Davvero le ‘fake news’ sono una minaccia per la democrazia?
4 min letturaIl 2017 è stato l’anno in cui media mainstream e politica hanno individuato nelle cosiddette ‘fake news’ una delle minacce più gravi alle democrazie moderne. L’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti ha spazzato via le certezze di giornalisti e analisti politici che avevano visto nella sua candidatura una ridicola provocazione quasi parodistica.
Purtroppo, lo stupore generale all’indomani delle elezioni, la timida autocritica dei media e le domande su come sia potuta accadere una cosa del genere hanno lasciato velocemente spazio a un capro espiatorio autoassolutorio: le ‘fake news’. L’argomentazione facilona e pigra che negli ultimi 12 mesi ha guadagnato spazio negli editoriali e talk show politici di tutto il mondo è che le ‘fake news’ sarebbero state determinanti nell’elezione di Donald Trump, nonostante non sia mai esistita alcuna prova che questo fosse vero e, anzi, i dati a disposizione portino a pensare il contrario.
Anche la Commissione Europea è scesa in campo e, a seguito di una selezione aperta, ha nominato 39 esperti del mondo dell'informazione per un nuovo gruppo di lavoro su notizie false e disinformazione online.
Oggi le notizie false sono il capro espiatorio di qualsiasi risultato elettorale che non soddisfi le aspettative di analisti politici ed editori di giornali. Come è possibile che questa narrazione fallace, priva di prove e separata dai fatti, abbia guadagnato tanta rilevanza nel dibattito pubblico mondiale? Probabilmente per gli stessi motivi che determinano il successo delle bufale: offre una spiegazione semplicistica a un problema complesso e si presta a essere un efficace strumento di propaganda.
Un nuovo studio pubblicato a gennaio da tre ricercatori americani – Andrew Guess della Princeton University, Brendan Nyhan del Dartmouth College e Jason Reifler della University of Exeter – ha analizzato il traffico online di un campione rappresentativo di 2.525 americani, aiutando a chiarire diversi aspetti relativi al consumo delle cosiddette ‘fake news’ durante la campagna elettorale americana del 2016 e ridimensionando, ancora una volta, l’effetto che queste potrebbero aver avuto sull’elettorato.
Una grande ma piccola nicchia di lettori
Nei mesi precedenti alle elezioni, un americano su quattro ha visto almeno una notizia falsa, ma i dati analizzati ci ricordano tre aspetti che non dobbiamo trascurare: 1) sebbene l’audience possa apparire notevole, si tratta di un sottoinsieme minoritario di americani; 2) sono persone che, nella maggior parte dei casi, avevano già una dieta informativa politicamente schierata, faziosa e di pessima qualità; 3) anche il lettore più accanito di notizie false consuma più notizie vere che ‘fake news’.
D'altronde, le 'fake news' pro-Trump e pro-Clinton rappresentano in totale solo il 2,6% delle notizie lette dagli americani durante il periodo elettorale. La disinformazione ha più a che vedere con l’estrema polarizzazione politica delle notizie che con la diffusione di notizie false create a tavolino (con fini economici o propagandistici).
Gli studi condotti fino a oggi dimostrano infatti che le persone, quando viene data loro la possibilità, hanno la tendenza a preferire informazioni che confermino le proprie convinzioni e aderiscano ai propri valori. Questa tendenza è stata riscontrata anche nel consumo di notizie false e la ricerca di Guess, Nyhan e Reifler conferma che l’esposizione alle notizie false è in larga misura selettiva.
E in ogni caso, come ricorda il ricercatore Duncan Watts, l’influenza che possono avere le 'fake news' sugli elettori è estremamente minore rispetto all’effetto disinformativo della copertura che i media hanno dato a certe storie, come per esempio l’uso del server privato per le email da parte di Hillary Clinton, un argomento apparso ripetutamente sul New York Times, sul Washington Post e su tutti i canali televisivi più importanti.
Chi sono i consumatori di notizie false
Nonostante nel periodo antecedente alle elezioni circolassero sia notizie false pro-Trump che notizie false pro-Clinton, lo studio suggerisce che gli elettori conservatori siano di gran lunga più esposti al consumo di ‘fake news’ di quanto lo siano gli elettori progressisti.
Inoltre, gli americani di età superiore ai 60 anni hanno molte più probabilità di visitare un sito di notizie false rispetto ai più giovani.
Il ruolo di Facebook nella diffusione della disinformazione è stato oggetto di dibattito nell'ultimo anno. Secondo questo studio, nel 22% dei casi Facebook è il sito da cui gli utenti accedono alle notizie false. Questo vuol dire che sebbene il social network sia una vetrina privilegiata per le ‘fake news’ (così come per qualsiasi tipo di informazione), nel 78% dei casi il consumo di disinformazione non passa da Facebook.
Brutte notizie per i fact-checker?
Il problema del fact-checking moderno è che chi legge notizie false solitamente non legge il fact-checking di quelle notizie. Lo studio conferma questa tendenza: “non abbiamo quasi mai osservato persone che leggono il fact-checking di un’affermazione specifica letta precedentemente in una notizia falsa”. Questo si deve probabilmente al fatto che anche il consumo di fact-checking è selettivo: un simpatizzante di Hillary Clinton cercherà i fact-checking sulle dichiarazioni di Trump, ma non su quelle del proprio partito di riferimento, e viceversa.
Come scrive Alexios Mantzarlis su Poynter, questo studio conferma una paura che i fact-checker avevano già da tempo: i lettori scelgono i fact-checking da leggere in base alla propria appartenenza politica.
Questa incapacità di centrare l'obiettivo può però sembrare più grave di quanto sia realmente, spiega lo stesso Mantzarlis: lo studio si concentra sui siti specifici di fact-checking, ma non tiene conto del fatto che anche i media generalisti hanno pubblicato con frequenza fact-checking durante la campagna elettorale o hanno commentato (anche in tv) le ‘fake news’ più eclatanti, quindi molti utenti potrebbero aver visto una correzione in questo modo, attraverso il mainstream. Inoltre, il lavoro dei fact-checker è, prevalentemente, quello di verificare affermazioni pubbliche (fatte da politici o pubblicate sui media generalisti) e non smascherare le ‘fake news’ virali pubblicate da siti faziosi e spesso sconosciuti (fatta eccezione di Snopes che concentra la sua attenzione proprio sulle bufale virali).
La buona notizia, quindi, è che le correzioni di molte notizie false giungono ai cittadini attraverso i media generalisti, che in alcuni casi investono energie proprie nello smascherare ‘fake news’ e in altri casi riprendono o completano il lavoro di fact-checker esterni.
Questo non esime i siti di fact-checking da una riflessione sull’impatto e sul target del proprio lavoro, ma dovrebbe per lo meno farci dubitare delle affermazioni allarmiste e riduttivistiche sull’inutilità del fact-checking che tanto vanno di moda. Ricordando che la verifica dei fatti è parte essenziale del giornalismo e vederla in chiave utilitaristica potrebbe essere un grave errore.
Foto in anteprima via Time