Fine vita, cannabis legale: quando i cittadini dettano l’agenda
6 min letturaQuesta seconda estate sotto la minaccia della pandemia ha visto la partecipazione politica tornare protagonista a suon di firme per i referendum. Quello per l’eutanasia ha infatti ampiamente superato ad agosto il quorum di 500 mila firme, mentre si attende il termine della raccolta di quello appena lanciato, che riguarda la depenalizzazione dei reati connessi alla cannabis e all'autocoltivazione di qualunque sostanza per uso personale.
Per il primo, il successo testimonia la volontà di una presa di posizione politica su un tema molto difficile da trattare in Italia. Ancora forte è l’idea che l'eutanasia e il suicidio assistito siano un omicidio, mentre manca un vocabolario condiviso che sappia dare dignità alla dolorosa esperienza che separa le malattie “trattabili” da quelle “curabili”; ciò consegna ogni giorno all’illogica violenza dell’accanimento terapeutico, al peso silenzioso scaricato sulle spalle dei pazienti e dei loro familiari. Ma il successo della raccolta firme è anche l’ultima tappa di una scia tracciata dalle importanti lotte per il fine vita nei casi di Eluana Englaro, Piergiorgo Welby e Dj Fabo, lotte che hanno visto in prima linea l’associazione Luca Coscioni, tra le promotrici del referendum.
Ad accelerare la raccolta firme è stata inoltre ad agosto l’introduzione della raccolta firme digitale, attraverso Spid o carta di identità elettronica, grazie a un emendamento proposto da Riccardo Magi di +Europa. Si tratta di una importante novità la cui portata si sta vedendo inoltre su un’altra iniziativa, per l’appunto quella del referendum "cannabis legale". Il quale si sta appoggiando esclusivamente su questa nuova modalità, attraverso il sito referendumcannabis.it. Nei primi quattro giorni ha raccolto oltre 400.000 firme: si è ben oltre metà cammino, verso il traguardo di 500 mila firme entro il 30 settembre.
Il dato politico che se ne può desumere parla di una democrazia diretta più viva che mai, attraverso il suo strumento per eccellenza. A ciò bisogna purtroppo affiancare una politica rappresentativa nel migliore dei casi taciturna, sebbene solitamente propensa, attraverso i suoi interpreti principali, a buttarsi a capofitto sui temi del giorno, in nome dell’engagement e poi casomai del consenso politico. Per un considerevole bacino elettorale che si mobilita, insomma, c’è una schiera di importanti e potenziali interlocutori che fa finta di nulla, o si arrocca nelle stanze del Palazzo di pasoliniana memoria. Segno, prima di tutto, di interessi divergenti o di imbarazzi difficili da spiegare a distanza.
Del resto se guardiamo alle mobilitazioni degli ultimi mesi, possiamo registrare una forte sottorappresentazione mediatica, la quale è buona compagna della cattiva politica. Pensiamo agli operai della GKN, licenziati senza preavviso tramite email: la mobilitazione è diventata presto un fatto nazionale, eppure la prospettiva dei lavoratori è completamente decentrata in favore di quei politici che cascano a vario titolo dal pero. Questo nonostante la dimensione della protesta sia diventata extranazionale, e coinvolga anche lo stabilmento GKN di Birmingham. Il licenziato, in Italia, se va bene è un povero cristo di cui tocca occuparsi per carità cristiana, purché non si impigrisca troppo per colpa del reddito di cittadinanza.
Se c’è qualcosa che in Italia tende a unire diritti sociali e civili, insomma, è il malcelato mal di pancia di chi, per professione, dovrebbe dare voce a chi protesta e incarna la richiesta di trasformazione sociale; di chi dovrebbe andare incontro alle folle per raccontarle, o per dialogare con esse. Se quel coro di voci non è incasellabile con una narrazione pre-esistente, con delle etichette pronte all’uso, come per esempio “no vax” (ora siamo arrivati, per sciatteria intellettuale, ai “no foibex”), allora lo sguardo di chi racconta si fa ora cieco, ora miope, ora torvo, oscillando tra silenzi, deformazioni o dileggio - ve li ricordate i “gretini” di Fridays for Future?
In questo scenario, dunque, il risultato finora conseguito dal referendum sulla cannabis legale si presenta come qualcosa di immediatamente strabiliante. Sia per il rapido numero di firme raccolto in così tempo, sia per l’assenza di chissà quale copertura mediatica a trainare l’avvio dell’impresa. Senza contare la forza che la cultura proibizionista sa mettere in campo, a partire dal Parlamento - pensiamo ad esempio alla guerra contro la cannabis light, definita persino “droga di Stato”, o ai problemi che si incontrano nell’uso terapeutico.
Ed è ancora più strabiliante se si pensa che, data appunto la recente novità della firma digitale, il referendum è stato fattivamente organizzato in poco tempo. “In due settimane abbiamo organizzato il quesito, le riunioni con giuristi e costituzionalisti, la piattaforma, la campagna social, la rete delle associazioni partner, la raccolta fondi, tutte cose che in genere si organizzano in un anno” ci spiega Antonella Soldo di Meglio Legale, tra i promotori del referendum, che abbiamo sentito per provare a capire le ragioni di questo risultato.
A monte, infatti, c’è un terreno preparato negli anni recenti da un tessuto vivissimo e composito. A partire - ancora - dall’Associazione Luca Coscioni e dalla Cild, che nel 2015 ha lanciato il progetto Non me la spacci giusta, cui bisogna aggiungere coltivatori, ricercatori e partiti politici legati alla galassia antiproibizionista - da +Europa a Potere al Popolo. “Quelli che hanno promosso il referendum oggi sono gli stessi che hanno promosso una legge di iniziativa popolare nel 2016 sulla legalizzazione” spiega ancora Soldo, proposta ferma da anni in Parlamento. La stessa Meglio Legale, nasce invece lo scorso anno come campagna di lobbying istituzionale: “Abbiamo portato avanti un disegno di legge per la coltivazione domestica fino a 4 piante, testo che è stato adottato la settimana scorsa in Commissione Giustizia”.
A questo tessuto si affiancano le campagne di sensibilizzazione e persino di disobbedienza civile, come #iocoltivo, dove si è chiesto alle persone di postare su Instagram foto di piante di cannabis dalla propria abitazione, in violazione della legge, mettendo poi a disposizione il supporto legale per le eventuali cause. La campagna ha avuto la partecipazione attiva di circa 2500 persone. Se si guarda al dato pensando all’engagement può sembrare un numero basso: ma se lo si guarda secondo l’ottica della disobbedienza civile, considerando che nel complesso ci sono state solo 12 cause, tutte archiviate, si tratta di un numero enorme.
Queste campagne hanno avuto nel tempo due effetti: quello di cementare i rapporti di una rete effettiva di associazioni e portatori di interesse, e quello di creare ovviamente delle nicchie di confronto e consapevolezza sull’argomento. Il referendum è stato infine l’innesco vincente, giunto con il giusto tempismo nello sfruttare uno strumento nuovo come la firma digitale. Da ciò è seguito poi il tam tam spontaneo via social, che ha coinvolto cittadini entusiasti, persone famose e persino pagine Facebook satiriche.
Per chiunque si occupi di politica o di comunicazione, ci sono insomma varie pagine di appunti da prendere. Ma, per assicurarsi di stare il più possibile lontano dalle sirene dello spontaneismo e dell’improvvisazione, bisogna tener presente che questo tipo di risultati hanno un costo, che, nel caso proprio di un referendum con firma digitale, è di circa un euro a firma. Senza contare le persone impegnate a tempo pieno. “La cosa importante” sottolinea Soldo, “è che abbiamo lavorato anche sul fundraising”. Senza porsi il problema dei costi la possibilità di incidere non va oltre le belle speranze.
Il cammino dei due referendum è appena cominciato, quindi bisognerà vedere la traiettoria completa per capire fino in fondo l’impatto politico che avranno. Tuttavia non appare prematura una riflessione sul rapporto che in questi tempi sembra quasi contrapporre politica rappresentativa (e quindi partiti e istituzioni come il Parlamento) e politica partecipativa (quindi attivismo e associazionismo). Quel gigante di Stefano Rodotà in Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione avvertiva come queste due forme di politica avessero bisogno l’una dell’altra, di come ciascuna si snaturasse nel pensare di non avere bisogno dell’altra forma, e quindi dei corpi che la costituiscono.
Lo possiamo vedere, ad anni di distanza, nel panorama odierno, nelle storture prodotte dagli eccessi di ciascuna, come ciò sia vero. Una certa cultura classista che vede “attivismo”, “militanza” e in generale tutto ciò che viene dal basso come un turbamento dell’ordine, come un rumore di fondo che disturba il lavoro dei “competenti”, produce una politica rappresentativa oligarchica. Alimenta l’autoreferenzialità delle classi dirigenti, e quindi ne diminuisce la capacità di analisi e di risoluzione dei problemi. Ma, d’altro canto, l’idea che la politica si faccia fuori e lontano dai corpi intermedi, dalle istituzioni, che esse anzi siano in un qualche modo depositari di una forza corruttrice ineluttabile, consegna all’irrealismo la prassi politica, e nutre il rancore cui prima o poi attingeranno gli scaltri tiranni.
Foto in anteprima via Meglio Legale