Ma davvero Instagram è un pericolo per la salute mentale delle adolescenti?
7 min letturaDa metà settembre, a poche settimane dalla giornata mondiale dedicata alla sensibilizzazione sulla salute mentale celebrata il 10 ottobre, i media di tutto il mondo hanno pensato di occuparsene. Dopo quasi due anni di pandemia nei quali le difficoltà si sono acuite per chi già era invisibile alla società e durante i quali l’esperienza condivisa di esposizione a rischi e incertezze ha reso legittimo parlare della sofferenza psicologica e chiedere quell’aiuto che resta diseguale e poco accessibile nel sistema sanitario nazionale, si sono recuperati i toni e gli argomenti consueti per parlare di salute mentale. Dopo quasi due anni in cui l’allarmismo a mezzo stampa e tv ha contribuito a diffondere paure e a rendere più complicata la coesione sociale che porta a mantenere comportamenti responsabili, l’unico modo ritenuto appropriato per parlare di salute mentale è stato ancora quello di creare panico attorno ai social network.
Questa volta lo spunto è stato offerto da Facebook, attraverso un rapporto interno arrivato con un clamore ingiustificato sulle pagine del Wall Street Journal e la denuncia di una whistleblower – Frances Haugen – confermata in un’audizione al Senato degli Stati Uniti, che hanno rivelato, in termini generali, il prevalere nell’azienda degli interessi privati al di sopra di quelli pubblici e i rischi per gli utenti.
Ora, a me è sembrato anche un maldestro tentativo da parte dei media generalisti di recuperarsi come sostenitori di quelle persone coraggiose che, rischiando la propria professione e in alcuni casi la propria vita, rivelano con ampia documentazione illeciti, frodi, crimini commessi da istituzioni di potere. Se accade nel mondo scientifico, come minimo il o la whistleblower si gioca la carriera e comunque deve aspettarsi un certo numero di citazioni in tribunale che richiedono iter processuali di lunga durata, aventi l’unico scopo dell’annientamento, in assenza di un supporto anche finanziario dalla comunità. Se accade nei palazzi del potere, il rischio è di incorrere in una morte immediata o lenta, a seconda dei messaggi che si vogliono inviare ad altre persone intenzionate a denunciare abusi. Di questi whistleblower di solito non si occupano le testate dominanti, se non per screditarli.
Il rapporto interno e la ex dipendente di Facebook Frances Haugen hanno denunciato i rischi per la salute mentale a cui sono esposte prevalentemente le adolescenti su Instagram.
La rivelazione del Wall Street Journal è problematica in sé, perché fa affidamento su una presentazione che estrapola dati di dubbia validità scientifica, dal momento che si basano su misure autoriferite del tempo trascorso online e del proprio stato psicologico (questionari di autovalutazione comprendenti domande del tipo “Negli ultimi 30 giorni quanto ti sei sentito triste?”, “Quanto ti sei sentito stressato a casa o a scuola?”, “Ti è stato difficile gestire il tempo trascorso sui social media?”, ecc.) che le persone partecipanti hanno completato online.
Su tali strumenti si sono basati in passato gli studi poi smentiti che correlavano il maggiore tempo di esposizione ai dispositivi digitali con un incremento di disturbi mentali negli adolescenti. Tali misure, a un’analisi approfondita, hanno dimostrato una sostanziale discrepanza dalle misure oggettive del tempo trascorso online. Per questo, Douglas Perry dell’Università sudafricana di Stellenbosch e collaboratori hanno recentemente avvertito i ricercatori “che questa discrepanza è anche un segnale forte della limitata validità di costrutto delle misure autovalutazione dell'uso dei media”. Gli autori aggiungono che “è tempo che i ricercatori smettano di fingere che gli strumenti di autovalutazione siano indicatori accurati del comportamento effettivo” e, a seconda degli aspetti che vogliono studiare, tengano conto di strumenti di riconosciuta validità.
Non è un caso che i giornalisti del Wall Street Journal abbiano ritenuto di ascoltare i pareri degli psicologi statunitensi Jonathan Haidt e Jean Twenge che più si sono distinti negli anni scorsi per seminare panico morale sull’uso delle nuove tecnologie, ricorrendo per le loro indagini esclusivamente a strumenti di autovalutazione, dati non trasparenti, analisi statistiche artefatte.
A Facebook, si sono sentiti in dovere di rispondere all’articolo del WSJ, aggiungendo più dettagli sulla ricerca interna, in un quadro più ampio che dimostra anche gli effetti positivi di Instagram sui più giovani e cambia sostanzialmente le conclusioni. Quando i dati non sono trasparenti, se ne può scegliere di volta in volta la parte più confacente all’opinione da far prevalere, come ha fatto il WSJ e come ha fatto Facebook. Che gli scopi per condurre questa indagine interna siano stati diretti a preparare il lancio di un social media per preadolescenti o a difendersi in sede legale da possibili richieste di risarcimenti non lo sappiamo, quello che è certo è che i risultati originali non possono essere ritenuti validi dal punto di vista scientifico e clinico.
Un’altra cosa certa è che, con poche eccezioni anche sui nostri giornali, la maggior parte di giornalisti e opinionisti ha dimostrato ancora una volta l’incapacità di leggere criticamente le ricerche, dandone per scontata l’affidabilità dei risultati, probabilmente perché funzionali a confermare l’avversione di categoria ai social media. Difatti, la tossicità di Instagram viene ormai citata da alcuni come cosa appurata, senza alcun ravvedimento.
Alcuni colleghi che si occupano di smontare il panico morale artatamente associato ai social media, riesploso in questi giorni, hanno fatto riferimento a quella che è divenuta nota come Legge Brandolini: “Asimmetria della cazzata: l'ammontare di energia necessaria a confutare una cazzata è di un ordine di grandezza superiore a quella necessaria a produrla”.
The bullshit asimmetry: the amount of energy needed to refute bullshit is an order of magnitude bigger than to produce it.
— Alberto Brandolini (@ziobrando) January 11, 2013
L’abbiamo sperimentata ripetutamente in questi lunghi mesi di pandemia. Nel caso in questione, è stato necessario un grande sforzo per contrastare l’onda asimmetrica che stava ormai prevalendo per impatto e diffusione, facendo buon gioco alle politiche dell’oscuramento, dei divieti e delle limitazioni. È impossibile citare tutti gli articoli e post che hanno evidenziato da diversi punti di vista la debolezza di rivelazioni considerate impropriamente così clamorose.
Candice Odgers, intervistata da Anya Kamenetz, ha riferito: "Se chiedi agli adolescenti se sono dipendenti/ danneggiati dai social media o dai loro telefoni, la stragrande maggioranza risponde di sì, ma se effettivamente fai la ricerca ricorrendo a misure oggettive [...] trovi pochissimo o nessun collegamento". In base ai suoi studi, Odgers ha dimostrato che "a livello di popolazione, c'erano poche prove che l'accesso e l'uso della tecnologia digitale siano associati negativamente al benessere dei giovani adolescenti". Avevamo riportato a gennaio 2020 su Valigia Blu i commenti di Candice Odgers e Amy Orben sulla complessità dello studio dell’impatto psicologico delle nuove tecnologie. Le due ricercatrici hanno ricevuto recentemente un finanziamento di 11 milioni di dollari (non da Facebook!) per un progetto rivolto a migliorare le tecnologie digitali nei bambini e negli adolescenti.
Questa è una delle strade da percorrere: finanziare ricerche collaborative che reclutino ampi e rappresentativi gruppi di partecipanti, che siano condotte secondo i metodi condivisi dalla comunità scientifica, che siano trasparenti nelle diverse fasi di realizzazione e nell’accesso ai dati e che forniscano indicazioni su come le tecnologie digitali possano essere meglio adattate e fruite. L’altra strada è di promuovere campagne di educazione all’uso dei social media (proprio come si insegna ad affrontare i pericoli della vita offline) e di sensibilizzazione sulla salute mentale: se avranno per protagonisti gli stessi adolescenti saranno molto efficaci. Sono due strade note da tempo, che tendono a ricevere scarso supporto e clamori.
Quindi, allo stato attuale, non è affatto dimostrato l’impatto negativo dei social media sulla salute mentale. La maggior parte degli studi condotti fino ad ora si è basata su misure di autovalutazione del tempo trascorso sui dispositivi rivelatesi inaffidabili, su domande esclusivamente dirette a indagare gli effetti negativi, sull’esclusione di fattori contestuali, sulla mancanza di trasparenza nei dati, inaccessibili a ricercatori indipendenti per ulteriori analisi statistiche, su conflitti di interesse non dichiarati.
Non possiamo continuare a citare le nuove tecnologie come scatenanti i disturbi mentali a meno di non voler intenzionalmente perpetuare l’ignoranza della complessità dei fattori di rischio. Per alcuni è conveniente pensare che limitare o vietare la vita online serva a risolvere problemi che sono radicati nel tempo e richiedono cambiamenti strutturali anche offline: si preferisce il facile e immediato consenso (sui social) instillando paure, alle azioni per la promozione della salute mentale da attuare a scuola, al lavoro, nello sport e in tutti i contesti delle vite quotidiane.
Insomma, poco prima della giornata di sensibilizzazione sulla salute mentale 2021 i media tradizionali hanno dimostrato di non aver cambiato modalità e linguaggio inappropriati. Il pretesto delle rivelazioni su Facebook servirà altri scopi ma intanto ha incrementato la confusione e spostato l’attenzione dal contesto sociale, economico e culturale che ha un ruolo cruciale nell’esordio di determinati disturbi mentali, nell’inaccessibilità delle cure e nello stigma. Il linguaggio che continua ad essere utilizzato è particolarmente pericoloso perché la comunicazione irresponsabile mette a rischio la salute pubblica, questo è dimostrato ampiamente dalla ricerca scientifica.
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Proprio in occasione della giornata mondiale sulla salute mentale un editoriale della rivista Lancet ha richiamato a dare priorità alla giustizia sociale: “Le disparità sociali non sono solo correlate a una cattiva salute mentale, ma hanno anche un impatto negativo su gruppi già socialmente emarginati. Pertanto, in un insieme sbagliato di circostanze sociali, tutti sono vulnerabili ai problemi di salute mentale. Ma la salute mentale è possibile per tutti. Abbiamo bisogno di un cambiamento nelle strategie attuali perché non affrontano adeguatamente le connessioni e le intersezioni tra i diversi domini della vita sociale che rendono impossibile una buona salute mentale. Questo cambiamento richiede una ricalibrazione della nostra comprensione dell'importanza dei determinanti sociali della salute mentale”. La salute mentale passa da interventi di assistenza sociale e economica, sostengono gli autori Soumitra Pathare, Rochelle Burgess e Pamela Collins.
Fino a quando si continuerà a puntare il dito contro le nuove tecnologie, autoassolvendosi e rinunciando irresponsabilmente ad azioni concrete per la promozione della salute mentale?
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