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Facebook censura la foto simbolo della guerra in Vietnam. Poi ci ripensa

10 Settembre 2016 5 min lettura

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Facebook censura la foto simbolo della guerra in Vietnam. Poi ci ripensa

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Facebook torna al centro del dibattito giornalistico per il suo ruolo editoriale e per le responsabilità che - secondo alcuni - il social network rifiuterebbe di assumersi, limitandosi a un'applicazione settaria della propria politica sui contenuti.

Espen Egil Hansen, direttore dell’Aftenposten, il più grande giornale norvegese, ha accusato Mark Zuckerberg di "abuso di potere" in seguito alla decisione di Facebook di cancellare un post contenente una foto simbolo della guerra in Vietnam. In una lettera aperta a Zuckerberg, Hansen si rivolge “all’editore più potente del mondo” affermando che la decisione di censurare la foto “perché mostra immagini di nudo” rappresenta un gravissimo errore di giudizio. Con conseguenze negative sulla società.

La fotografia scattata dal reporter Nick Ut di Associated Press - e vincitrice di un premio Pulitzer - mostra una bambina di 9 anni nuda (Kim Phúc) in fuga assieme ad altri bambini dopo l’esplosione di una bomba al napalm. L’immagine era stata pubblicata su Facebook, assieme ad altre sei, dallo scrittore norvegese Tom Egeland in un post sulle fotografie che hanno cambiato la storia della guerra. Il social network ha rimosso la foto dal profilo di Egeland, impedendogli di pubblicare nuovi contenuti. Quando l’Aftenposten ha scritto un articolo per informare dell'accaduto e l’ha condiviso sulla pagina del giornale, anche il suo post è stato censurato.

Nella lettera aperta a Zuckerberg, Hansen riconosce che Facebook è uno strumento utile che ha migliorato la vita di molte persone - lui stesso, racconta, lo usa per tenersi in contatto coi suoi fratelli e con suo padre -, ma la compagnia non può ignorare il contesto di un’immagine come questa e il significato storico che essa ha. In altre parole, Facebook deve assumersi la responsabilità del proprio ruolo dominante nel settore dell'informazione (secondo il Pew Research Center, negli Stati Uniti il 66% degli utenti di Facebook si informa sulla piattaforma) e valutare con criterio editoriale i contenuti che non rispettano la policy, tenendo conto dell'importanza storica, artistica, o giornalistica, che questi hanno per la società.

Le parole di Hansen sono state amplificate da diverse testate internazionali e il dibattito ha coinvolto personalità della politica e della cultura norvegese, includendo il primo ministro Erna Solberg, che ha pubblicato la foto censurata incitando Facebook a “rivedere la propria politica editoriale”. Il social network ha però cancellato il suo post, così come aveva già fatto con lo scrittore Egeland e con il giornale Aftenposten.

Negli ultimi mesi, le scelte editoriali di Facebook sono state oggetto di polemica, specialmente per quanto riguarda la barra dei Trending Topic, inizialmente moderata da un team di giornalisti (accusati di favorire le notizie di ideologia progressista a discapito di quelle pubblicate da fonti vicine alla destra) e attualmente sotto il controllo di una nuova squadra, composta principalmente dagli ingegneri che hanno curato l’algoritmo (il cui esordio è stato disastroso, avendo permesso a una bufala di arrivare in cima alla classifica degli argomenti più discussi a livello mondiale, e amplificandone quindi ulteriormente la portata).

Il dibattito sulla convenienza o meno di lasciare nelle mani di un algoritmo (quindi senza filtro umano) la curation delle notizie è in contrasto con la recente decisione di Facebook di lottare contro bufale e clickbaiting. Molti giornalisti specializzati hanno argomentato in ripetute occasioni la necessità di un filtro umano di tipo editoriale, o la presenza di un public editor (Jeff Jarvis) nella compagnia.

Il problema però, come scrive Mathew Ingram su Fortune, è che Facebook non segue gli stessi principi etici e giornalistici della maggior parte dei media. Anzi, fino a oggi si è rifiutato di ammettere le proprie responsabilità. E la maniera con cui sta gestendo quest'ultima debacle, conferma la sua posizione.

Rispondendo al giornale norvegese, un portavoce di Facebook avrebbe dichiarato venerdì pomeriggio: "Se da una parte riconosciamo che la foto è iconica, rimane difficile stabilire quando si dovrebbe o non si dovrebbe pubblicare una foto di una bambina nuda".

In serata, Mike Isaac del New York Times ha informato su Twitter che Facebook ha deciso di ripristinare (e quindi autorizzare da oggi in poi) la famosa foto di Associated Press, riconoscendone l'importanza storica. "Dopo aver ascoltato la nostra community, abbiamo rivalutato il modo in cui i nostri Community Standard vengono applicati a questo caso".

Ma Facebook è davvero una "media company"? Sì, però no. O meglio, non solo.

Recentemente, durante un evento a Roma, Mark Zuckerberg ha negato per l'ennesima volta che la sua sia un'azienda mediatica. "Siamo una tech company, non una media company", perché "non produciamo nessun contenuto", ha detto, accentuando il loro ruolo di piattaforma che mette a disposizione dei suoi utenti molti strumenti per interagire, tra cui la possibilità di condividere notizie.

Secondo Mathew Ingram, l'argomentazione di Zuckerberg è debole: "Il fatto che crei contenuti è il modo migliore di stabilire se una compagnia è una media company? Neanche lontanamente". Ingram fa l'esempio dell'Huffington Post, i cui contenuti inizialmente erano creati esclusivamente (e gratuitamente) dai blogger che partecipavano nella piattaforma, e "nonostante questo, l'Huffington Post era chiaramente una media company".

O, come diceva Emily Bell pochi giorni fa su Twitter: "Non importa se Mark Zuckerberg dice che Facebook è una società di media o no. Sta assumendo le funzioni di una media company". Bell ha spiegato la sua posizione al riguardo durante il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia e in diverse analisi pubblicate negli ultimi mesi.

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Eppure, nonostante per molti aspetti la somiglianza tra Facebook e una società editoriale sia evidente - basti pensare alle più recenti funzioni come Instant Article e Facebook Live, senza dimenticare il dominio quasi incontrastato di Facebook Ads nella vendita di "spazi" pubblicitari -, dobbiamo riconoscere che Facebook è qualcosa di più e che l'etichetta di media company gli calza stretta.

Come spiega Jeff Jarvis, è "qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo: una piattaforma per mettere in contatto persone, tutti con tutti, così che possano fare quello che vogliono. I testi e le immagini che vediamo nelle pagine di Facebook non sono contenuti. Sono conversazioni. Sono condivisioni". E non risparmia una critica ai propri colleghi: "Ogni volta che nei media insistiamo a comprimere Facebook nella nostra casella istituzionale, non stiamo vedendo più in là del nostro naso: ci manca la comprensione che Facebook è un posto per le persone, le persone di cui abbiamo bisogno per sviluppare relazioni e per imparare a servirle in nuovi modi. Non è un posto per i contenuti".

Questo essere "qualcosa di nuovo", "qualcosa di diverso" rispetto ai media tradizionali, non esautora certo Facebook (1,7 miliardi di utenti) da responsabilità etiche. Anzi. Come Facebook - sia attraverso i suoi algoritmi che mediante il filtro umano - influenza il nostro modo di relazionarci e di interpretare la realtà presuppone una responsabilità che nessun giornale, radio, tv, o sito internet ha mai avuto prima d'ora nella storia. Una responsabilità talmente grande da far paura, come scrive nella sua lettera aperta il direttore dell'Aftenposten. Una responsabilità che noi utenti, noi abitanti dei social network, dobbiamo contribuire a ricordare continuamente a Facebook.

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