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Addio Facebook e Instagram: è ora di ricostruire le nostre case digitali

24 Gennaio 2025 23 min lettura

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Addio Facebook e Instagram: è ora di ricostruire le nostre case digitali

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24 min lettura

Questa non l’avevamo vista arrivare. Dobbiamo confessarlo. Quando abbiamo deciso di lasciare X, prima ancora delle elezioni della vittoria di Trump, allo stesso tempo abbiamo scelto di continuare a usare i social di Mark Zuckerberg (sì di Zuckerberg, inutile e ingenuo dire Meta, visto che l’azienda è totalmente nelle sue mani e nessuno può togliergli il controllo). Continuare a usare Facebook e Instagram non è stata una decisione dettata dal fatto che fossero privi di criticità. Ma siamo rimasti perché la proprietà non si era compromessa attivamente con il regime e l’ideologia trumpiana, ossia una visione brutale e spietata delle relazioni umane e dei diritti umani, una concezione del potere assoluta e autoritaria, un disprezzo per le più importanti istituzioni democratiche, una macchina propagandistica che non si fa alcuno scrupolo di diffondere disinformazione e fare leva sul linguaggio d’odio, anche se questo significa mettere in pericolo la vita di milioni di cittadini.

Poi è arrivato il video annuncio di Mark Zuckerberg. E tutto è cambiato. E attenzione non perché ha deciso di fare fuori il fact-checking di professionisti pagati da Meta. A suo tempo siamo stati sin dall’inizio molto scettici sull’operazione, nata sotto le pressioni di un dibattito confuso e controverso sulle fake news che avrebbero fatto vincere Trump nel 2016.

Va detto che Zuckerberg ha detto una serie di falsità sull’impatto del fact-checking, bollando il sistema usato da Meta come “censura”. Per farlo ha omesso report (interni o commissionati dall’azienda) che smentiscono quanto sostenuto nel video, mistificando sia il funzionamento del programma di fact-checking sia soprattutto le direttive che i fact-checker sono obbligati a seguire.

Per fare un paio di esempi molto semplici: prima di tutto i contenuti etichettati come “falsi” o “fuorvianti” non venivano rimossi, ma appunto etichettati come tali. Quindi non c’è mai stata di fatto nessuna censura. Semmai ne veniva contenuta la diffusione, limitandone la viralità. Ma chi ha mai detto che il diritto di parola debba coincidere con il diritto di reach, di raggiungere il numero più ampio possibile di persone? Inoltre esisteva ed esiste una lista di VIP intoccabili. Persone appartenenti a media, politica, spettacolo, una élite digitale che gode di una sorta di immunità da questo tipo di controlli.

Secondo quanto riportato da BuzzFeed News, nel 2019 Zuckerberg era intervenuto personalmente per proteggere gli utenti di estrema destra, tra cui il fondatore di InfoWars Alex Jones. Come riferito all'epoca dal un dipendente di Facebook: "Mark non ha gradito la punizione, quindi ha cambiato le regole", consentendo a un'ampia gamma di gruppi militanti di estrema destra di rimanere su Facebook e organizzarsi per l'insurrezione avvenuta il 6 gennaio 2021. L’assalto ha costretto poi l’azienda a intraprendere azioni più serie, ma molti di questi sforzi hanno avuto vita breve. 

Il punto cruciale non sono i regolamenti e i programmi (policy), ma le ragioni politiche e l'ideologia alla base di queste nuove regole (politics). Questa volta interessi economici e sistema ideologico sono allineati: assecondando Trump, Zuckerberg protegge i propri interessi e si libera della zavorra "liberal", popolata dai media e dai politici di sinistra che hanno sottoposto le piattaforme a dure critiche e pressioni. Aderendo alla visione di società ben rappresentata da Trump e dai suoi alleati, Zuckerberg può abbattere i costi, ottenere più engagement sulla piattaforma grazie al "libera tutti" e compiacere il nuovo imperatore sul trono.

“Invece di addossare la colpa ai fact-checker [di essere politicamente schierati, di aver fallito nella loro missione e di aver distrutto la fiducia più di quanto ne abbiano creata - NdR] - scrive sul Guardian Joan Donovan, assistant professor of journalism all’Università di Boston e fondatrice del Critical Internet Studies Institute - Zuckerberg dovrebbe semplicemente ammettere che sta cambiando le regole per riflettere l’agenda politica di Trump e che ottimizzerà gli algoritmi in modo che Trump possa costruire una base su Facebook e Instagram, dopo che Musk ha aperto la strada a X”.

Quello che oggi Zuckerberg descrive come una forma di “censura” nei suoi rapporti all’UE, erano secondo Meta “la base per prevenire la diffusione di disinformazione su larga scala” e ha costituto una parte fondamentale del suo approccio per garantire l’integrità del voto durante le elezioni europee nel 2024. 

Fa veramente ridere che Zuckerberg, pur di difendere questa sua scelta, sostenga che sia arrivato il tempo di tornare al Facebook delle origini per meglio difendere la libertà di espressione. Altro che libertà di espressione, la storia sulle origini di Facebook è tutt’altra. Il sito, che prendeva il nome dall’elenco degli studenti distribuito all’inizio dell’anno accademico, face book) fu lanciato nel 2004 da Zuckerberg insieme ad alcuni colleghi di università di Harvard. Un abbozzo di social network che invitava gli studenti a dare voti all’aspetto fisico delle studentesse dell’università. Per realizzarlo Zuckerberg entrò nel sistema di sicurezza dell’università copiando le foto dei tesserini. Una volta scoperto, ricevette un richiamo disciplinare e fu costretto a chiudere il sito. 

Le decisioni annunciate non garantiranno maggiore libertà di espressione. Anzi. Semmai segnalano un ritorno alle origini più misogine di Facebook. In un comunicato sul blog, Meta ha spiegato che le politiche di moderazione saranno allineate alla “discussione mainstream” in particolare su questioni di genere e immigrazione. Due argomenti su cui Trump e Musk hanno spinto moltissimo durante la campagna elettorale 2025. Per fare un esempio, va bene ora riferirsi alle persone LGBTQ+ come malate mentalmente, o denigrare gli immigrati.

Scrive ancora Joan Donovan: 

“È un segno rivelatore di tecnofascismo quando i nostri sistemi di comunicazione sono sconvolti da cambiamenti nel potere politico dopo ogni elezione. La protezione dei gruppi vulnerabili online continua a dipendere dalle ambizioni politiche dell’amministratore delegato o del proprietario delle piattaforme di social media. Questa è un’ulteriore prova che i social media non sono una macchina per la libertà di parola. Non lo sono mai stati. Invece, la moderazione dei contenuti è il prodotto principale dei social media, dove gli algoritmi decidono se un discorso è visibile, a quale volume e se ci sarà un contenuto che gli si oppone. Contrariamente a quanto sostiene Zuckerberg, non sono stati i fact-checker a rovinare i prodotti Meta. Sono sempre stati i responsabili di Meta delle relazioni con il potere politico a trasformare i social media in una nuova frontiera per le guerre culturali”.

La radicalizzazione di Mark Zuckerberg, padrone assoluto di Meta

L'interruzione degli accordi con Third Party Fact-Checking Program (3PFC) per ora riguarda solo gli USA, ma la strada sembra tracciata anche per l’Europa. A mio avviso unendo i puntini il quadro che emerge non lascia spazio a dubbi: siamo davanti a una adesione convinta a un sistema di potere e a una precisa visione politica.

Agli inizi del 2021, l’ex vice primo ministro britannico e capo degli affari pubblici di Meta, Nick Clegg, ha firmato la decisione di bannare Trump a tempo indeterminato dopo che Trump aveva utilizzato le piattaforme dell’azienda per promuovere un attacco al Campidoglio. Zuckerberg all’epoca disse che “i rischi di consentire al presidente di continuare a utilizzare il nostro servizio” erano “semplicemente troppo grandi”. Clegg è stato sostituito il 2 gennaio scorso da Joel Kaplan, un repubblicano di ferro, ex capo di gabinetto del presidente George Bush. Subito dopo il video annuncio di Zuckerberg, Kaplan si è precipitato da Fox News per festeggiare i cambiamenti nelle policy dell’azienda e, visto che c’era, ha fatto pure una sviolinata a Trump. 

Oltre a nominare Kaplan, Zuckerberg è volato a Mar-a-Lago per incontrare Trump; ha donato un milione di dollari al fondo per l'insediamento del presidente; ha fatto entrare Dana White – presidente della UFC, la principale organizzazione di arti marziali miste al mondo, e grande amico di Trump – nel consiglio d’amministrazione di Meta; ha ordinato la cessazione dei programmi di diversità, inclusione ed equità dell’azienda; e ha addirittura fatto rimuovere i temi LGBTQ+ di Messenger. 

Negli ultimi anni - scrive Leonardo Bianchi nella sua newsletter Complotti! - fiutando che il clima culturale negli USA stava cambiando, Meta ha imboccato diverse strade per intercettare lo zeitgeist (lo spirito del tempo). Prima ha penalizzato i link esterni, nel tentativo – riuscito, va detto – di rimuovere de facto i contenuti giornalistici. Poi ha depotenziato la moderazione dei contenuti problematici. Poi ha limitato quelli politici su Instagram, specialmente dopo il massacro del 7 ottobre e in vista delle presidenziali. E ora, per l’appunto, vuole dare più visibilità ai contenuti politici senza limitazioni di sorta.

Per il giornalista del New York Times Kevin Roose, che si occupa di tecnologia e cultura digitale, queste modifiche riflettono anche una netta svolta politica profonda e radicale di Zuckerberg. Scrive Roose:

“Un quarantenne ricco con una reputazione pubblica ormai compromessa si mette ad ascoltare Joe Rogan e inizia a sviluppare una passione per le arti marziali miste e altri passatempi ipermascolini, sviluppa un certo astio nei confronti della sinistra e dei media e alla fine si converte al conservatorismo MAGA”.

Lo scorso settembre il New York Times aveva pubblicato un profilo su Zuckerberg che, come scrive Paris Marx nella newsletter Disconnect, restituisce un quadro abbastanza chiaro su alcuni dei fattori che guidano il suo riallineamento politico:

“L’articolo descrive uno Zuckerberg stufo delle reazioni politiche, che nutre molta più rabbia nei confronti dei politici progressisti e degli addetti al suo gruppo filantropico rispetto alle figure politiche di destra che lo avevano nel mirino. In particolare, Zuckerberg e sua moglie Priscilla Chan hanno allontanato i dipendenti che si aspettavano un maggior impegno in seguito all’uccisione di George Floyd e all’abolizione del diritto all’aborto negli Stati Uniti. Secondo quanto riferito, Zuckerberg ora si considera un libertario o un “liberale classico”, che detesta la regolamentazione e il “progressismo di estrema sinistra” come le proteste universitarie filo-palestinesi, che lui e Chan considerano antisemite”.

Subito dopo aver annunciato cambiamenti radicali nella moderazione delle sue piattaforme, Zuckerberg ha partecipato al podcast di Joe Rogan, ex comico e poi commentatore degli incontri della Ultimate Fight Championship (quel campionato di arti marziali miste, di cui è presidente Dana White).

Rogan ha fondato uno dei podcast più ascoltati al mondo con una influenza imponente sull’opinione pubblica americana, The Joe Rogan Experience: ogni puntata su Spotify dura mediamente tre ore, macina milioni e milioni di ascolti con ospiti famosi e non tra attori, politici, atleti, scienziati, molte figure spesso controverse fra no vax, complottisti, negazionisti di vari natura. Durante la campagna elettorale ha espresso pubblicamente il suo sostegno a Trump, Rogan si definisce anti-establishment, e grazie a un format che prevede conversazioni molto informali e fuori dagli schemi è riuscito a conquistare un pubblico di giovani adulti trasversale. 

Durante l’intervista con Rogan, Zuckerberg ha più volte usato il linguaggio tipico dei trumpiani contro i media mainstream e criticato l’amministrazione Biden per le sue pressioni contro la disinformazione sul COVID. Facendo riferimento alle politiche legate al DEI (che ha abolito, come accennavo poco sopra), ha detto che quelle politiche hanno finito per “castrare” le aziende, mentre secondo lui sarebbe importante una maggiore “energia maschile”. Ha aggiunto: “Penso che avere una cultura che celebra un po' di più l'aggressività abbia i suoi meriti, che sono davvero positivi”. Infine ha chiesto apertamente a Trump di proteggere le piattaforme americane dalle multe comminate dalla UE (lo scorso anno Meta è stata multata per 797 milioni di euro per la violazione delle regole antitrust sui servizi pubblicitari). "Credo sia un vantaggio strategico per gli Stati Uniti avere alcune delle aziende più forti del mondo", ha dichiarato Zuckerberg. "Dovrebbe far parte della strategia americana difendere questo primato", definendo in buona sostanza le normative europee sulla concorrenza come una sorta di dazio protezionistico che viene applicato alle società statunitensi.

La partita più grossa: l’assalto all’informazione (e alla democrazia)

Il sistema mediatico, definiamolo così "tradizionale", e la politica hanno enormi responsabilità rispetto alla situazione in cui ci troviamo oggi, non ne parlerò qui perché meriterebbe un approfondimento a parte. Sulla critica ai media americani e al fallimento nella copertura delle radicalizzazione del partito repubblicano si sono spesi e si spendono da anni media critics come Jay Rosen, Jeff Jarvis, Emily Bell, Margaret Sullivan. 

Proprio Sullivan, editorialista del Washington Post dal 2016 al 2022, il giorno dell'inaugurazione di Trump, in un post dove analizza e critica il nuovo slogan del WaPo nella nuova era trumpiana (siamo passati da “La democrazia muore nell’oscurità” “Una narrazione avvincente per tutta l’America”) e con il suo proprietario Jeff Bezos che ha deciso di inginocchiarsi alla Corte di Trump, ha scritto:

“La grande storia di oggi [...] è certamente l'insediamento di Donald Trump, un noto truffatore, bugiardo e aspirante autocrate; e, insieme all’insediamento, tutti i mali della società che hanno causato la sua rielezione. Tra questi ci sono un elettorato poco istruito e poco informato, razzismo, misoginia, la crescita di una sfera informativa di destra e sì, i fallimenti dei media mainstream, che troppo spesso si sono presi la briga di presentare Trump come un candidato normale invece che come una minaccia terribile, persino esistenziale, per una nazione governata dallo Stato di diritto”. 

Nel 2014 avevo scritto una lunga riflessione per una mia lectio all’Università di Urbino, nella quale segnalavo criticità che oggi si sono solo approfondite e ci fanno trovare davanti a questo assalto all’informazione quasi completamente disarmati. Attenzione: in questo contesto quando parlo di informazione non intendo semplicemente i media mainstream, non si tratta semplicemente di questo, ma stiamo parlando di un ecosistema digitale complesso in cui le persone vivono, si informano, consumano. 

Nell’assalto a questo ecosistema oggi rientra anche screditare e sminuire l’importanza del fact-checking professionale, che non è un corpo estraneo ma il cuore stesso di un giornalismo corretto, rispettoso dei fatti, al servizio del bene pubblico. Ha scritto lo storico Eoin Higgins:

“In questo moderno ambiente mediatico e politico, le lamentele dei miliardari (verso le decisioni politiche) stanno determinando il modo in cui funziona il paese. Zuckerberg e altri titani della tecnologia sono impegnati a modellare i media politici ai propri fini per promuovere la loro ideologia, il tutto assicurandosi al tempo stesso di avere influenza sull’allocazione delle risorse dello Stato per sicurezza nazionale”.

Sulle ultime decisioni di Zuckerberg, ho chiesto un commento a Fabio Chiusi, firma storica di Valigia Blu, - ricercatore e professore aggiunto che si occupa delle conseguenze sociali delle nuove tecnologie, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Chiusi ha scritto diversi saggi su media, tecnologica e democrazia, il suo ultimo libro è “L'uomo che vuole risolvere il futuro. Critica ideologica di Elon Musk”- : 

“Zuckerberg oggi si traveste da Musk, molto probabilmente - come ammesso dallo stesso presidente entrante - per le minacce ricevute da Trump. Ma il problema con Meta è più profondo. Non solo dunque la sua svolta ideologica, in fondo a destra, che rende popolare l’idea - malsana ovunque tranne che nei regimi - che i fact-checker siano propagandisti, e quella - altrettanto malsana in democrazia - che insultare migranti, omosessuali e persone trans o ridurre il genere femminile a oggettistica in possesso del maschio alfa di turno sia normale. Il problema reale è il cinismo di quest’uomo, sconfinato, che lo ha portato a passare dalle posizioni globaliste delle origini - ricordate la promessa di rendere il mondo “più aperto e connesso” grazie a Facebook? - a fasi di indifferenza - “ora vedrete i contenuti degli amici, basta politica!” - fino a baciare con indifferenza la pantofola del leader sovranista, razzista, suprematista e autoritario che si è appena insediato alla Casa Bianca. Zuckerberg ha poi precisato a Politico che i cambiamenti non si applicheranno al momento in Europa, dove vige - in teoria, pare Von der Leyen non sia esattamente intenta ad applicarlo - il DSA (Digital Services Act, la principale normativa europea che regolamenta il mondo digitale), ma il punto è: perché credere a una sola delle parole che escono dalla bocca di questo miliardario svagato, che progetta social fatti di utenti-AI, inconsistenti metaversi (per i poveri c’è il virtuale, la realtà è roba da ricchi) e nel mentre lascia che democrazia, verità e giornalismo si mischino alle balle dettate dal demagogo di turno? È ora di lasciare queste piattaforme al loro destino, e cominciare a immaginare e praticare forme di resistenza sociale fuori dai social di questi presunti guru, che si atteggiano tanto a salvatori del mondo ma che in realtà sono ben lieti di liberarsi del peso dei controlli democratici, se questo gonfia i loro profitti e fa i loro interessi”.  

In questi giorni, diversi studi sulla disinformazione forniscono ancora più strumenti per inquadrare queste scelte di Meta/Zuckerberg in un contesto più ampio e anche più inquietante. A dispetto di quanto si è solito credere, la disinformazione non è una condizione universale e generale del nostro ecosistema mediatico. Ma è specificamente associata a partiti e gruppi populisti di estrema destra che diffondono disinformazione per strategia politica. Sfruttando il collasso della fiducia nelle istituzioni democratiche, usando e attingendo alla propaganda e alla disinformazione per destabilizzare la politica mainstream. Disinformazione e populismo di estrema destra devono essere concepiti come inestricabili e sinergici. La disinformazione non è dunque una caratteristica strutturale del sistema: è un progetto politico dell’estrema destra. 

In questo contesto, Mark Zuckerberg oggi ha deciso di contribuire non a “creare un mondo più aperto e connesso”, come diceva agli inizi della sua avventura, ma a creare un mondo più caotico, confuso, dando via libera a propaganda, disinformazione, discorsi d’odio. 

Sia chiaro la disinformazione non è la causa principale della polarizzazione negli Stati Uniti o altrove. Come dicevo all’inizio il dibattito su questi temi ha presentato davvero tanti limiti e criticità. Le discussioni sulla disinformazione a volte hanno dato e danno troppo credito all’idea che gli algoritmi siano onnipotenti modellatori della realtà e non tengono conto del fatto che le persone cercheranno sempre informazioni in linea con la loro visione del mondo. La loro richiesta di tali informazioni, vere o false che siano, potrebbe essere il fattore più importante che porta alla creazione e alla diffusione della disinformazione stessa. 

Ma, come ha scritto Casey Newton, fondatore e direttore di Platformer, che si occupa dell’intersezione fra tech e democrazia,  si può credere che questa idea fissa sulla disinformazione sia controproducente e allo stesso tempo credere nell’idea di riduzione del danno: in questo senso sarebbe meglio che sistemi sofisticati che identificano accuratamente notizie false, discorsi d’odio e poi le mostrano a meno persone possibile dovrebbero essere lasciati in funzione. Le conseguenze di questa scelta potranno essere devastanti per la vita di milioni di persone. 

“Ora l’azienda - scrive Newton - ha quasi dichiarato aperta la caccia agli immigrati, alle persone transgender e a qualsiasi altro obiettivo che Trump e i suoi alleati trovino utili nel loro progetto fascista”. "Non posso dirti quanto danno provenga da contenuti non illegali ma dannosi", ha detto un ex dipendente che si occupava di questo settore nell’azienda, sentito da Newton. I sistemi che Zuckerberg ha ora deciso di disattivare hanno ridotto significativamente la diffusione dei movimenti di odio sulle piattaforme di Meta. "Non stiamo parlando del dibattito sul cambiamento climatico, o pro-vita contro pro-scelta. Si tratta di contenuti degradanti e orribili che portano alla violenza e che hanno l'intento di fare del male ad altre persone".

Il quotidiano francese Le Monde, annunciando la sua decisione di non pubblicare più i propri contenuti su X e di tenere sotto stretta osservazione TikTok e Meta, ha chiaramente definito l’alleanza fra Donald Trump e i boss delle piattaforme di social media una minaccia globale.

“Questa alleanza senza precedenti non solo rappresenta una grave minaccia per la democrazia statunitense [...], ma anche una confusione di vasta portata tra interessi generali e privati. Formata dai proprietari di media e piattaforme, questa oligarchia estremamente ricca, potente e influente rappresenta anche una minaccia globale al libero accesso a informazioni attendibili”.

Per inciso, ricordo che Valigia Blu è stata una delle prime realtà che si occupa di informazione al mondo a decidere di non usare più X, poi sono arrivati altri tra cui Guardian, Le Monde... E speriamo che presto istituzioni democratiche, politici e altri media facciano la stessa scelta di smettere di alimentare una macchina propagandistica di disinformazione, propaganda e odio.

L’assalto all’informazione e alla democrazia è solo all’inizio. Nel giorno dell’inaugurazione Trump ha lanciato la sua personale criptovaluta (memecoin): Official Trump. Con conseguenze che non possiamo nemmeno immaginare. “La clausola sugli emolumenti della Costituzione”, che vieta a chiunque ricopra una carica governativa di accettare doni o titoli da un leader o governo straniero, “scritta nel 1787, difficilmente immaginava un mondo in cui un presidente potesse evocare miliardi di dollari di ricchezza dal nulla semplicemente sostenendo un meme. Così Felix Salmon su Axios, che ha anche fatto notare che non c’è modo di tracciare gli acquisti di questa moneta, il che significa che sarà un modo per coloro che vogliono qualcosa da Trump di trasferire denaro direttamente a lui. È come se il 47° presidente degli Stati Uniti d’America possedesse una banca privata non sottoposta a controlli. 

Come ha scritto Massimo Borgobello su Agenda Digitale:

“Siamo solo all’inizio. Se l’Unione Europea si arrocca su modelli novecenteschi di indirizzamento delle informazioni, gli States si lanciano nella sfida dell’iperliberismo, con lo scopo dichiarato di governare l’informazione mondiale tramite le big tech della Silicon Valley, lasciate libere di cercare profitto in ogni modo di espandersi in ogni dove. Qui ‘informazione’ inteso in un senso ampio, non tradizionale, che include l’intrattenimento: dominio sulla nostra attenzione, insomma; che è da sempre il loro modello di business (non solo dei social, ma anche di soggetti come Google), ora libero di esprimersi col vento in poppa di una politica favorevole. Lo stakeholder capitalism lancia una sfida aperta a tutti i corpi intermedi delle società industriali, in primo luogo a professionisti, sindacati, associazioni di categoria e politici. Tutte queste categorie rappresentano dei ‘costi’ occulti di ogni sistema. La linea seguita finora è che questi costi sono necessari alla gestione ‘ordinata’ delle società civili: ma in futuro sarà ancora così? Zuckerberg si sta spingendo molto in là e, forse, l’azione di Elon Musk a lungo termine dovrà essere rivalutata anche in ottica più politica – nel senso ampio del termine – che in termini di stretto business”. 

Da come è andato il giorno dell’insediamento di Trump, con i principali rappresentanti delle imprese tech americane in prima fila ad applaudire diversi passaggi (anche inquietanti) del discorso di Trump, infarcito di deliri e bugie, e il saluto nazista al pubblico e alla bandiera di Elon Musk, davvero non abbiamo più alcun dubbio su questo. Ha ragione Franz Russo, la foto dei quattro super-ricchi delle Big Tech insieme a rendere omaggio a Trump, che nel 2016 avevano criticato e da cui cercavano di prendere le distanze, parla da sola e con forza:

“Quella Silicon Valley vuole essere protagonista e non più una presenza secondaria in attesa di un segnale da parte della politica. La Silicon Valley ora è un centro di potere. Se prima le aziende tecnologiche cercavano di mantenere una posizione neutrale o di influenzare le decisioni politiche tramite lobbying e donazioni, ora vediamo un coinvolgimento diretto. L’inclusione di Elon Musk nel Dipartimento per l’Efficienza Governativa (DOGE), istituito da Trump, è un esempio eclatante di come i confini tra settore pubblico e privato si stiano dissolvendo. Tutte quelle persone ritratte in quella foto sono a capo di aziende da cui per anni è dipeso il destino di Internet e del digitale. Ma ora c’è qualcosa di più. Da quelle stesse aziende dipende oggi il destino dell’Intelligenza Artificiale, della cybersecurity, dell’informazione”.

All’inaugurazione presidenziale di lunedì, i tech leader a capo di X, Meta, Amazon e Google avevano posti migliori di membri del Gabinetto, governatori e altri funzionari. È difficile che possa sfuggire il messaggio di questa scelta. 

Molto più che nel suo primo mandato, gli ultra-ricchi - e i miliardari tech in particolare – stanno abbracciando Trump e il suo mondo. Ci sono ottime possibilità che il secondo mandato di Trump alla Casa Bianca sia caratterizzato da negoziazioni e trattative personali con dirigenti aziendali e tecnologici - un nuovo tipo di oligarchia americana. 

È tempo di ri-construire una nuova casa per le nostre Community online

Sono stata sin dai primi anni una attivista dell’uso dei social network. E sin da subito per me era chiaro che i giornalisti, i media avrebbero dovuto essere lì dove c’erano le persone. Ma la gran parte dei media e dei giornalisti non ha mai vissuto questi spazi per l’enorme potenziale che avevano per le comunità e per il discorso pubblico. Cinicamente e opportunisticamente hanno usato i social media in modalità broadcast, dall’alto verso il basso, diffondendo per la maggior parte soft news, contenuti di bassa qualità, per generare traffico e soldi, non avendo alcuna cura delle comunità di lettori, anche solo moderando per esempio i commenti. In questo dimostrando disprezzo per i loro stessi lettori e contribuendo al generale degrado delle conversazioni online. 

Grazie ai social media potevamo ascoltare più voci, e dove ci sono più voci da ascoltare c’è più democrazia e più libertà. Abbiamo visto le Primavere arabe, Black Lives Matter, #metoo… E nonostante evidenti e obiettive criticità, ho continuato a pensare che valesse comunque la pena. Ma in questi anni tutto è cambiato. Le promesse / premesse con cui sono nati e hanno profondamente trasformato la nostra vita digitale sono state disattese e tradite. 

Oggi lo scenario è completamente stravolto. Avevamo salutato l’avvento dei social come l’era della disintermediazione: una liberazione dall’oligopolio dei media mainstream, che decideva chi poteva avere voce nella discussione pubblica e chi no. Il tasto pubblica senza permesso non solo ci rendeva più liberi, ma ci dava un potere enorme che prima nemmeno avremmo potuto immaginare. Siamo finiti nel giro di pochi anni nelle mani di una manciata di miliardari oligarchi assetati di potere, soldi, senza scrupolo, accecati dall’ideologia libertaria.

Ecco perché come Valigia Blu, dopo aver lasciato X, nel momento in cui Musk ha deciso di trasformare Twitter in una macchina da guerra di disinformazione e odio verso persone e  comunità più fragili ed esposte, abbiamo deciso di lasciare anche Meta, dopo gli annunci di Zuckerberg. 

E non perché ha cancellato il fact-checking o il programma Diversità e Inclusione. Ma perché, come Musk, ha deciso di mettere il suo regno (di cui noi siamo sudditi senza voce, illudendoci di averla) a disposizione di una ideologia ripugnante. Zuckerberg ha sempre cercato di assecondare il potere politico di turno in nome del Dio Denaro. Ma oggi giochiamo tutta un’altra partita, dove le regole del gioco sono completamente saltate e sono sempre più oscure. Oggi la scelta di assecondare il potere politico incarnato da Trump avviene certamente per interessi economici, ma anche per adesione ideologica. Interessi economici e convinzioni ideologiche coincidono e Zuckerberg può finalmente liberarsi della maschera indossata in questi anni. 

Ma davvero vogliamo continuare a essere pedine di questo gioco cupo e malato? Subire l’umiliazione di essere ingranaggi che alimentano queste macchine con la nostra presenza, i nostri contenuti, con la nostra partecipazione attiva alle discussioni, con i nostri like?

Proprio per coerenza con la storia di Valigia Blu, nata sotto la spinta di una mobilitazione di cittadini per chiedere la rettifica di una notizia falsa al TG1 e poi cresciuta come progetto culturale che avesse al centro buone pratiche informative e soprattutto le persone, abbiamo il dovere di provare a cercare altre forme per stare insieme. Liberare energie e vis creativa, per esplorare nuove possibilità per prenderci cura delle nostre vite individuali e collettive digitali. Con le nostre regole, senza compromessi, e facendoci ispirare da quegli stessi principi etici che hanno portato alla nascita di un progetto così ‘eretico’ per il sistema mainstream tradizionale.

Ri-costruire le nostre case digitali. Ecco quello che dobbiamo e vogliamo fare. 

Quando è nata, Valigia Blu ha ribaltato alcune dinamiche che sembravano impossibili da scardinare. Oggi, Valigia Blu è cresciuta, misurandosi costantemente con la propria comunità anche attraverso il crowdfunding che da 10 anni garantisce al progetto (di nicchia) una sostenibilità non-profit e attraverso cui chi ci legge, segue e partecipa alle nostre discussioni, rinnova il patto di fiducia "lettori-chi fa informazione". 

Oggi dobbiamo ancora una volta rovesciare il tavolo, smettere di pensare che non c'è alternativa a queste piattaforme. Dobbiamo ricostruire spazi di conversazione dove siamo noi ad avere il controllo. 

Il percorso che abbiamo davanti per noi è chiaro e prevede una transizione che durerà un anno.  Il tempo necessario per ricostruire la nostra casa e poter accogliere al meglio chi vorrà fare questa nuova tappa del viaggio insieme a noi. 

In questo anno avremo modo di invitare le persone a iscriversi alla nostra Newsletter e ai nostri canali Telegram, di seguirci su BlueSky, Mastodon, LinkedIn. Lasciare anche Meta libera molte altre nostre energie che possiamo destinare altrove. 

Il sito di Valigia Blu deve diventare nuovamente la casa-madre della nostra esperienza digitale. A breve disattiveremo la possibilità di commentare sui nostri account Facebook/Instagram. Chi vorrà commentare i nostri articoli e partecipare alla discussione potrà farlo liberamente (non ci sarà pre-moderazione, ci fidiamo molto di chi frequenta i nostri spazi; ma la moderazione come sempre sì. La pre-moderazione sarà attivata solo negli orari in cui non saremo presenti. Gli strumenti che abbiamo attualmente su queste piattaforme sono molti limitati. 

Valigia Blu Community, il gruppo su Facebook con quasi 2mila iscritti, composto da persone che donano ogni anno dai 20 euro in su e che chiedono di iscriversi, “traslocherà” sul sito. Creeremo un portale che sarà una sorta di gruppo clone di Facebook con funzioni simili a quelle di oggi. 

Svilupperemo un app di Valigia Blu con la possibilità di attivare notifiche per rimanere aggiornati. 

Tutto questo richiede tempo che vogliamo dedicare e investimenti che siamo in grado di fare, grazie anche al crowdfunding. 

È tempo di ripensare il nostro stare insieme digitale, decidere noi come stare in questi spazi condivisi online. Non si tratta, come qualcuno ci ha detto, di ritirarsi sull’Aventino, non siamo oppositori politici di Musk e Zuckerberg. Anche perché di fatto dentro quelle piattaforme siamo già irrilevanti, algoritmicamente e culturalmente.

Le nostre vite digitali meritano esattamente come quelle fisiche di essere protette, curate, non sottoposte a stress continuo, abusi, violenze, provocazioni. Questo non significa negare la realtà di tensioni e conflitti che nelle relazioni umane sono inevitabili e per certi versi necessari e utili. Perché il confronto / scontro di idee è quello che permette di crescere, migliorare, avanzare. Significa definire un quadro dove tutto questo è possibile farlo civilmente e nel pieno rispetto reciproco. 

Sarà un percorso lungo, pieno di ostacoli e faticoso, ne siamo consapevoli. Ma è anche una sfida nuova, importante, bella, entusiasmante, e avremo bisogno di condivisione, sostegno e intelligenza collettiva. 

Questo significa anche che da parte della comunità di lettori è necessario uno sforzo, rivedere le proprie abitudini rispetto a come ci si informa e si “vive” la propria dimensione digitale. Diversi commenti che abbiamo ricevuto in questi giorni rispetto alla decisione che stiamo per prendere parlavano della difficoltà di informarsi diversamente dallo scrolling su Facebook. Si fa fatica ad attivarsi per cercare informazioni al di fuori di quel recinto. Costa fatica andare attivamente sul sito di Valigia Blu

Si leggono gli articoli di Valigia Blu solo se compaiono sul feed “per caso”. E questo è davvero problematico e preoccupante. Siamo davanti a dinamiche invasive, che ci hanno segnato profondamente e che hanno completamente stravolto i nostri comportamenti, al punto di affidarci all’algoritmo o al caso per la nostra dieta informativa. Stiamo parlando dell’informazione che ci serve per orientarci nel mondo.

Enshittification, una possibile traduzione in italiano sarebbe ‘immerdificazione’. Il termine coniato dal giornalista e scrittore Cory Doctorow fotografa perfettamente la nostra esperienza su queste piattaforme: “All’inizio l'azienda si comporta bene con i suoi utenti finali e così li lega ai suoi servizi. Poi inizia a peggiorare l’esperienza per gli utenti e dare la preferenza ai clienti commerciali. Una volta che si è assicurata anche la loro fedeltà, comincia a soddisfare solo gli interessi dei suoi azionisti, lasciando quello che serve perché utenti e clienti commerciali rimangano legati a servizi di cui non possono più fare a meno”. Siamo dentro una trappola, una relazione tossica e abusiva, molti di noi anche perfettamente consapevoli della trappola ma incapaci di sottrarci”. 

“Queste società - ha detto Doctorow in una intervista a Bruno Ruffilli che vi invito a leggere per intero - sono dei monopoli e molte persone sono vulnerabili a messaggi complottisti perché chi dovrebbe proteggerle non lo fa. La verità è che la grande cospirazione esiste: è quella dei ricchi che hanno accumulato altre ricchezze, corrotto le istituzioni, devastato il nostro pianeta ed eroso i diritti dei lavoratori […]

Le piattaforme di social media hanno cercato di assorbire il blogging. Inizialmente, ci hanno offerto un grande flusso di traffico e poi ce lo hanno tolto, cercando di farci pagare per averlo di nuovo. O ci hanno semplicemente distrutti, in un modo o nell'altro. Siamo stati ingenui a cascarci; avremmo dovuto prevederlo: se ti metti alla mercé di un'azienda, non avrà mai pietà di te [...] Perciò molti stanno tornando a piattaforme come Substack, non tanto per l'etica dei gestori, che rimane piuttosto discutibile, ma perché è più facile andarsene e portare tutto con sé: gli iscritti al sito, le loro campagne, i benefici ottenuti dalle piattaforme. Ma un blog rimane il modo migliore per costruire una carriera online stabile: anche se si perde l’amplificazione del messaggio che arriva da una piattaforma, ci si guadagna l'autonomia di non essere alla mercé di nessuno”.

Le grandi crisi favoriscono la creatività. Ripeto non è vero che non ci sono alternative, è che percorrerle richiede sforzo, impegno, ingegno e anche qualche sacrificio. Ci sono sicuramente dei costi da pagare, ma considerando la posta in gioco ne vale assolutamente la pena. 

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È di questi giorni il lancio dell’iniziativa “Free Our Feed”, “Libera i nostri feed”, che mira a sfruttare la tecnologia di Bluesky per creare un ecosistema di social media, ripensandoli come un bene pubblico. 

Ha ragione Zuckerberg a dire che è ora di tornare alle origini. Solo che il vero ritorno alle origini di questa meravigliosa e complessa avventura del Web è per noi abbandonare le sue piattaforme, tornare a casa, laddove le promesse di un mondo più connesso e più democratico siano davvero un valore guida, sentito e profondo. Non uno slogan ipocrita per macinare miliardi e accumulare potere a spese della nostra stessa democrazia.

Immagine in anteprima via YouTube

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