Mykhailo Fedorov, il ministro di Zelensky che ha riscritto le regole della resistenza digitale
27 min letturaIl volto della resistenza ucraina all’aggressione russa è, lo sappiamo, il presidente Volodymyr Zelensky. È lui, si è letto in svariate analisi nei primi mesi dell’invasione, il motivo per cui il piano di Vladimir Putin di conquistare Kyiv e l’Ucraina tutta in un blitz è fallito.
Lui con le sue testimonianze e dirette sui social media, il suo sapiente uso delle dinamiche comunicative online, il suo talento di attore consumato — utile ora per infondere forza e speranza nel suo popolo, martoriato dalle bombe e dai crimini russi. Lui il leader che, affiancato dalla first lady “influencer della resistenza”, ha saputo mutarsi in “eroe social”, passare da comico che veste i panni di presidente in una commedia tv a un “Churchill con l’iPhone” (parola di Jonathan Freedland sul Guardian).
Zelensky: l’uomo capace di contrastare, una buona volta efficacemente, la propaganda digitale del Cremlino, e così “vincere la information war” che, fino al 24 febbraio, sembrava dominio esclusivo o quasi di hacker, troll, bot e propagandisti di Putin.
Ma se Zelensky è il volto della resistenza, digitale e non, dell’Ucraina aggredita, il cervello — e la macchina — che la pensa e rende possibile è il suo ministro (e vice primo ministro), Mykhailo Fedorov. Comprendere come questo 31enne con un passato da digital marketer e militanza libertaria stia conciliando il suo ruolo di ministro per la Trasformazione digitale, creatogli su misura proprio da Zelensky ad agosto 2019, con quello di stratega al fronte della “Prima Cyber Guerra Mondiale” — così Fedorov chiama il conflitto in corso — è fondamentale. E non solo per meglio intendere le dinamiche e i possibili sviluppi della guerra di Putin all’Ucraina, quantomeno nel suo fondamentale lato mediatico-informativo.
Nelle idee del ministro-innovatore, infatti, c’è una vera e propria concezione dello Stato come “nazione digitale” che include proposte radicali per il futuro dell’amministrazione pubblica e della democrazia stessa. Soprattutto, c’è una ideale e insieme concreta linea di continuità tra le funzioni e gli strumenti della “nazione digitale” in pace e in guerra che aiuta a inquadrare le tante azioni di resistenza digitale dell’Ucraina all’interno di una logica più ampia, che parla anche dell’assetto del paese — e del mondo — dopo il conflitto.
In Fedorov, e lo vedremo nel dettaglio, ciò si traduce in un inedito miscuglio di soluzionismo tecnologico (l’idea che ogni problema sociale sia riducibile a problema tecnologico, da risolversi dunque per via tecnologica), tecno-entusiasmo e pragmatismo gravido di lezioni per chiunque intenda pensare il rapporto tra tecnologia e politica nel suo darsi concreto, al netto di retoriche che ragionano per pregiudizi, petizioni di principio e — troppo spesso — panici morali. Un impasto affascinante e insieme terribile, che ci consente di gettare uno sguardo su di un futuro in cui distinguere tra guerra e pace, militare e civile, e usi militari e civili delle nuove tecnologie è sempre più complesso.
Perché se Fedorov è stato chiamato al governo del suo paese, in un momento così grave della sua storia, per “mettere l’Ucraina nello smartphone”, digitalizzando — e in futuro automatizzando — il 100% dei servizi della pubblica amministrazione, ora l’invasione lo ha mutato, secondo l’efficace definizione di Wired, in una “formidabile macchina da guerra”.
Questo comunica, al fondo, il progetto di Fedorov per l’Ucraina: che una nazione digitale è anche una nazione capace di difendersi da qualunque invasore. Dalla Russia di Putin, in particolare, che rappresenta secondo Fedorov un modello superato, novecentesco, di gestione del potere: perché, giura il ministro ucraino, “i governi devono tendere a diventare sempre più simili a compagnie tecnologiche, invece di essere rigidi come carri armati”. Non è un “digital divide”, argomenta su Twitter, “ma un salto generazionale”.
While Ukraine is the first world’s country with digital ID that full legal counterpart of paper docs — russ army is restoring Lenin's monument in temporarily occupied city of Nova Kakhovka. It’s not a digital divide, but civilization gap. We will launch Leninfall 2.0 asap. pic.twitter.com/X0thjarxkQ
— Mykhailo Fedorov (@FedorovMykhailo) April 30, 2022
Come ripetuto più chiaramente da Fedorov, non a caso forse, a Davos, davanti ai potenti del mondo: “L’aggressione armata della Russia ha dimostrato che la digitalizzazione è critica non solo per ricostruire, ma anche per difendere un paese”.
La stessa attitudine all’innovazione che reca benessere, efficienza e comfort alla popolazione nella vita di tutti i giorni può — deve — essere sfruttata come un’arma, essenziale, nell’arsenale della Difesa e della sicurezza nazionale. Così, nell’esempio più eclatante, la stessa app che infila lo Stato nel cellulare, Diia, consente ora di segnalare spostamenti delle truppe nemiche sul proprio territorio, la presenza di infiltrati russi nella popolazione che resiste, o i crimini di guerra dell’esercito di Putin.
Il digitale è un’arma di benessere e insieme di resistenza di massa, dal basso, dice Fedorov con le sue idee e i suoi gesti concreti. È ora di vederle più nel dettaglio, cominciando dall’idea di “nazione digitale” e proseguendo al suo adattamento al contesto dell’invasione russa. Ma non prima di un’ultima avvertenza, uno spoiler forse: ciò che scopriremo, tramite la nostra indagine, è un completo ribaltamento di svariati assunti nella narrazione dominante del rapporto tra tecnologia e democrazia. Cattivi che diventano buoni, manipolazioni che lasciano (necessariamente) il posto a verità — perfino una sorta di ritorno della retorica dei social media come strumento di liberazione dei tempi della Freedom Agenda americana, e delle rivoluzioni arabe: ne vedremo abbastanza per scandalizzare chiunque sia convinto che la nostra sia un’epoca di inevitabile e inscalfibile “post-verità” a trazione Big Tech.
Che Fedorov abbia ragione o torto, che la resistenza ucraina vinca o perda, infatti, ciò che ha mostrato al mondo è importante, e sarà di certo oggetto di studi approfonditi per anni a venire.
Quelle che seguono sono dunque solamente note di passaggio, mentre la Storia va scrivendosi; si prega dunque il lettore di prenderle come tali.
L’Ucraina come “nazione digitale”: Fedorov prima della guerra
La nazione digitale al fronte della Prima Cyber Guerra Mondiale
L’esercito più grande del mondo è un esercito digitale
Il riconoscimento facciale va alla guerra: dentro il lato oscuro di Fedorov
L’Ucraina come “nazione digitale”: Fedorov prima della guerra
Ma chi è, Mykhailo Fedorov? Nato al tramonto dell’Unione Sovietica, nel 1991, in una piccola città della regione di Zaporizhzhia, somma fin da giovanissimo partecipazione, attivismo, spirito imprenditoriale, militanza politica e doti di leadership. Tra il 2009 e il 2014 studia alla facoltà locale di Sociologia e Management e, si legge sul suo profilo su Yes Ukraine, per tutto il percorso accademico è già “attivamente coinvolto nella vita sociale cittadina”, fondando anche il più nutrito collettivo giovanile della regione.
Segue corsi di imprenditorialità, scrive business plan, e — a quanto dice su Facebook — si interessa con passione al tema dell’imprenditoria giovanile, cui dedica anche articoli scientifici e la tesi di laurea. “Se vogliamo costruire un paese di imprenditori, e vogliamo”, dirà una volta divenuto ministro, “dobbiamo introdurre la materia in ogni scuola, in ogni università”.
Appena finiti gli studi arriva anche l’impegno politico vero e proprio, con un piccolo partito di orientamento libertario il cui principale scopo è tagliare drasticamente le tasse. Fin dal nome. Il partito, infatti, si chiama ‘5.10’ — dove il 5 sta per la percentuale ipotizzata per l’IVA, e il 10 per quella di tassazione dei salari, secondo la drastica riforma del fisco proposta.
Fedorov si candida alle legislative del 2014, ma non ha successo. Crea allora, l’anno seguente, una società di digital marketing, SMM Studio, il cui motto è mettere il turbo alle vendite ottenute tramite pubblicità sui social media. È grazie alla sua startup che viene in contatto con Zelensky, scrive il Kyiv Post: la società di produzione del futuro presidente, Kvartal Concert, ne diventa, infatti, cliente.
I due evidentemente si piacciono, perché quando poi Zelensky decide di smettere di interpretare la parte del presidente per diventarlo davvero è proprio Fedorov a fare da stratega alla sua trionfale campagna digitale.
Il passaggio a un ministero, tramite una struttura ad hoc creata dal presidente appositamente per Fedorov, è cosa di un attimo. Certo, lui ancora tentenna, per mesi non sa se presentarsi in pubblico come imprenditore o ministro — a un evento pubblico suscita l’ilarità parlando con entrambi i cappelli. Ma tutto sommato, pensa, non c’è alcuna differenza. Compone così un team che viene al 90% dal mondo del business, come rivela a giugno in occasione di un riconoscimento dal Creative Bureaucracy Festival, e “non ha mai lavorato prima in una struttura governativa”. Le formalità? Al bando, come nelle startup: “Semplifichiamo i servizi pubblici, creiamo lo Stato digitale, e cancelliamo giacche e cravatte”.
Imprenditore, ministro, ma anche padre — ha una splendida bimba e una moglie, con cui non esita a farsi ritrarre in pose inspirational, da set cinematografico — sono, nella logica di Fedorov, ruoli simili, che richiedono talenti e attenzioni simili.
Se il governo deve somigliare a un’impresa innovativa, allora ecco che il ministro deve essere buon manager («“Trova persone più brave di te in tutti i settori in cui vuoi crescere”: questo è il principio su cui ho costruito la mia attività imprenditoriale e intendo costruire quella da ministro», dice). E cosa distingue un buon manager da un buon padre? Non molto, dice Fedorov. “Un buon manager guida e istruisce la sua squadra. Il suo compito è rendere migliori le persone intorno a lui, aiutarle a crescere e avere successo. Con i figli è lo stesso”, chiosa al Kyiv Post.
Ma è lo Stato tutto a doversi (ri)costruire intorno all’innovazione, e all’innovazione digitale in particolare. È questo, del resto, il compito che gli affida Zelensky: portare “il paese dentro lo smartphone”.
Dietro lo slogan si cela una serie di obiettivi ambiziosi, che sembrano calcare le orme dell’Estonia — paese ritenuto modello di digitalizzazione dello Stato e dei servizi pubblici. Basta burocrazia e lungaggini di persona, dice Fedorov: i rapporti con la cosa pubblica si devono gestire tutti per via digitale, tramite siti e app (il che comporta, naturalmente, che tutto il paese deve essere connesso). Basta scartoffie: lo Stato deve diventare “paperless”, la documentazione — passaporti, patenti, assicurazioni, identificativi degli studenti, etc. — interamente smaterializzata.
Basta Stato, anche. “Più piccolo è lo Stato nell'economia, meglio è”, scrive Fedorov, preoccupato unicamente che quest’ultimo sia in grado di garantire il miglior ambiente di sviluppo possibile all’imprenditoria privata — e in particolare di quella per l’innovazione. Il ministro disegna infatti un regime anche più favorevole per le imprese innovative tramite l’iniziativa Diia City. Ovvero, uno spazio dove gli startupper e gli imprenditori tecnologici potranno “respirare”, senza preoccuparsi di “zone grigie” e di “conflitti tra ciò che è legale e ciò che è profittevole”, dove “le tasse non sono pressanti” e i contratti flessibili.
È del resto a suo dire l’impresa, e l’impresa tecnologica in particolare, il modello di governance di una democrazia efficiente e funzionante nel XXI secolo. “Il governo”, dice nel suo intervento a Davos, “deve diventare flessibile e mobile come una compagnia tecnologica, deve automatizzare tutte le funzioni e tutti i servizi, cambiare significativamente la propria struttura, ridurre del 60% gli ufficiali pubblici, introdurre privatizzazioni di larga scala e dare in outsourcing le sue funzioni”.
Ma è solo l’inizio. Mentre lo Stato diventa un servizio che “funziona in modo semplice e automatico”, frictionless verrebbe da dire, “come Uber o Booking”, il governo diventa e-government. Fedorov, tuttavia, non è un esperto della materia. Anzi, ammette di avere studiato e infine compreso il tema solamente nei mesi precedenti la nomina a ministro.
E si vede. Alcune delle sue estrapolazioni circa il futuro della democrazia nel digitale sembrano infatti essere uscite da un vecchio pamphlet di Gianroberto Casaleggio, più che dal cilindro di un vero e proprio innovatore. Al Personal Democracy Forum Ucraina 2021 gli viene per esempio chiesto di parlare delle principali tendenze per la democrazia digitale: Fedorov, senza esitazione, risponde che il futuro appartiene al voto elettronico. “Ne sono certo al 100%”, dice convinto, nonostante l’ipotesi sia estremamente controversa: “il futuro appartiene alle elezioni elettroniche e digitali. Ci vorranno 5, 10 o 20 anni ma il presidente, i sindaci, i parlamentari saranno eletti con tecnologie di rete”, risponde.
Vano utopismo? Non solo. Dovremo abituarci a vederne i risultati concreti, ripercorrendo la carriera e le gesta di Fedorov. Se il suo teorizzare parla genericamente infatti di bilanci partecipati e “sondaggi di opinione di massa” svolti online per prendere decisioni “flash”, la pratica ha già visto 1,7 milioni di cittadini ucraini esprimersi senza apparenti intoppi sul tema del porto d’armi, con un voto tramite la app governativa, Diia.
Bisogna fermarsi un attimo a soppesare il numero: 1,7 milioni. Quasi due milioni di persone hanno potuto esprimere una preferenza su una app governativa a identità certificata, alla fine del terzo mese di resistenza a una guerra di aggressione che ha, tra i principali bersagli, proprio le infrastrutture delle telecomunicazioni del paese. È francamente stupefacente. Per convincersene, basti pensare che il sistema del Movimento 5 Stelle, studiato a livello internazionale, faticava a reggere poche decine di migliaia di voti online. E in tempo di pace.
Per Fedorov, ogni successo maturato dipende da una “visione” sviluppata precedentemente; dall’idea, cioè — che di nuovo accomuna l’attività manageriale e di governo, in pace e in guerra —, che prima di mettersi in cammino si debba avere salda nella mente la destinazione, e un piano per raggiungerla. Perché, scrive su Facebook nel marzo 2021, “Nessun uomo in tutta la storia ha mai realizzato qualcosa di grande senza prima riprodurlo nella sua immaginazione”.
Il ministro-digital evangelist è ossessionato dall’idea al punto di lodare un testo in materia dell’emiro di Dubai, Mohammed bin Rashid Al Maktoum: non esattamente un modello di democrazia, partecipata o meno. Ma tant’è. Oggi come ieri, è la “nazione digitale” la visione di fondo, ciò che va immaginato nel dettaglio — l’obiettivo e insieme lo strumento che Fedorov brandisce tanto nel consesso dell’economia che in quello della geopolitica.
Un concetto che incarna un “sogno manageriale” di gestione efficiente e collaborativa, ma al servizio di un altro, civile: quello della democrazia diretta digitale. Tradotto, significa massima trasparenza, massima apertura, massima partecipazione per garantire il governo più snello e più efficace possibile della cosa pubblica e dell’iniziativa privata. Fare dell’Ucraina l’hub tecnologico dell’est Europa.
Un sogno in cui i piani del ministero per lo sviluppo digitale del paese diventano sempre visibili su una dashboard pubblica, così che responsabilità, scadenze, bilanci e stato di avanzamento concreto di ogni progetto governativo siano consultabili in ogni momento.
Un sogno in cui ogni cittadino è sempre a un click di distanza dallo Stato — ma lo Stato non è a un click di distanza da lui.
Un sogno in cui la digitalizzazione è un passaggio epocale, di civiltà, come quello “dalla pietra al fiammifero”, dice Fedorov: un mutamento radicale “degli strumenti per ottenere un risultato”, al punto che tramite i nuovi strumenti digitali la corruzione che grava sul paese, lungi dall’essere un ostacolo, verrà a sua volta inevitabilmente abbattuta.
Perché questo, tutto sommato, interessa al ministro più giovane del governo ucraino: in perfetta posa da maker, portare risultati; essere ricordato, tra tutti i ministri, come “quello più efficiente”.
La nazione digitale al fronte della Prima Cyber Guerra Mondiale
Il 24 febbraio segna una cesura storica, secondo Fedorov. Con la sua aggressione totale e indiscriminata del territorio e della sovranità ucraina, Putin compie un salto di qualità rispetto alle pur mai sopite ostilità nel Donbas degli anni precedenti, e inaugura una nuova era.
È lui di fatto a dichiarare quella che il ministro comincia a chiamare, su Twitter e nelle interviste, “Prima Cyber Guerra Mondiale”: un conflitto che si combatte insieme nel mondo fisico e in quello digitale, con gli eserciti e gli armamenti regolari ma anche con i “telecom soldiers”, i soldati delle telecomunicazioni al lavoro per tenere online il paese durante i bombardamenti, con i “cyber soldiers” arruolati via Telegram nella prima vera e propria “IT Army” globale, e con la “intelligence civile” prodotta da ogni cittadino tramite Diia e le altre iniziative online fornite dal ministero di Fedorov.
Che, a questo punto, si trasforma in una macchina da guerra. In una esibizione di function creep da manuale, l’armamentario sviluppato in ottica di e-government e democrazia digitale diventa arma vera e propria nelle mani dei cittadini per resistere all’invasione russa. A questo modo, i milioni di individui arruolati nel progetto della “nazione digitale” vengono automaticamente arruolati anche nella difesa dell’Ucraina, soldati digitali in una guerra “ibrida” e “cyber” come mai prima d’ora.
È lo stesso Zelensky a sostenere che il 24 febbraio segni “l’inizio di una nuova realtà”. Ma è Fedorov ad aggiungere che quando “non c’è alcun libro, alcuna istruzione”, “alcuna strada battuta”, l’unica via è “costruirsene una, camminando”. Ovvero, creando nuovi prodotti di resistenza digitale.
Ecco dunque ritornare, nel contesto bellico e di difesa dall’invasore, i principi sviluppati per la “nazione digitale”. Se lo Stato, infatti, deve somigliare sempre più a Facebook, servizi come Facebook diventano essenziali per il mantenimento della sicurezza nazionale. E se Big Tech svolge un ruolo talmente enorme nelle nostre vite di tutti i giorni da essersi “intrecciata al tessuto sociale”, allora è la coesione stessa della società a dipendere da big Tech.
Da cui l’idea di Fedorov: se i russi fossero privati delle piattaforme e dei servizi digitali essenziali tutti, allora non potrebbero che (finalmente) ribellarsi al tiranno del Cremlino. “Una volta che si comincino a rimuovere, uno a uno, questi servizi dalle disponibilità dell’aggressore, allora avremo ottenuto di danneggiare davvero il tessuto della sua società, rendendo particolarmente scomodo a ogni cittadino vivere la propria vita di ogni giorno”, dice.
Fedorov chiama la strategia “digital blockade”, blocco dei servizi digitali, e dedica buona parte dei suoi sforzi — su Twitter, che ne costituiscono “la punta dell’iceberg”, e per vie formali — a cercare di persuadere i colossi tecnologici Occidentali e non a parteciparvi, uscendo dal mercato russo.
Per funzionare al meglio, tuttavia, il blocco dovrebbe essere totale. E non tutte le aziende sono d’accordo. In alcuni casi, l’opera di convincimento passa per pressioni pubbliche esercitate tramite il suo profilo Twitter; in altre tramite il ringraziamento di un’azienda concorrente che aderisce al blocco che diventa condanna e sprone per chi non lo ha ancora fatto (“perché non fate altrettanto?”); in altre ancora, c’è un puro e semplice shaming online dei soggetti tecnologici che ignorano le richieste dell’Ucraina — che secondo Fedorov dovrebbe spingersi fino ad apporre un’etichetta su ogni loro pagina web, recante la dicitura “questa compagnia non si fa problemi a supportare il massacro di civili in Ucraina da parte dell’esercito russo”.
Ma, nella maggior parte dei casi, le aziende ubbidiscono. Fedorov, da uomo del marketing, sa che anche le organizzazioni hanno come gli individui risposte emotive, e su quelle fa leva. A inizio guerra, per convincere il CEO di Apple, Tim Cook, a rimuovere i propri prodotti dal mercato russo, lo tagga su Twitter e gli scrive: “They kill our children, now kill their access!”. Dato che loro uccidono i nostri figli, tu levagli l’accesso ai tuoi prodotti, Apple. Funziona, e immediatamente i russi si ritrovano senza iPhone. Finito con Apple, passa a Samsung: perché non fai altrettanto?
Lo stesso con le piattaforme digitali. Prima ottiene che Twitter non accetti più nuovi account dalla Russia, poi subito chiede: cosa aspettate, Facebook e Instagram, a fare lo stesso? Quando Nick Clegg di Meta comincia a limitare l’accesso ai media di Stato russi, lo stesso Fedorov che aveva accusato Mark Zuckerberg di perdersi appresso alla costruzione del Metaverso mentre la Russia distrugge l’Ucraina, proclama: “Non c’è spazio per criminali nel Metaverso!”.
Fedorov poi non limita le sue attenzioni ai colossi tecnologici occidentali, ma si rivolge sapientemente anche a quelli cinesi, come i produttori di droni DJI e il colosso dell’e-commerce Alibaba, ottenendo a questo modo (pare, alcuni contestano) la sospensione delle vendite in Russia e Ucraina di droni dell’azienda cinese.
Insomma, un primo uso per la resistenza bellica degli strumenti digitali è “vincere i cuori e le menti” del mondo intero, spostando innanzitutto i colossi privati — coloro che nella visione di Fedorov sono più vicini al governo attuale degli affari del mondo — dalla parte della causa ucraina. Ma insieme l’ambizione è ancora maggiore: e cioè usare il digitale come strumento di pace, glorificando se necessario i colossi tecnologici come difensori della civiltà e della democrazia.
La propaganda di Fedorov comincia così a viaggiare con lo slogan “digital for peace”, il digitale per la pace, o anche “let’s build the peaceful digital future” (costruiamo un futuro digitale di pace). Ed è una mossa che contiene la sovversione di diverse retoriche dominanti.
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Una prima è quella che vorrebbe il digitale come necessario agente del male sociale, della menzogna e della manipolazione, nel pieno e totale servizio delle fake news, della post-verità e dei regimi che se ne nutrono per sopravvivere. Al contrario, per Fedorov è proprio il dominio sulla dimensione digitale — in guerra o in pace — a consentire benessere, efficienza, comfort, e insieme anche democrazia.
A questo ribaltamento, ne segue logicamente un altro. Lungi dall’esserne un nemico, Big Tech è un potente alleato della “nazione digitale”, in pace ma anche in guerra. Nell’esempio più simbolico ed evidente, l’Ucraina di Fedorov consegna un premio per la pace a Google, per avere durante l’aggressione russa dimostrato “il suo coraggio e la sua devozione alla libertà”.
Ma le richieste sono tutt’altro che simboliche. Proprio in virtù dell’enorme ruolo ottenuto nell’indirizzare la sfera del dicibile e il dibattito pubblico, i colossi tecnologici possono secondo Fedorov modificare le regole di moderazione dei contenuti, consentendo di andare oltre ciò che è normalmente consentito (per esempio, chiedere l’assassinio di Putin sulle piattaforme di Meta); rimuovere o limitare l’amplificazione algoritmica dei profili ufficiali e non di propaganda russa, promuovendo al contrario la visione ucraina del conflitto; diventare veicolo di svariate campagne di crowdfunding — anche tramite criptovalute e NFT — e crowdsourcing indispensabili a tenere alta l’attenzione del mondo sull’aggressione russa e insieme finanziare e organizzare in modo inedito e creativo la resistenza ucraina; e fornire addirittura la connettività, che di una “nazione digitale” è il battito cardiaco.
Il che spiega il rapporto stretto, forse troppo, tra Fedorov ed Elon Musk, che tramite il suo servizio di connessione satellitare Starlink — richiesto dal ministro, di nuovo, in un ormai celebre scambio via Twitter — ha tenuto e tiene online circa 150 mila ucraini, e dunque diverse città altrimenti sconnesse a suon di bombardamenti alle infrastrutture critiche del paese. Non ultime, Borodianka, Irpin e Bucha, precisano i video della comunicazione del ministero, attenta a veicolare il messaggio che perfino dove la guerra è stata più atroce e devastante l’Ucraina è già tornata online. Per una “nazione digitale”, ciò è sinonimo di restare in vita.
Ora, scrive il ministro tra un ringraziamento e l’altro, sono le 10mila stazioni di Starlink la nuova infrastruttura critica, la “soluzione smart e rapida” ai cavi di rete recisi dalle bombe. Musk, prima inutilmente cercato per mesi e poi convinto da un tweet, ci ha messo del suo: sfidando Putin a singolar tenzone, ma anche e soprattutto modificando le stazioni Starlink per far consumare a ciascuna così poca energia elettrica da poter funzionare tramite l’accendino presente in una automobile.
Anche Starlink è finita sotto cyber-attacco russo. Ma resiste. “Anche in tempo di guerra, l’Ucraina resta sempre online!”, esclama trionfante Fedorov, mentre dedica NFT a Musk, stringe affari col fratello Kimbal (già in ottica di ricostruzione, post-conflitto), e proclama — in un eccesso di vicinanza — endorsement ai progetti di conquista e rivoluzione di Twitter da parte del fondatore di Tesla.
È, essenzialmente, un altro ribaltamento di un pregiudizio: se prima del conflitto veniva comunemente dato per scontato che la Russia fosse una cyber-potenza tale da poter mandare offline un avversario come l’Ucraina, ora grazie alla tecnologia di Musk si prova al contrario che l’Ucraina, nonostante i ripetuti attacchi fisici e cyber, resta “in ogni caso” online — e che anzi, lo è più di prima, perché la connessione di Starlink è in alcune zone flagellate dal conflitto perfino più stabile e veloce di quella precedentemente disponibile.
Da stratega della comunicazione digitale, Fedorov conosce bene l’importanza di alternare i registri, sommare indignazione e richieste concrete a derisione, meme e forme creative di hacktivismo. Musk diventa così al contempo il referente di campagne di trolling istituzionale come quella che vorrebbe mandare Putin su Giove (dove c’è un sacco di terra libera da conquistare, e soprattutto ingenti riserve di gas!) e un tassello operativo essenziale nel farsi della resistenza digitale, giorno dopo giorno.
Resistenza che Fedorov, saggiamente, dettaglia di continuo: oggi Starlink ha reso possibile operare due cliniche mobili a Irpin; oggi una nuova stazione è stata sufficiente a dare energia a cinque villaggi nella regione di Chernigiv; e via dicendo.
E dire che tutto era cominciato, al solito, con lo shaming: “Mentre cerchi di colonizzare Marte, la Russia sta cercando di occupare l’Ucraina!”, aveva scritto Fedorov, nel famoso tweet con cui ha poi ottenuto l’uso di Starlink (in parte anche grazie a fondi USAID). “Mentre i tuoi razzi atterrano con successo dallo spazio, i razzi russi attaccano i civili ucraini!”.
Starlink service is now active in Ukraine. More terminals en route.
— Elon Musk (@elonmusk) February 26, 2022
Ora sono i droni ucraini a colpire bersagli russi, anche grazie alla connettività fornita da Starlink. Per molti, un passaggio cruciale nelle dinamiche del conflitto.
L’esercito più grande del mondo è un esercito digitale
In nessun campo tuttavia il ribaltamento delle convinzioni dominanti operato da Fedorov è più evidente che in quello del contributo dei social media all’attivismo democratico, anche in contesti di resistenza a un’aggressione militare, fisica e cyber.
È qui che la “nuova realtà” dipinta da Zelensky e Fedorov prende corpo, e rivela il suo fondo soluzionista, tecno-entusiasta, e insieme pragmatico, al servizio della resistenza democratica. Si prenda per esempio un video propagandistico condiviso dal ministro via Twitter lo scorso 24 maggio: è proprio questa molteplicità di usi delle piattaforme digitali e delle tecnologie di comunicazione “dal basso”, suggerisce la voce narrante, a caratterizzare i primi passi nel nuovo mondo, la via ucraina alla pace digitale — anche in guerra. “Per la prima volta nella storia”, proclama, “puoi costantemente fare a pezzi la propaganda” russa. “Puoi far prosperare il tuo paese nel digitale. Per la prima volta al mondo vengono date armi alle persone, e queste le prendono”, si dice, echeggiando la (controversa) retorica di Zelensky sugli armamenti come strumento di pace e sicurezza. Persone che “hackerano”, “scrivono codice”, “fanno la guerriglia” digitale, “creano”, prosegue il video. Sono “milioni” — e c’è "perfino Musk”. Risultato? “È l’esercito più imponente di sempre”.
Ci sono diversi aspetti problematici in queste affermazioni, su cui torneremo. Ma qui intanto è indispensabile spiegare cosa motivi tanto entusiasmo. Cosa giustifichi la credenza, diffusa, secondo cui grazie alle nuove tecnologie arruolate alla causa della resistenza ucraina è possibile battere, finalmente, Putin al suo stesso gioco: quello della propaganda.
La risposta sta nella somma di attività e iniziative di mobilitazione scatenate da Fedorov a partire dal 24 febbraio. E, naturalmente, nella straordinaria risposta del pubblico non solo ucraino, ma di buona parte del globo.
Diverse attività riguardano modi creativi per mantenere alta, a livello internazionale, l’attenzione sull’aggressione subita dall’Ucraina, e finanziare la resistenza degli aggrediti. Tramite la piattaforma UNITED24 promossa da Zelensky, per esempio, l’Ucraina raccoglie 25 milioni di dollari in donazioni in una settimana, che diventano oltre 36 dopo la seconda.
Con la campagna Aid for Ukraine, inoltre, si mira a raggiungere il mondo del “crypto”, e incoraggiare versamenti in criptovalute, o addirittura a donare o comprare NFT (non-fungible tokens) — anche d’autore, per esempio di alcuni dei principali sviluppatori del mondo del gaming. A volte, per invitare a contribuire, si ricorre all’estetica e ai meme propri di quel mondo. Come nella collaborazione con Everstake, che mischia crypto, crowdfunding e rap: “Invest in peace bro/that’s what we coo/invest in peace bro/it feels so good”, canta il materiale promozionale della campagna.
I contributi, come detto, non sono mancati. Ma concentrarsi sul mero aspetto monetario sarebbe un errore. Più importante, infatti, è sottolineare l’ennesimo ribaltamento dei pregiudizi digitali operato da Fedorov: questa volta, per il mondo del crypto. Considerato comunemente (e non senza ragione) un covo di speculatori, interessato al proprio conto corrente virtuale più che al benessere del pianeta o della collettività, il mondo del crypto diventa invece nella narrazione di Fedorov una comunità di resistenti e attivisti pro-democrazia, parte integrante di ciò che i libri di storia scriveranno sul conflitto.
E anche questa volta, la dimostrazione è pratica, ripetuta sistematicamente e soprattutto legata a doppia mandata a un’idea di “trasparenza totale” che dovrebbe divenire — insieme a parole come “coraggio”, “verità”, “libertà”, e “creatività” — tratto distintivo dell’operare ucraino sul digitale. Periodicamente infatti Fedorov illustra, tweet dopo tweet, i risultati concreti ottenuti tramite le donazioni, in criptovalute e non.
Ecco 13 veicoli corazzati nuovi di fiamma, comprati grazie alle cripto-donazioni (sono 100 dall’inizio del conflitto). Ecco i droni, gli “occhi per l’esercito” ucraino con cui la resistenza, secondo Fedorov, "vedrà e distruggerà ogni nemico”. Ecco 5.000 maschere antigas. Ecco tre veicoli ATV. Ecco 31 strumenti di rilevazione termica (“smart optics today — big victory tomorrow!”, twitta il ministro).
Insomma, Fedorov è molto attento a mostrare le conseguenze concrete dei gesti di solidarietà all’Ucraina espressi tramite le campagne digitali. È un’altra inversione radicale: l’attivismo online, per anni relegato a “slacktivism” in senso peggiorativo (ossia, attivismo da click e da divano), porta ora (prove alla mano) a contributi concreti ed essenziali per difendere la democrazia e l’Ucraina contro la dittatura dell’invasore Putin.
Il mondo del crypto “può salvare vite umane”, scrive Fedorov. Di più: con ogni donazione in criptovaluta si può aggiungere un ulteriore “chiodo alla bara del totalitarismo”, proclama il ministro; un contributo a “salvare il mondo libero dalla schiavitù”.
È un filo rosso, tenue ma da rilevare, che attraversa tutte le campagne di attivismo digitale per la resistenza ucraina, questa idea che siano tecnologie a risolvere problemi sociali e politici, perfino dovuti a una guerra di aggressione. Si pensi alla glorificazione di una chatbot Telegram come eVorog (“nemico elettronico”), che consente a qualunque cittadino ucraino abbia fatto l’accesso sulla app governativa Diia di “segnalare hardware militare, truppe, criminali di guerra e collaborazionisti in pochi click” alle autorità ucraine.
Per Fedorov, è “una soluzione efficiente e creativa per sconfiggere i russi”. O anche, “uno strumento efficace di intelligence pubblica (public intelligence)” — altro concetto che andrebbe, al contrario, problematizzato, dato che il rischio di mutare la app in uno strumento di delazione è elevatissimo. E che accade a chi fosse segnalato erroneamente dai 300.000 “coraggiosi” partecipanti come collaboratore del nemico russo tramite la chatbot? Anche queste valutazioni sono condotte in modo “trasparente”?
Insomma, tra “civil intelligence” raccolta dal basso per via digitale e civiltà del sospetto il passo resta breve, nonostante la nobile causa. E certo, tutto questo comporterà un volume inedito di prove, raccolte da semplici cittadini (anche tramite il sito) e dalla comunità dell’open source investigation per individuare — e si spera un giorno punire — crimini di guerra. Ma andrebbe comunque compreso più a fondo se sia davvero una buona idea trasformare ogni cittadino in un soldato, pur se virtuale, e fare di ogni strumento della “nazione digitale” una vera e propria “arma” da impiegare in guerra. “Guerra moderna — soluzioni innovative. App del governo — vero strumento di warfare”, riassume Fedorov, nell’ennesimo tweet che sembra rubato a un TED talk.
Eppure la giovane mente della propaganda digitale ucraina non ha alcun dubbio: le armi digitali vanno usate, da tutti e subito. Anche tramite eVorog, che per il ministro “è diventata un’arma digitale a disposizione di ogni ucraino nei territori occupati”, in cui ogni post diventa un “colpo”. E “ciascuno dei tuoi colpi in questo bot significa un nemico in meno”, aggiunge in pura vena soluzionista, su TIME. La resistenza digitale, insomma, ha una mira infallibile.
Non solo: tutte queste forme di resistenza digitale, insieme, rappresenterebbero secondo quanto detto da Fedorov sempre a TIME la dimostrazione che “questa guerra è stata il cambiamento più radicale nella warfare dalla Seconda Guerra Mondiale, quantomeno in Europa”. Anche nella cyber war, aggiunge, “abbiamo cambiato il manuale da un giorno all’altro”.
Che sia vero o meno sarà materia per gli studiosi negli anni a venire, ma già ora non si può fare a meno di segnalare qualche aspetto problematico dell’impalcatura digitale costruita da Fedorov a difesa dell’Ucraina. A partire proprio dalla mira della resistenza, e dalle tecnologie usate per acuirla.
Il riconoscimento facciale va alla guerra: dentro il lato oscuro di Fedorov
Che Fedorov non si facesse molti problemi ad adottare soluzioni biometriche era chiaro fin da prima del conflitto. La app del governo, Diia, vanta infatti una funzione di autenticazione tramite “un battito di ciglia”. Ma applicare il riconoscimento facciale in contesti bellici rappresenta un (inedito) salto di qualità — specie quando la tecnologia adottata è quella, a dir poco controversa, di Clearview AI.
È Fedorov stesso, come sempre su Twitter, a illustrare che cosa significhi, in concreto. Siamo nella città di Irpin, liberata dall’invasore russo. “Una donna”, racconta, “ha trovato una polaroid sotto al tappeto. L’aveva scattata un soldato russo, mentre derubava il suo appartamento”.
Al che ecco subentrare la magia di Clearview: “Abbiamo impiegato un solo minuto per identificare “l’amante dei selfie” con tecnologia a base di AI”, scrive Fedorov, che tende quando può a parlare genericamente di “AI” invece che, più nello specifico, di Clearview AI. È molto preciso sul soggetto identificato, in compenso, di cui il ministro fa nome e cognome, prima di aggiungere che si tratta di un 26enne di Rostov. Un giovane, dunque, definito “saccheggiatore e criminale di guerra” sulla base di un match con il database del software.
Non è ben chiaro come si siano stabiliti i rapporti tra le autorità ucraine e la compagnia di Hoan Ton-That; scrive Reuters che sarebbe stato proprio lui a offrire la sua tecnologia, in una lettera a Kyiv inviata subito dopo l’invasione russa. Del resto, secondo Ton-That, l’azienda dispone di oltre due miliardi di immagini di volti prelevate dal Facebook russo, VKontakte. Perché non usarle per riunire famiglie separate dal conflitto, identificare militari russi o rendere più semplici i fact-checking della propaganda del Cremlino?
Fedorov, di nuovo, non ha esitazioni: Clearview AI viene subito messa all’opera per identificare soldati russi caduti sul campo di battaglia, e notificare così le famiglie — reperite a loro volta setacciando le loro immagini facciali liberamente disponibili online e sui social — altrimenti ignare. È una “cortesia” che facciamo alle madri russe, dice il ministro. Ma certo, è significativo non sia altrettanto “cortese” con le famiglie dei soldati ucraini, per cui invece l’uso di Clearview AI non è previsto.
Soprattutto, quando si parla di riconoscimento facciale la decantata trasparenza scompare. Al contrario, in un’intervista a marzo con TechCrunch Fedorov dichiara senza problemi che “la maggior parte degli usi non sarebbe pubblica, qualcosa da poter condividere pubblicamente”. Restano, in compenso, i claim soluzionisti, come l’idea che il riconoscimento facciale “mostri il vero volto della Russia” (era piuttosto chiaro anche senza). E le applicazioni concrete: un mese dopo l’accordo, cinque agenzie governative ucraine dispongono di 200 profili per usare Clearview AI (ora tradotta in ucraino). Lo hanno fatto davvero, poi: in oltre 5.000 ricerche tramite il software, sono stati identificati prigionieri di guerra, militari deceduti e perfino semplici viaggiatori che facciano ingresso nel paese.
Fedorov dice che l’AI è utile a distruggere il mito della”operazione speciale” asettica, chirurgica, senza inutili spargimenti di sangue. Ma è davvero una buona idea sdoganare l’utilizzo di tecnologie che l’Unione Europea sta per regolare e mettere in alcuni casi al bando, specie in un contesto di guerra, in modo opaco e privo di reali controlli? C’è da dubitarne.
Si entra, a questo modo, nel lato più sinistro delle operazioni promosse da Fedorov. Che certo, sono utili — forse indispensabili — a mantenere in vita l’Ucraina, ma avranno inevitabilmente anche ripercussioni sul modo in cui verranno condotte le guerre del futuro. Del resto, “nel 2022 le moderne tecnologie sono una delle migliori risposte a carri armati, razzi e missili”, afferma.
Il problema è democratizzarle durante un conflitto. Chi controlla davvero l’operato dei 300.000 “cyber soldati” dell’esercito informatico (“IT Army”) chiamato a raccolta da Fedorov? Migliaia e migliaia di soggetti dall’affiliazione incerta, il cui unico collante sono canali Telegram, avulsi — scrive una preoccupata analisi su Foreign Affairs — alle regole e alle procedure che indirizzano l’operato degli ufficiali pubblici: è possibile garantire non finiscano per fare di testa loro, portando non verso una soluzione ma verso una escalation del conflitto? E un membro dell’esercito informatico, quello che per Fedorov “è il più grande del mondo”, è anche un membro dell’esercito e basta? Se il digitale è un’arma, chi lo brandisce come tale è un militare o un civile? E come cambiano le regole d’ingaggio, nei loro confronti?
Di nuovo, distruggere il mito degli infallibili hacker russi ha di certo un valore — anche storico. Ma sostituirlo con un altro, di una sorta di “cyber fronte mondiale” pronto a mobilitarsi a difesa della democrazia, potrebbe essere altrettanto fuorviante.
E ancora. Svariati esperti si sono chiesti se la strategia della “digital blockade” sia davvero percorribile. Non si finisce per relegare chi voglia alternative alla propaganda di Putin in un buio ancora più fondo di quello garantito da censura e repressione? E come si concilia la firma della ‘Dichiarazione per il Futuro di Internet’ da parte di Fedorov, e quindi la ferma credenza in una rete globale, libera e aperta, con l’idea di erigere un muro digitale tra la Russia e il resto del mondo?
Sempre ammesso, poi, che Big Tech possa davvero il peso nel conflitto che Fedorov le attribuisce — forse per eccesso di vicinanza, forse per deformazione professionale. E certo, si comprende la necessità della retorica, ma davvero ha senso chiedere ai CEO di Apple o Google di “fermare” la guerra, fermando i loro prodotti e servizi?
Il ruolo stesso attribuito al digitale in genere presenta aspetti problematici. Perché è vero, Fedorov è conscio che senza vittorie sul campo le vittorie digitali siano vane; ma insieme viene suggerita anche sempre l’idea che siano proprio queste ultime, a fare la differenza. “Questa strategia può funzionare meglio dei proiettili”, ha detto a Linkiesta.
E non è un caso, di conseguenza, se per il ministro-imprenditore nel futuro della democrazia c’è prima di tutto il digitale: la controversa, assolutamente problematica automazione totale dei servizi pubblici, e la altrettanto criticabile idea di trasferire le elezioni online ne sono solo gli esempi più lampanti.
Tratti che diventano anche più problematici quando si comprende che in Fedorov il soluzionismo si mescola non solo a un sano pragmatismo, ma anche a un forte — e molto meno sano — nazionalismo, che a tratti sa di discriminazione, pregiudizio.
L’Ucraina, tramite il digitale, diventa sinonimo di verità; la Russia di menzogna.
L’Ucraina digitale è coraggiosa: la cyber-Russia invece mostra solo il suo “vero volto”, quello di un esercito di “assassini e saccheggiatori”.
Chi sceglie di stare con l’Ucraina adottando la “digital blockade” sta con la “luce”; chi rifiuta, con “il male”, il lato oscuro.
Con il digitale l’Ucraina crea; la Russia, invece, distrugge (ed è “questa la differenza tra noi e loro”).
E no, la Russia “non merita di usare le tecnologie del XXI secolo”, dice Fedorov, come se queste ultime fossero intrinsecamente morali, costitutivamente inadatte a un paese aggressore. Del resto, sono sinonimo di una verità che non si può reprimere: come potrebbero mettersi al servizio di Putin?
È una visione manichea, e come tale necessariamente caricaturale, del contributo della tecnologia alla resistenza democratica. E i russi che cercano di superare le barriere imposte nel paese per informarsi davvero? E i giornalisti indipendenti che ancora cercano di dire qualcosa di vero, da dentro il paese? E le forme di resistenza digitale dei cittadini russi anti-Putin: non hanno diritto di esistere, mobilitarsi e proliferare tramite le nuove tecnologie, proprio come i cittadini del resto del mondo?
Domande complesse, prive di risposte, che per il momento è bene limitarsi a formulare.