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Evviva le startup! Ma non salveranno il Paese

30 Luglio 2013 4 min lettura

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Evviva le startup! Ma non salveranno il Paese

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di Luisa Casanova Stua

Inutile dire che se negli ultimi mesi non avete mai sentito la parola “startup” siete davvero fuori dal mondo. In un’Italia provata dai morsi della crisi, tutti i pretesti sono buoni per tirare un sospiro di sollievo o anche solo immaginare un refolo di vento. Ecco allora che “startup” è divenuto l’equivalente di “Eldorado”.

Ovviamente il fenomeno si è espanso e in men che non si dica il Governo ha cercato di fornire delle norme per descrivere e regolare il fenomeno.

Il Decreto Legge Crescita 2.0 del 19 dicembre 2012 parla di un particolare tipo di impresa “la startup innovativa" descritta come una “società che ha come oggetto lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti e servizi innovativi di alto valore tecnologico”.

Dunque non c’è startup senza innovazione. Non si pensi però solo ad idee rivoluzionarie del tipo “perché non ci abbiamo pensato prima”, non tutti gli startuppari sono Mark Zuckerberg e quindi capita che più che altro si parli di servizi che tentano di migliorare la vita di ognuno di noi, si pensi ad Airbnb o Uber.

Oltre alle agevolazioni fiscali previste per ogni startup iscritta nell’apposito Registro delle imprese, il neonato Decreto del Fare, figlio del Governo Letta, parla di stanziamenti a fondo perduto per startup e spinoff universitari.

Una tale attenzione al fenomeno fa pensare che in esso si intraveda un valore importante o addirittura una chiave per uscire dalla crisi. Della serie “datemi una startup e vi solleverò il mondo”. A questo punto occorre una  riflessione. Partiamo dai numeri.

Il Registro delle Imprese aggiornato a luglio 2013 conta nella lista delle startup innovative 980 società. Le due regioni più prolifiche sono Lombardia ed Emilia Romagna, rispettivamente con 185 e 113 startup registrate, a seguire il Piemonte e il Lazio.

Da questo nuovo modo di fare impresa è nato un ecosistema formato da incubatori, acceleratori, centri di coworking etc. etc.  molto vitale soprattutto dal punto di vista occupazionale.

Fabio Lalli, CEO di IQUII e cofondatore di Followgram,  spiega che il valore aggiunto del sistema “startupparo” sia proprio «il cambiamento di mentalità che sta generando nelle nuove generazioni e nell'approccio al lavoro». In un’Italia in cui «il concetto di lavoro a tempo indeterminato è praticamente radicato nel DNA».

Francesco Giartosio, classe 1959, che insieme ad un team di ottici e sviluppatori ha deciso di dare vita a GlassUp,  afferma con fiducia che «per risollevare l'economia italiana la cosa più importante è il lavoro, e il lavoro non viene creato dalle grandi imprese, e nemmeno da nuove imprese che fanno le stesse cose di quelle vecchie».

Una vera rivoluzione, dunque, nel modo di fare impresa e di creare lavoro. Ma le startup sono davvero in grado di risollevare le sorti dell’Italia?

Qui la situazione si complica. Secondo alcune stime, infatti, solo una startup ogni 12 riesce a sopravvivere. E si badi bene che dire sopravvivere è molto diverso dal dire prosperare.

Ma cosa decreta il successo o l’insuccesso di una startup? Basta davvero una buona idea?
Secondo Lalli serve prima di tutto il team e, perché no, un sano colpo di fortuna. Per Daniele Maselli, cofondatore di Appluego insieme a Giulio Xhaet, l’ideale sarebbe «un mix tra giovani e meno giovani, informatici o tecnici e venditori».

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I fattori che portano al fallimento, invece, sono diversi: poca umiltà, ingenuità, presunzione, l’illusione che sia tutto semplice. Ma anche, spesso, la sfortuna che significa non trovarsi al posto giusto al momento giusto.

Ma cosa succede quando si fallisce? Indubbiamente l’impatto è enorme, sia dal punto di vista emotivo che da quello finanziario. Fermiamoci un momento a riflettere su quanti capitali vengano bruciati da quelle 11 startup che non riescano a sopravvivere: per creare una buona applicazione servono diverse migliaia di euro o, comunque, un considerevole monte ore di lavoro, si pensi poi al marketing, alla comunicazione, all’amministrazione, alle pubbliche relazioni... Un lavoro di squadra, sì, ma una squadra che costa. I capitali bruciati sono in parte pubblici o provenienti da enti promotori ma più spesso privati, appartenenti a persone che mettono in gioco molto più di un'idea.

Dunque le imprese innovative aiutano a ritrovare entusiasmo e ottimismo, ma la retorica sul paese che sarà salvato dalle startup sarebbe da evitare.

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1 Comments
  1. [...] che il settore informatico – nel quale, a  oggi, siamo tutto tranne che competitivi – possa trascinare da solo un Paese. Non sono un retrogrado, ho 25 anni, credo nella tecnologia e vivo di Internet, ma sono convinto [...]

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