rete dei centri antiviolenza D.i.Re., ha spiegato però a Valigia Blu l’inefficacia di queste operazioni: “È come se si volesse lavorare sempre sull’emergenza, a partire da una situazione di emergenza, come nel caso della morte di Giulia Cecchettin, e da lì si improvvisa qualcosa”. 

Parlando nello specifico della scelta di rafforzare il Codice Rosso, ad esempio, Marroccoli l’ha definita “una presa di posizione securitaria, che non è altro che un’operazione di restyling, di facciata, per fare vedere che si sta facendo qualcosa, ma poi alla fine non cambia niente, perché non è questo il modo per cambiare le cose. Le leggi in Italia ci sono, ma non vengono applicate, per cui si va a intensificare qualcosa che non viene poi comunque messo in pratica”.

Anche il piano pensato per le scuole superiori ha diversi problemi per chi lavora con persone vittime di violenza di genere. Presentato mercoledì 22 novembre dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, il progetto Educare alle relazioni prevede gruppi di discussione, campagne informative e attività di sensibilizzazione, per una durata di 30 ore complessive. Non si tratta di un’iniziativa obbligatoria per le scuole, che infatti potranno aderire su base volontaria, e le attività verranno svolte al di fuori dell’orario scolastico. 

Più incisivo nelle parole del ministro che nei contenuti, che infatti risultano vaghi e approssimativi, questo piano sarebbe stato stilato anche grazie al coinvolgimento di associazioni di genitori, sindacati, studenti, docenti e giuristi pedagogisti, ma non di persone esperte di violenza di genere: “Si è pensato di creare questo progetto senza interpellare chi lavora in questo campo da anni e quindi poi il risultato sarà quello che sarà”, ha detto la consigliera Marroccoli. 

Educare alle relazioni era già stato pensato a settembre, dopo gli stupri avvenuti a Caivano e Palermo, salvo poi essere messo da parte poco dopo. A coordinare il gruppo di lavoro era stato chiamato Alessandro Amadori, psicologo, saggista e docente universitario che si è sempre interessato soprattutto di indagini di mercato, management e politica. Tra il 2018 e il 2019 è stato Consigliere per l’analisi politica e sociale della vice presidenza del Consiglio dei Ministri, occupandosi, tra le altre cose, anche di fare ricerca su violenza di genere e femminicidi, senza però una formazione sul tema, stando al suo curriculum. 

Amadori è anche co-autore di La guerra dei sessi. Piccolo saggio sulla cattiveria di genere, in cui la violenza di genere viene ricondotta a cattiveria. La quale, si legge, appartiene tanto agli uomini quanto alle donne. Anzi, mentre la violenza maschile è un “fatto assodato”, conosciuto e “di dominio pubblico”, di quella femminile si parlerebbe ancora poco: “dalle caratteristiche per molti aspetti complementari a quelle della cattiveria maschile”, la cattiveria femminile sarebbe infatti “molto meno nota e studiata, ma per certi versi davvero sorprendente per intensità e capacità distruttiva”. 

Nel testo si accostano la sopraffazione maschile e la “cerebrale e manipolatoria” guerra condotta dalle donne contro gli uomini; si mettono sullo stesso piano i femminicidi e le condizioni “precarie” dei padri separati; e si parla di “Ginarchia”, che gli autori definiscono un movimento femminista radicale che sosterrebbe la superiorità delle donne e lotterebbe per togliere il potere agli uomini: tutte argomentazioni che si ritrovano facilmente nei movimenti antifemministi e misogini della manosphere e tra i cosiddetti Men's Rights Activists (MRA). In conferenza stampa, il ministro Valditara ha affermato che nel libro di Amadori non ci sarebbe “una sola frase contro le donne in generale” e ha rimarcato la pluralità dell’iniziativa Educare alle relazioni. Date queste premesse, ha commentato Marroccoli, “temiamo fortemente il contenuto di questo progetto destinato alle scuole”.

Nei giorni scorsi si è inoltre parlato della possibilità di coinvolgere influencer e personaggi famosi per andare a parlare agli studenti delle scuole superiori: “Se vogliamo entrare e parlare nelle scuole di violenza di genere”, ha spiegato la consigliera della rete D.i.Re, “bisogna farlo in maniera corretta, e noi riteniamo che coinvolgere le operatrici dei CAV sia il modo giusto e corretto di farlo, perché da anni ci occupiamo di violenza di genere. Che si parli nelle scuole, dunque, ma che a farlo sia gente del settore e non consulenti improvvisati”. Lo stesso discorso, afferma Marroccoli, vale per l’opuscolo proposto dal ministro della giustizia, Nordio, sugli indicatori della violenza: sono concetti che “vanno spiegati bene. Se non diciamo cosa vuol dire ‘controllo’, cosa vuol dire ‘possesso’, il legame che c’è con la cultura patriarcale, quel vademecum sarà aria fritta”.

Nessuna proposta di formazione e prevenzione è stata invece fatta per le scuole elementari e medie (dove in futuro potrebbe essere esteso il piano Educare alle relazioni) né tanto meno per le generazioni adulte, dai luoghi di lavoro agli ambienti sportivi, che non sono affatto esenti da fenomeni di violenza di genere, nonostante il dibattito degli ultimi giorni abbia provato a ridurre il problema a una questione generazionale.

Le linee guida da applicare

Per contrastare la violenza di genere bisognerebbe allora intervenire in tutt’altro modo: “Il lavoro deve essere fatto su più piani, che sono tutti intersecati l’uno con l’altro”, sostiene Marroccoli. Il primo passo è riconoscere che il femminicidio è solo la punta dell’iceberg: la violenza di genere è infatti un fenomeno complesso, che si manifesta attraverso varie modalità come gli abusi sessuali, la violenza domestica, lo stalking, ma anche l’umiliazione e gli insulti sessisti e la negazione o l’assenza di servizi per la salute riproduttiva; è frutto della cultura patriarcale che fa sì che la relazione tra uomini e donne sia e resti impari, garantendo agli uomini una posizione di dominio e costringendo le donne in una di subordinazione. 

L’impatto della violenza di genere così come il suo rischio può inoltre variare sulla base dell’identità della persona che la subisce e dunque ad esempio della sua etnia, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere, dell’età. Per queste ragioni, linee guida internazionali suggeriscono sempre un lavoro trasversale, con il coinvolgimento di più attori in più ambiti. Approvazione di leggi adeguate, protezione delle vittime e prevenzione sono i principi su cui ogni governo dovrebbe muoversi per contrastare la violenza di genere. 

Fondamentale è dunque anche individuare e agire nei contesti in cui il rischio di violenza di genere è maggiore, come le forze armate, il carcere, i centri di detenzione per migranti, le scuole e le università, gli ambienti di lavoro pubblici e privati, così come formulare programmi specifici in caso di crisi, come recessioni economiche e disastri naturali, durante le quali il rischio di violenza contro donne e minori aumenta: è quello che è successo ad esempio durante la pandemia da COVID-19.

Per capire come mettere in atto queste misure in maniera adeguata, esistono strumenti e standard internazionali di riferimento. L’Italia, ad esempio, ha ratificato la Convenzione di Istanbul, trattato internazionale di contrasto alla violenza di genere, che non è solo importante poiché giuridicamente vincolante, ma anche perché offre un modello di azione efficace. 

Tra gli interventi previsti dalla Convenzione di Istanbul ci sono: garantire alle vittime di violenza informazioni chiare e accesso a servizi di supporto; investire nell’allestimento di case rifugio per le vittime e i loro figli; destinare risorse umane e finanziarie a programmi ed enti anche non governativi che si occupano di violenza di genere in tutte le sue forme; raccogliere dati e supportare la ricerca sul fenomeno della violenza maschile contro le donne; creare o sostenere programmi destinati a chi ha agito violenza domestica in un’ottica di riabilitazione; proteggere le vittime da ulteriori violenze, inclusa la vittimizzazione secondaria; includere materiali didattici su argomenti come parità di genere, ruoli di genere non stereotipati, rispetto reciproco e violenza di genere sia nei programmi scolastici di ogni ordine e grado sia in strutture educative informali, come centri sportivi e culturali e i media. 

“Le cose da fare sono abbastanza chiare, non c’è nulla da inventare, basta applicare la Convenzione di Istanbul: sono anni che lo diciamo”, ha detto Marroccoli a Valigia Blu. Nonostante l’importanza di questo strumento, la Convenzione è da tempo al centro di forti critiche da parte di movimenti religiosi estremisti e partiti conservatori, che sostengono che il trattato internazionale non rispecchi i loro valori e la loro idea di “famiglia”, ma che anzi promuova la cosiddetta “ideologia gender”. Di questa idea è ad esempio Carlo Fidanza, capodelegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo, che alla votazione per l’entrata in vigore della Convenzione in Unione Europea, si è astenuto insieme ad altri esponenti di Lega e Fratelli d’Italia, mentre Alessandra Basso e Susanna Ceccardi della Lega hanno votato contro

Fidanza ha infatti definito l’astensione come un modo per “ribadire la mia preoccupazione sulle tematiche legate al gender”. Questo ha portato la rete D.i.Re a rivolgersi a Giorgia Meloni per chiederle: “Lei è la prima presidente del Consiglio in Italia, un paese che conta una donna uccisa ogni tre giorni, che conta milioni di donne vittime di violenza maschile e che si colloca nella classifica sul Gender Gap del World Economic Forum al 63° posto. Che cosa ha intenzione di fare?”.

Il contrasto alla violenza di genere secondo il governo Meloni

Quello che ha intenzione di fare Meloni è chiaramente continuare a muoversi verso una direzione securitaria e repressiva, come dimostrano le ultime proposte e l’operato del suo primo anno al governo: il decreto Caivano, convertito in legge a novembre, ad esempio, inasprisce le pene per reati commessi da minori e, nonostante sia stato proposto in seguito al duplice stupro avvenuto nel napoletano a settembre, è stato presentato come strumento di contrasto al disagio giovanile e alla criminalità minorile.

Poco o nulla si è fatto invece sulla prevenzione, i cui fondi nell’ultimo anno sarebbero anche diminuiti, stando a un’analisi di ActionAid, che evidenzia inoltre come spesso in Italia le misure di contrasto alla violenza di genere prevedano la clausola di “invarianza finanziaria”, per cui non sono previsti ulteriori costi per la finanza pubblica. Un esempio di ciò è proprio il disegno di legge che rafforza il Codice Rosso approvato il 23 novembre e fortemente voluto dal governo dopo la morte di Giulia Cecchettin. Come ha detto Marroccoli, “si fanno delle azioni senza però voler metterci dei soldi”, per cui “rimane fuori tutto quello che invece comporta fare investimenti, come può essere la formazione”.

La mancanza di formazione e risorse

La formazione di tutti coloro che hanno a che fare col sistema dell’antiviolenza e dunque anche delle forze ordine è infatti una delle richieste che i centri antiviolenza fanno da anni e di cui negli ultimi giorni è emersa ancora una volta la necessità. Stando a quanto riportato dalla trasmissione Chi l’ha visto?, il padre di Giulia Cecchettin ha sporto denuncia alla stazione dei carabinieri di Vigonovo alle 13:30 di domenica 12 novembre, dal momento che Giulia non era rientrata a casa la sera prima e la sorella Elena l’aveva sentita per l’ultima volta attorno alle 22:45. 

Nella denuncia si legge che il padre ha ripetuto due volte di temere per “l’incolumità” della figlia, in particolare perché aveva saputo che anche l’ex fidanzato Filippo Turetta non era tornato a casa, e ha parlato di “eccessiva gelosia del ragazzo”, del suo essere “insistente e possessivo” e del fatto che non “avesse mai perso le speranze di tornare” insieme a Giulia. 

Inoltre, alle 23:18 della sera prima un testimone aveva chiamato i carabinieri perché aveva sentito delle urla di donna nel parcheggio di fronte casa sua. La Procura di Venezia starebbe indagando per capire se, in seguito a questa telefonata, c’è stato un intervento tempestivo da parte dei carabinieri, ma in un comunicato l’Arma afferma che non c’è alcuna indagine aperta. I carabinieri hanno anche detto di aver ricevuto “una sola telefonata da parte di un cittadino di Vigonovo che ha riferito di un’accesa lite tra una coppia di giovani con un’aggressione fisica ai danni della ragazza”, ma che non è stato fornito il numero di targa dell’auto dove i due erano stati visti risalire, e che nel frattempo era arrivata anche una segnalazione per rissa per cui è stato disposto il pronto intervento mentre un’altra vettura era impegnata in un incidente stradale.

 Solo il giorno successivo, con la denuncia di Gino Cecchettin, la telefonata del testimone è stata dunque riconsiderata e messa in relazione a Giulia. Nonostante la chiamata del testimone e le parole del padre, la tipologia della scomparsa di Giulia Cecchettin è stata registrata nella denuncia come “allontanamento volontario” e non è stato rilevato pericolo di vita. “È stato evidente fin da subito che non si trattava di una sparizione, che non era una fuga d’amore, come addirittura qualcuno aveva ventilato, ma che era un sequestro di persona”, ha detto Marroccoli, commentando la vicenda.

Di “formazione adeguata e omogenea degli operatori che a diverso titolo entrano in contatto con le donne vittime di violenza” si parla anche nel nuovo disegno di legge contro la violenza di genere, ma il problema ruota sempre attorno a chi se ne occupa e ai contenuti che veicola. Secondo Marroccoli, è necessario che la formazione venga fatta “sempre con la collaborazione dei centri antiviolenza, data l’esperienza anche trentennale che abbiamo in questo ambito”. Inoltre, “noi chiediamo anche finanziamenti adeguati ai CAV, perché, anche se si fa finta di non sapere, c’è un problema molto serio che riguarda i centri. E poi c’è tutto quello che riguarda il cambiamento culturale che auspichiamo da sempre”. 

Per cambiamento culturale si intende mettere in discussione la situazione attuale, i privilegi e le disuguaglianze, i ruoli di genere, le dinamiche di potere e le varie manifestazioni di sopraffazione maschile, e agire in maniera concreta per superare le disparità. È la stessa Convenzione di Istanbul a considerare necessaria la promozione e la messa in atto di politiche che favoriscano l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne e la parità di genere nel suo complesso, in un’ottica di contrasto alla violenza di genere. 

Secondo Marroccoli, però, in Italia si fa fatica ad andare alla radice del problema: “Ormai tutti parlano di cambiamento culturale, ma anche qui non può essere un’operazione di facciata, uno slogan vuoto. In questi giorni, ho sentito da parte di molti una certa contrarietà all’espressione ‘cultura patriarcale’. Allora come si fa a dire ‘vogliamo un cambiamento culturale’ e poi avere una resistenza così forte al parlare di cultura patriarcale? Allora di quale cultura parliamo? Qual è la cultura che vogliamo cambiare?”, si chiede Marroccoli.

A fare fatica a parlare di cultura patriarcale e ad accettare la necessità di un cambiamento sono soprattutto le generazioni più adulte. Mentre è proprio tra i e le più giovani che qualcosa sembra stia cambiando. Dalle parole piene di rabbia e lucidità di Elena Cecchettin che restituisce alla società e allo Stato la responsabilità della morte di sua sorella e di tutte le altre donne vittime di femminicidio, al rumore con cui molti studenti hanno riempito il minuto di silenzio chiesto dal Ministero dell’Istruzione, alle manifestazioni e ai cortei che hanno invaso tante città italiane: “Mai come questa volta c’è stata una risposta fortissima da parte della società civile, ma soprattutto da parte dei giovani”, ha detto la consigliera della rete D.i.Re, “quindi forse sta cambiando veramente qualcosa nel sentire dei giovani e questo può essere un segno molto positivo”.

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Immagine in anteprima via Ansa

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