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Facebook e l’applicazione della direttiva copyright: cambiano le regole per le notizie

17 Dicembre 2021 12 min lettura

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Facebook e l’applicazione della direttiva copyright: cambiano le regole per le notizie

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Facebook cambia le regole

Dal 13 dicembre, come avvertiti dallo stesso Facebook, cambiano le regole per le notizie sul principale social network, e tale cambiamento è immediatamente visibile a tutti gli utenti. Si tratta dell’applicazione italiana delle norme della direttiva copyright, e questo conferma che la discussione sulla direttiva copyright non è mai stata (o quanto meno non doveva essere) solo una discussione tra aziende o addetti ai lavori, ma un problema che impatta direttamente sui cittadini.

Ma andiamo per ordine. La direttiva copyright è stata approvata lo scorso aprile, anche con le due norme più controverse, l’articolo 15 e l’articolo 17. Quest’ultimo riguarda la condivisione sugli spazi delle grandi piattaforme del web di contenuti sui quali insistono diritti d’autore.

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L’articolo 15, invece riguarda, appunto, il cambiamento delle regole relative alla pubblicazione delle notizie sulle grandi piattaforme del web. Come dice la comunicazione di Facebook agli “editori”, “a seguito dell’entrata in vigore in Italia della direttiva europea sul diritto d’autore, quando le persone condivideranno link dalla tua pubblicazione i loro post non appariranno più come prima, a meno che tu non lo consenta”. Invece i post pubblicati direttamente dagli “editori” sulle loro bacheche non mutano la loro forma. Facebook in sostanza chiede agli “editori” di firmare un’esclusione di responsabilità.

Direttiva copyright

Per comprendere meglio dobbiamo riassumere le modifiche determinate dall’entrata in vigore della direttiva copyright nella forma stabilita dall’Italia col decreto di recepimento, cioè il decreto legislativo 177 del 8 novembre del 2021, che è entrato in vigore il 12 dicembre 2021. Il decreto in questione stabilisce che “agli editori di pubblicazioni di carattere giornalistico, sia in forma singola che associata o consorziata, sono riconosciuti per l'utilizzo online delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico da parte di prestatori di servizi della società dell'informazione … i diritti esclusivi di riproduzione e comunicazione”, che comporta il pagamento di un equo compenso a seguito di una licenza.

Il decreto ci offre anche le definizioni, per cui “pubblicazione di carattere giornalistico” è “un insieme composto  principalmente da opere letterarie di carattere giornalistico, che può includere altre opere e materiali protetti, come fotografie o videogrammi, e costituisce un singolo elemento all'interno di una pubblicazione periodica o regolarmente aggiornata, recante un titolo unico, quale un quotidiano o una rivista di interesse generale o specifico, con la funzione di informare il pubblico su notizie, o altri argomenti, pubblicata su qualsiasi mezzo di comunicazione sotto l'iniziativa, la responsabilità editoriale e il controllo di un editore o di un'agenzia di stampa”.

In tal senso pubblicazione a carattere giornalistico non coincide necessariamente con un “giornale” registrato al registro della stampa tenuto dal tribunale, potrebbe anche essere un qualsiasi sito che svolge attività con finalità giornalistica, purché sia a carattere economico. Infatti, “editore di pubblicazioni di carattere giornalistico” sono “i soggetti che, sia in forma singola che associata o consorziata, nell'esercizio di un'attività economica, editano le pubblicazioni di cui al comma 2”, così come spiegate sopra. Anche in questo caso la definizione non è perfettamente coincidente con la nozione di “editore” iscritto al ROC (Registro degli operatori di comunicazione).

In questo senso la normativa si dovrebbe applicare anche a realtà che non sono proprio giornali online. Ebbene, il decreto stabilisce che “per l'utilizzo online delle pubblicazioni di carattere giornalistico i prestatori di servizi della società dell'informazione riconoscono ai soggetti di cui al comma 1 (gli editori) un equo compenso”. Sarà poi l’Agcom a individuare i criteri per la determinazione del compenso. I prestatori di servizi della società dell’informazione ovviamente sono le piattaforme del web, principalmente, per quanto qui ci interessa, Google e Facebook.

È il cosiddetto diritto accessorio per gli editori (press publisher rights), un diritto del tutto nuovo e creato ad hoc (e questo va sottolineato, non esisteva prima tale diritto, cioè non è vero che le piattaforme “rubavano” i contenuti) che prevede una remunerazione per la ripubblicazione delle notizie online. Per capirci, se un giornale pubblica un articolo online la semplice ripubblicazione (ad esempio mediante il widget “share/condividi”) può determinare l’obbligo di pagare l’editore. Si tratta di un diritto che non mira affatto a proteggere gli autori (la percentuale dell’equo compenso che va ad essi è minima) ma piuttosto a tutelare gli investimenti economici degli editori obbligando le sole piattaforme del web a pagare più volte per lo stesso contenuto casomai pubblicato direttamente (la prima volta) dall’editore stesso. Ed è sintomatico che non c’è alcun riferimento alla creatività a rimarcare la differenza con il copyright che comunque prevede una soglia minima di originalità per la protezione. Infatti tale diritto si estingue in soli 2 anni (“a decorrere dal 1° gennaio dell'anno successivo alla data di pubblicazione dell'opera di carattere giornalistico”).

Tale norma è la riproposizione di norme simili già approvate in Germania e in Spagna, le cui uniche conseguenze sono state quelle di concentrare il traffico nelle mani dei grandi editori a scapito dei piccoli (gli editori locali in Spagna persero fino ad oltre il 20% del traffico).

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La direttiva copyright originariamente aveva lo scopo di armonizzare le norme in materia (è una direttiva di massima armonizzazione), ma in tal senso fallisce perché la genericità delle norme fa sì che ogni Stato potrà avere le sue definizioni col rischio di decine di normative differenti nel territorio dell’Unione europea. Inoltre, con riferimento ai contenuti, l’accesso dovrà passare attraverso un numero sempre più elevato di licenze, con un aumento esponenziale dei costi di transazione che graveranno sugli utenti finali, e che favorirà le grandi aziende (che possono permettersi nugoli di avvocati e gestire i negoziati per tutti gli Stati europei).

Tanto ché la parlamentare Therese Comodini Cachia, relatrice per il Parlamento europeo della proposta di Direttiva, propose di bocciare la norma specifica in quanto avrebbe avuto effetti negativi non solo sulla libertà di espressione online ma anche per gli stessi editori – in particolare i piccoli editori. Secondo la parlamentare era meglio realizzare un sistema che supportasse gli editori nel citare direttamente in giudizio le piattaforme del web, proposta che non fu accolta dagli editori. Il perché è ovvio, in quel modo erano gli editori a dover dimostrare concretamente l’effettività dei danni economici derivanti dal riuso degli articoli, che da anni lamentano senza mai dimostrarli effettivamente.

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Alla fine è passata la norma attuale, che prevede l’equo compenso per il riuso degli articoli, presumendosi un danno per gli editori derivante da tale riuso senza necessità di provare tale danno. E da tale normativa consegue la comunicazione di Facebook di cui sopra.

L’applicazione di Facebook

Ovviamente sono presenti delle deroghe, nel senso che non sempre il riuso di articoli giornalistici determina l’obbligo di pagare un equo compenso, e in particolare tale obbligo non è a carico di tutti. Sempre il decreto legislativo 177 stabilisce, infatti, che “i diritti di cui al comma 1 non sono riconosciuti in caso di utilizzi privati o non commerciali delle pubblicazioni di carattere giornalistico da parte di singoli utilizzatori”. Quindi un utente di Facebook che condivide un articolo di giornale non è onerato del pagamento dell’equo compenso. Inoltre si prevede che i diritti non sono riconosciuti anche “in caso di collegamenti ipertestuali o di utilizzo di singole parole o di estratti molto brevi”.

Quindi il semplice link ad un articolo non obbliga al pagamento del compenso (per i tecnici diremo che non è “comunicazione al pubblico”), e anche se si tratta di “singole parole” o “estratti molto brevi”. Anche qui il decreto soccorre con la definizione di “estratto molto breve”, cioè “qualsiasi porzione di tale pubblicazione che non dispensi dalla necessità di consultazione dell'articolo giornalistico nella sua integrità”. Purtroppo la definizione in realtà non è molto chiara, anzi decisamente opinabile (gli editori potrebbero sostenere che basta il titolo a soddisfare il lettore - cosa che farebbe dubitare non poco sulla qualità degli articoli, però -), come sostiene anche l’Antitrust italiana, e quindi è probabile che sarà ulteriormente chiarita a seguito di ricorsi in tribunale. Però questo ci consente di capire meglio il significato della comunicazione di Facebook.

A leggerla nella sua completezza, quindi, Facebook chiede agli utenti costituenti “editore” ai sensi della legge di decidere come vogliono che i loro articoli appaiano sulla piattaforma del social, e cioè se l’editore desidera che non vengano apportate modifiche al modo in cui i suoi link sono mostrati agli utenti nelle giurisdizioni dell'UE, deve firmare l’esenzione di responsabilità di cui al modulo. Quindi fornire la sua autorizzazione (che potrà comunque essere rescissa in qualsiasi momento).

Tale Autorizzazione concede a Facebook una licenza per riprodurre in modo digitale e mostrare al pubblico i contenuti soggetti ai diritti di proprietà in linea con la licenza fornita a Facebook, come stabilito nella Sezione 3 delle Condizioni d’uso: “quando l'utente condivide, pubblica o carica un contenuto protetto da diritti di proprietà intellettuale in relazione o in connessione con i Prodotti di Facebook, concede una licenza non esclusiva, trasferibile, sub-licenziabile, non soggetta a royalty e valida in tutto il mondo per la trasmissione, l'uso, la distribuzione, la modifica, l'esecuzione, la copia, la pubblica esecuzione o la visualizzazione, la traduzione e la creazione di opere derivate dei propri contenuti (nel rispetto della privacy e delle impostazioni dell'app dell'utente)”. In tal caso la condivisione degli articoli rimarrà uguale a come era prima, quindi con l’anteprima, la foto e un sommario.

Ma se l’editore non firma l’esenzione, quindi non concede l’autorizzazione (e quindi non concede la licenza a Facebook), allora Facebook pubblicherà ugualmente gli articoli condivisi (riuso), ma tali articoli non saranno più in formato “rich”, arricchito, bensì saranno dei semplici link all’articolo del giornale, per i quali non sono riconosciuti diritti (dal modulo: “mostrare i link solo come collegamenti ipertestuali ed estratti molto brevi per tutte le pubblicazioni di stampa elencate in questo modulo”).

Dalla comunicazione, quindi, sembra che Facebook abbia deciso di distinguere gli editori, quelli che concedono l’autorizzazione, e quindi una licenza non soggetta a compensi, avranno una condivisione degli articoli come è sempre stata (arricchita), quelli che invece non concedono la licenza a Facebook avranno la condivisione degli articoli solo tramite link e/o brevi estratti, quindi non soggetti a compenso.

Impatto sui cittadini

Come si può vedere la direttiva copyright e quindi l’attuazione italiana della stessa ha un impatto anche sugli utenti, nel senso che incide immediatamente sulla pubblicazione delle notizie online. Non è certo una disputa tra grandi aziende e grandi editori. Alcuni editori si risentiranno del comportamento di Facebook, sostenendo che si sottrae ad un obbligo di legge (ricordiamo che la norma è stata creata ad hoc per gli editori, sulla spinta degli editori, con la direttiva copyright, e non è un diritto d’autore, ma un diritto connesso), ma in realtà non si può dire che Facebook stia facendo qualcosa che va contro la legge. Ed occorre sempre tenere presente che è piuttosto assurdo pretendere che Facebook debba necessariamente pubblicare gli articoli dei giornali e nel contempo debba anche pagarli, quando Facebook dovrebbe invece decidere se ha un ritorno economico da ciò, in caso contrario nell’ambito della libertà economica di impresa dovrebbe avere il diritto di scegliere se non pubblicare (non riusare) gli articoli dei giornali così evitando di pagare.
Il punto è che la legge prevede delle deroghe (link e brevi estratti) e Facebook si limita ad applicare tali esenzioni, esattamente come prevede la legge.

Per quanto riguarda la normativa, già in passato abbiamo avuto occasione di criticare determinate scelte, e di evidenziare come questa “tassa sui link” (come è stata etichettata, erroneamente, tempo fa) è controproducente, per una serie di motivi:

  • non è mai stato provato che gli editori perdono dal riuso degli articoli dei giornali da parte delle piattaforme, anzi studi evidenziano che il traffico che le piattaforme girano ai giornali è a favore degli editori;
  • a seguito della normativa tedesca e spagnola studi hanno evidenziato che effettivamente tale normativa favorisce i grandi editori, e danneggia i piccoli editori;
  • le conseguenze immediate sono una ricaduta negativa sulla libertà di informazione, comportando una concentrazione nelle mani di pochi editori a discapito della pluralità delle fonti di informazione, principio essenziale in un paese democratico.

Ma non basta. La normativa di recepimento italiana introduce elementi ulteriori, non presenti nella direttiva europea, che rischiano di portare a pronunce di eccesso di delega per violazione del diritto comunitario. Infatti il decreto prevede il coinvolgimento dell’Agcom nel caso in cui gli editori e le piattaforme non trovino un accordo tra loro sul compenso, procedura non prevista dalla direttiva.

Non possiamo dimenticare, inoltre, che nell’aprile del 2019 il governo italiano votò contro la proposta di direttiva, insieme a Svezia, Finlandia, Polonia, Olanda e Lussemburgo. La motivazione era: “il testo finale della direttiva non risponde adeguatamente agli obiettivi” di “rafforzare il buon funzionamento del mercato interno e stimolare l’innovazione, la creatività, gli investimenti e la produzione di contenuti nuovi, anche in ambiente digitale”; “nella sua forma attuale, la direttiva rappresenti un passo indietro per il mercato unico digitale, piuttosto che un passo avanti. Più in particolare, ci rammarichiamo che la direttiva non trovi il corretto equilibrio fra la protezione dei titolari dei diritti e gli interessi dei cittadini e delle imprese dell’UE, con il rischio di ostacolare, anziché promuovere, l’innovazione e con potenziali effetti negativi sulla competitività del mercato unico digitale europeo”; la direttiva era inoltre ritenuta “carente quanto alla chiarezza giuridica, che potrà generare incertezza giuridica per numerose parti interessate pertinenti e potrà ledere i diritti dei cittadini europei”.

E la stessa Antitrust italiana ha espresso critiche alla legge di recepimento: “lo Schema di decreto in esame introduce, in recepimento delle disposizioni della citata Direttiva, previsioni che, oltre ad essere estranee – e pertanto - non conformi ai principi indicati dall’articolo 9 della Legge di delegazione (articolo 77, comma 1, Cost.), sono altresì idonee a restringere ingiustificatamente la concorrenza”; “l’articolo 1, lett. b), dello Schema di decreto appare travalicare i limiti posti dal legislatore europeo e dalla delega parlamentare, introducendo fattispecie soggettive e oggettive non previste dalla disciplina eurounionale e individuando meccanismi negoziali limitativi della libertà contrattuale degli operatori economici”; “lo Schema di decreto, diversamente da quanto previsto dalla Legge di delegazione, non appare fornire una definizione adeguata del concetto di «estratti molto brevi», di cruciale importanza per la distinzione tra l’opera che deve essere oggetto di remunerazione e la sua rappresentazione sintetica che non beneficia di tutela. In particolare, in base allo Schema di decreto, per estratto molto breve di pubblicazione di carattere giornalistico deve intendersi “qualsiasi porzione di tale pubblicazione che non dispensi dalla necessità di consultazione dell’articolo giornalistico nella sua integrità”. Orbene, l’Autorità rileva che tale definizione appare eccessivamente generica e di difficile applicazione pratica, risultando così inidonea a contribuire alla certezza della tutela riconosciuta dalla Direttiva Copyright agli editori e agli autori. La nozione di «estratti molto brevi» dovrebbe, pertanto, essere ricondotta entro i parametri certi e definiti, abitualmente utilizzati nel settore di riferimento e di immediata applicazione, quali ad esempio il numero di caratteri/battute dell’estratto. Inoltre , l’Autorità rileva che le modalità di recepimento in Italia dell’articolo 15 non trovano riscontro nemmeno nelle esperienze maturate in alcuni dei principali Stati membri che già hanno concluso l’iter di recepimento”.

Tra gli elementi che l’Antitrust ritiene limitativi della concorrenza ci sono i paramenti che dovrà tenere in considerazione l’Agcom per stabilire l’equo compenso, e cioè: “numero di consultazioni online dell'articolo, degli anni di attività e della rilevanza sul mercato degli editori di cui al comma 3 e del numero di giornalisti impiegati, nonché dei costi sostenuti per investimenti tecnologici e infrastrutturali da entrambe le parti, e dei benefici economici derivanti, ad entrambe le parti, dalla pubblicazione quanto a visibilità e ricavi pubblicitari”.

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Insomma, la situazione è complicata, la direttiva è scritta in maniera non sempre chiara, la normativa italiana va ben oltre quanto previsto dalla direttiva (gold plating), e sembra orientata a consolidare lo status quo. In questo quadro è piuttosto probabile che la normativa finirà dinanzi ai giudici, Corte Costituzionale (eccesso di delega) o anche Corte di Giustizia europea, per stabilire se va bene così oppure no. Ci vorranno anni, ma nel frattempo la posizione dei grandi editori si consoliderà a scapito dei piccoli, e nel mentre i diritti dei cittadini ad una vera e pluralistica informazione saranno ben poco riconosciuti.

L’impressione è che con la direttiva europea si sia voluto rafforzare (anche in un’ottica protezionistica, da cui in Italia la “sponda” dello Stato nelle vesti dell’Agcom) il potere contrattuale di autori e editori nell’ambito dei rapporti con le nuove realtà tecnologiche emergenti, ma in realtà ciò che si otterrà probabilmente è legare mani e piedi gli editori alle piattaforme, laddove i primi, se vogliono essere pubblicati dalle seconde, dovranno rincorrere le metriche e le decisione delle aziende Tech, così snaturando lo stesso ruolo dell’informazione pubblica (i contenuti scandalistici sono quelli più virali). L’effetto sarà, paradossalmente, di alimentare il potere delle grandi piattaforme e di introdurre nel contempo barriere all’ingresso del mercato consolidando la loro posizione.

Immagine in anteprima via Pixabay.com

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