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Europa, una tassa sui link a favore degli editori. Perché è sbagliata

29 Agosto 2016 14 min lettura

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Europa, una tassa sui link a favore degli editori. Perché è sbagliata

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Aggiornamento

Il 14 settembre la Commissione europea ha presentato il suo progetto di riforma della normativa sul copyright. Il testo conferma sostanzialmente quanto detto nell'articolo.
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La riforma del copyright

Nei giorni scorsi sulle pagine di Statewatch (organizzazione non-profit che si occupa di giornalismo e diritti civili) è trapelato il progetto di valutazione di impatto delle nuove norme europee in materia di diritto d'autore. Si tratta di un documento non definitivo, ma dal quale emergono le idee di base della Commissione europea nella stesura delle nuove regole. Il 21 settembre, infatti, dovrebbe essere presentata la nuova normativa.

La riforma della normativa in materia di copyright, che ha avuto un percorso piuttosto travagliato, è stata rallentata dalla consultazione indetta dalla Commissione su due aspetti che hanno raccolto un numero elevato di interventi e critiche da parte non solo degli attivisti dei diritti civili, ma anche degli stessi cittadini. Il documento, di 182 pagine, individua tre obiettivi da raggiungere: assicurare un maggiore accesso ai contenuti, realizzare un mercato digitale ben funzionante per il copyright e adattare le eccezioni al diritto d’autore all'ambiente digitale.

Al di là della problematica sulla libertà di panorama, la consultazione si è soffermata in particolare sui problemi economici degli editori, nell’ambito, appunto, delle difficoltà dei titolari dei diritti d’autore a realizzare dei profitti dai loro contenuti. La premessa è, quindi, che gli editori stanno facendo male nell’ambiente digitale, mentre le piattaforme online, i cosiddetti OTT (Google, Facebook, ecc…), ottengono enormi profitti.

La tassa sui link

Emerge con evidenza che per la Commissione non si tratta di una questione di legalità, quanto di un mero problema di ridistribuzione della ricchezza che genera l’ecosistema Internet. La soluzione prospettata dalla Commissione è quella di introdurre una sorta di Snippet Tax, cioè una tassa sulla condivisione di link e frammenti di un articolo (appunto snippet). È, in poche parole, la stessa identica cosa che negli ultimi tempi hanno realizzato sia la Germania che la Spagna, con risultati disastrosi. Per la Spagna, infatti, si è valutata una perdita a carico degli editori superiore ai 10 milioni, soprattutto verso i piccoli editori.

In Germania, la Link Tax tutela l’uso dei testo e delle miniature delle immagini da parte degli aggregatori online e dei motori di ricerca, mentre l’equivalente spagnolo non si applica ai motori di ricerca orizzontali (tipo Google Search).
La vicenda tedesca e quella spagnola, se analizzate attentamente, ci chiariscono che il problema non è affatto di legalità, appunto, cioè se Google (è preso ad esempio quale operatore principale tra gli aggregatori di News) o altri “rubano” i contenuti agli editori. Infatti se il problema fosse quello sarebbe bastato attivare le apposite direttive all’interno del file robots del sito web per impedire che Google News indicizzi, e quindi aggreghi, le notizie del giornale online.

All’introduzione della legge tedesca, Google ha risposto chiudendo l’accesso alle notizie dei giornali tedeschi, i quali, invece di essere contenti della cessazione del “furto”, si sono adirati contro l’azienda americana chiedendo al governo un intervento perché imponesse a Google di pagare. Cosa che non è accaduta e quindi gli editori tedeschi hanno fatto marcia indietro preferendo essere linkati da Google News piuttosto che perdere l’ingente traffico generato dall’azienda americana. In Germania anche l’editore Axel Springer, il più acerrimo contestatore di Google News, ha dovuto ammettere che il traffico di Google è troppo importante per far quadrare i suoi conti.

In Spagna la cosa è andata diversamente solo perché la legge vieta agli editori di rinunciare al compenso, per cui è accaduto che il Google News spagnolo è stato chiuso da Google, con perdita di traffico da parte dei giornali, fino al 14% per i piccoli editori, il 6% per i grandi editori.
Si noti che la perdita è maggiore per i piccoli editori, quindi questo tipo di leggi di fatto concentra maggiormente il mercato.

È evidente, quindi, che l’approccio della Commissione è esattamente quello degli editori, non un problema di cosa sia giusto per legge, ma piuttosto una questione di ridistribuzione dei profitti online. Gli editori, infatti, per tamponare le perdite dovute al difficoltoso passaggio all’economia digitale - qualcuno direbbe per la loro incapacità di adattarsi alle nuove tecnologie - hanno preteso strette legislative per limitare il più possibile la circolazione delle opere letterarie online, chiedendo l’estensione dei loro diritti. Visto che non riescono a fare sufficienti profitti col loro lavoro, frignano verso il legislatore chiedendo di mungere la vacca grassa: Google.

La battaglia tecnica si combatte da anni, e ha avuto un momento di rilievo nel procedimento Svensson (CGUE caso 466/12), nel quale si è discusso di hyperlink e legittimità degli stessi.
Non è questo il luogo per ripercorrere il dibattito giurisprudenziale e dottrinale, basti ricordare l’importanza della definizione di “comunicazione al pubblico”. Nel momento in cui si ha una comunicazione al pubblico il titolare del diritto d’autore ha il diritto di essere compensato per l’uso del contenuto, ma la Corte europea nel procedimento sopra citato ha sostanzialmente detto che la ripubblicazione di un articolo già visibile online (quindi non dietro paywall) non è “nuova” comunicazione al pubblico, e quindi non fa sorgere nuovi diritti.

Detto in breve il semplice atto di collegare (link) contenuti in rete non è violazione del copyright perché non raggiunge un nuovo pubblico. Ma la sentenza ha lasciato senza risposta alcune domande, come ad esempio quando è possibile definire i contenuti "accessibili al pubblico", oppure come devono essere trattati i link dietro paywall. Questa situazione ha offerto il destro alla Commissione europea per inserirsi nel dibattito con la soluzione proposta.

Un nuovo diritto esclusivo

La soluzione della Commissione europea è l’introduzione di un neighbouring right for publishers (diritto connesso per gli editori), una dizione, si noti, diversa da ancillary right (diritto accessorio) o similari, probabilmente proprio per cercare di evitare le critiche che le precedenti proposte in materia hanno collezionato, ma che non muta i termini della questione. La possiamo chiamare Link Tax, Google Tax, Snippet Tax, diritto connesso, alla fine non è altro che un nuovo diritto esclusivo, diverso rispetto a quello degli artisti, che viene assegnato agli editori, con notevole estensione del quadro normativo in materia di copyright. Si tratta a tutti gli effetti di una tassa sui link.

A pagina 147 del progetto di valutazione si precisa che il nuovo diritto non cambierà lo status legale degli huperlinks.

This intervention would not change the legal status of hyperlinks in EU law as it follows from the case-law of the CJEU according to which the “provision on a website of clickable links to works freely available on another website” does not constitute a copyright relevant act

In realtà questo nuovo diritto finirà per modificare strutturalmente l’intero funzionamento di Internet ponendo nella mani degli editori il controllo per la circolazione dei contenuti in rete.

La norma in questione potrebbe avrebbe un campo di applicazione vastissimo e in genere questo tipo di leggi sono generiche in modo da favorire il richiedente la tutela. Innanzitutto si applica ai frammenti, per cui l’uso di un titolo “attacco terroristico a Parigi” potrebbe determinare la nascita di un diritto sullo specifico titolo con impossibilità a riutilizzarlo. La norma, inoltre, si potrebbe applicare a tutti, essendo piuttosto difficile distinguere chi è e chi non è editore. Scrivere un post su Facebook giuridicamente è rendere disponibile un’opera letteraria online, quindi ogni utente di Internet potrebbe essere in teoria un “editore”.
Tale norma, infine, comporterebbe la moltiplicazione del numero di transazioni necessarie per le licenze dei contenuti, rendendo estremamente difficoltoso la circolazione delle informazioni in rete.
E questo senza tenere conto del termine di scadenza di questo nuovo diritto, per il quale la Commissione non si pronuncia ma gli editori insistono per un termine di 50 anni.

Accordi tra aziende contro la pirateria

L’altro aspetto preso in considerazione dalla Commissione riguarda la grande quantità di contenuti in violazione dei diritti dei titolari, caricati dagli utenti. In relazione a ciò si evidenzia l’assenza nell’ambito del diritto europeo di un obbligo da parte delle piattaforme online di agire “proattivamente”.
La soluzione della Commissione è di invogliare le aziende a cercare accordi con i titolari dei diritti, al fine di realizzare strumenti per la rimozione automatizzata dei contenuti in violazione del copyright. Si tratta dell’istituzionalizzazione di pratiche poste in essere dalle aziende americane, come ContentId, un sistema di rimozione creato da Google nella piattaforma YouTube.

Il problema in relazione a tali sistemi automatizzati è palese. Innanzitutto sono forieri di numerosi abusi ed errori, e questo è dovuto principalmente al fatto che tali strumenti si basano sulla considerazione che ogni copia di un contenuto sul quale insistono diritti d’autore è una violazione. Tale giudizio è evidentemente sbagliato all’interno di ordinamenti (come quello europeo ma anche quello americano) nel quale esistono eccezioni al diritto d’autore (come il fair use) che consentono l’utilizzo di opere protette in presenza di determinati requisiti.

Un giudizio di questo tipo è estremamente tecnico ed è impossibile farlo svolgere ad un sistema automatizzato, basti ricordare il famoso caso Lenz vs Universal, al secolo il caso Dancing Baby, che si trascina dal 2007 nelle aule dei tribunali americani e che solo nel 2015 ha avuto una conclusione parziale, con un giudice che ha statuito che occorre valutare caso per caso se un’opera è soggetta a fair use.
Una norma che affida alle aziende private il potere di censurare un contenuto online sulla base di una valutazione di parte, tra l’altro automatizzata, finirebbe per alterare definitivamente i confini non solo della tutela del copyright ma anche dell’esercizio della libertà di espressione.

Altro aspetto da non sottovalutare è che sistemi quali ContentId sono estremamente costosi (YouTube ha speso 60 milioni per realizzarlo) e obbligare le piattaforme online all’utilizzo di sistemi del genere finirebbe per creare un ostacolo insormontabile per tutte le piccole e medie imprese che mai si potrebbero permettere l’ingresso nel mercato a tali costi. Immaginate un’organizzazione non-profit come Wikipedia, o una semplice message-board di utenti privati, un forum dove si discute di notizie di attualità linkando articoli di giornali.

Nel mettere insieme le due proposte i dubbi sorgono spontanei: il tutto sembra un modo per imporre alle grandi aziende del web una ridistribuzione dei loro profitti verso gli editori europei in crisi, nel contempo, però, le grandi aziende del web si vedrebbero introdotto un onere legale che impedirebbe ad altri concorrenti l’ingresso nel mercato. Insomma, un do ut des tra aziende già nel mercato.

L'ecosistema Internet

Le proposte della Commissione appaiono come un mezzo per tutelare gli editori tradizionali dalla concorrenza dei nuovi modelli di business creati con Internet, in breve si propugnano norme protezioniste per difendere lo status quo incapace di adattarsi alle nuove tecnologie. Per fare ciò si azzoppa definitivamente Internet, danneggiando così irreparabilmente uno strumento che si è rivelato capace di avviare numerosissimi modelli di business differenti ed innovativi.

E quindi torniamo al fulcro del problema, cioè il modello di business di Internet. Perché in definitiva dalla nascita di questa nuova tecnologia il problema è sempre lo stesso, che Internet ha messo in crisi i modelli di business tradizionali, consentendo l’avvio di modelli di business completamente diversi dal classico modello unidirezionale (dal produttore al consumatore). In Internet possono convivere tantissimi modelli di business, multidirezionali, senza intermediari, ma anche i modelli tradizionali, volendo, se i consumatori li preferiscono.

Il problema del modello classico (artisti→produttori→consumatori) è che limita enormemente le possibilità dell'artista, in quanto chi decide se un’opera deve nascere è solo il produttore. Per capirci, un editore potrebbe ritenere un libro di fantascienza inadatto ad essere pubblicato non perché non valido ma semplicemente perché l’editore ha troppi libri di fantascienza a catalogo e un’altra pubblicazione finirebbe in concorrenza con le sue stesse opere. Ed è questo il modello tradizionale.
Con Internet, invece, l’artista, finalmente libero, può rivolgersi direttamente al pubblico che diventa l’unico giudice della commerciabilità dell’opera, con ciò consentendo la pubblicazione anche di opere di nicchia (pochi esemplari venduti) che nel modello tradizionale non nascerebbero mai perché non vi è un rientro di profitti sufficiente per l’editore.

Nel corso del dibattito relativo proprio alla riforma della normativa sul copyright, la Commissione DG Market, che si occupava all’epoca della riforma, si preoccupò di analizzare l’ecosistema Internet per valutare quali interventi fossero necessari al fine di migliorarne il funzionamento. Nel 2013 il presidente della DG Market presentò un diagramma che esemplificava quello che secondo la Commissione era il funzionamento di Internet.

Secondo tale diagramma Internet è un canale di distribuzione, alla stregua della televisione, il cui scopo è di incanalare i contenuti dai produttori ai consumatori (e i profitti nel verso opposto, ovviamente). Lo scopo delle regolamentazioni del mercato (oggi il DSM: Digital Single Market) è solo quello di garantire il pagamento dei produttori, altrimenti, secondo la DG Market, l’intero ecosistema muore.
Quello che occorre fare è, quindi, garantire che i contenuti non si disperdano (perciò enforcement contro la pirateria) e che i profitti siano incanalati versi i produttori. Insomma, Internet è niente altro che un centro commerciale più grande, niente di più, niente di diverso.

È abbastanza ovvio che sia ancora questa la prospettiva utilizzata dalla Commissione europea, che poi è quella dei produttori di contenuti ovviamente, una prospettiva estremamente semplicistica, anzi potremmo dire retrograda, che non tiene affatto in considerazione i diversi modelli di business e di distribuzione e in particolare il modello di business fondato sugli user generated content, a favore del quale si spese addirittura l’Ofcom britannico (l’equivalente dell’Agcom) con uno studio pubblicato nel 2013.

Secondo tale studio gli UGC consentono di realizzare nuovi modelli di business (crowdfunding, volontariato, servizi di distribuzione e advertising, ecc..), in particolare nel settore tecnologico e in aree di aggregazione, social curation, e così via, inoltre guidano l'innovazione, stimolano la partecipazione politica (es. l'elezione di Obama, la primavera Araba) e sociale, alimentano il dibattito di massa, la condivisione della cultura, creano nuove opportunità nel settore educativo, sanitario e dei media locali. E, nel contempo, creano anche nuove occasioni di business per i content incumbents, cioè gli operatori storici di contenuti.
Secondo quel rapporto, anzi, sarebbe il copyright tradizionale a minacciare questi nuovi nascenti modelli di business, che sono quelli che, invece, davvero portano ad innovare. Internet avrebbe così avviato un processo di creative destruction, indispensabile per rompere l’immobilismo attuale del mercato.

Un problema politico

Dopo il trapelamento del progetto alcuni membri della Commissione europea hanno cercato di giustificare l’iniziativa, come si legge in un articolo del Corriere della Sera (dove in realtà non si cita il nome del politico, né quando né dove avrebbe parlato, non c’è fonte. Ma supponiamo che sia così, in fondo è quasi certo che saranno quelli gli argomenti giustificativi dell’iniziativa).

Il giornalista scrive che il pagamento richiesto dagli editori europei alle piattaforme online «non sarà un obbligo ma un’opzione». Ovvio, nessuno è obbligato a riscuotere i diritti d’autore ed è abbastanza palese che nessuno andrà a chiedere ai singoli privati la “tassa” per aver linkato un articolo, sarebbe maggiore il costo che il profitto. È palese, invece, che tali richieste si concentreranno nei confronti delle grandi piattaforme online, tipo Google e Facebook.

Per i cittadini non dovrebbe cambiare nulla. Noi potremo continuare tranquillamente a linkare su Facebook senza problemi, poi casomai sarà Facebook a dover pagare per noi, oppure, se deciderà che non gli conviene, a rimuovere gli articoli (tramite il suo sistema ContentID, che si chiama Rights Manager). Ovviamente chi gestisce un proprio sito online dovrà fare i conti con questo nuovo diritto e pagare gli editori se linka un loro articolo, a meno che gli editori non rinuncino ad esercitare il loro diritto (ma questo il privato non lo può sapere prima).

L’articolo precisa che il problema è di garantire agli editori una posizione più forte quando negoziano con gli altri attori del mercato. Insomma si tratta di un problema di concorrenza, non di violazione delle norme sul copyright. Questo è pacifico, come abbiamo detto più sopra e in articoli precedenti.
In realtà è piuttosto difficile sostenere che un link e un frammento di notizia possano entrare in concorrenza con l’articolo completo. Non si tratta di una rassegna stampa parassitaria. Non ha alcun senso sostenere che il lettore si limita a leggere il titolo dell’articolo e non va sul sito del giornale. Questo, casomai, è un problema di qualità degli articoli, non una colpa degli aggregatori di notizie (che aggregano i titoli).

La Commissione europea, però, si riferisce ad una questione di posizione dominante sul mercato da parte di Google. In tale ottica, anche se la posizione dominante di Google è indubbia, sarebbe stata ottenuta senza alcun abuso a quanto si apprende dalle inchieste dei garanti antitrust europei. In Europa notoriamente il problema antitrust sorge se c’è abuso della posizione dominante, mentre negli Usa è, invece, sufficiente la sola esistenza di una posizione dominante nel mercato, fermo restando che occorre definire opportunamente il mercato (parliamo di search oppure di news?).
Il punto è che non sembra si verifichi alcuna riduzione delle visite ai giornali per colpa di Google News, come certifica uno studio di Pew Research e affermano anche le decisioni degli editori tedeschi, che hanno preferito rinunciare ai loro diritti derivanti dalla Link Tax pur di rimanere nell’indice di Google. Quindi non vi sarebbe sviamento di clientela, anzi.

Il calo di traffico da parte dei giornali, e quindi dei profitti, probabilmente è dovuto al fatto che la gente preferisce stare su Facebook piuttosto che andare sui giornali. In tal senso è vero che le piattaforme sottraggono traffico ai giornali, ma evidentemente stiamo parlando di mercati diversi. Allora i giornali hanno preferito accordarsi con Facebook in modo da far trovare le notizie anche li, ma qui è questione di accordi privati. Ed ecco che entra in gioco la questione della forza contrattuale. Le piattaforme si trovano in una posizione contrattuale più forte, questo è vero, ma non è un problema di concorrenza, casomai di qualità delle notizie.

Quindi, anche un approccio legato alla concorrenza e alla posizione dominante genera parecchi dubbi. Del resto è pacifico che in questo momento la posizione dominante (settore news) non è più di Google, che è incalzato da Facebook. Ma se il problema fosse quello, e si volesse agire per riequilibrare la situazione, a favore degli editori europei, pensate che la soluzione migliore sia quella di realizzare una norma generale che si applica a tutte le piattaforme online? Quindi sia a quelle due aziende in posizione dominante che a quelle non in posizione dominante, compreso tutte quelle piattaforme online che ancora non sono nate e che quando nasceranno si troveranno a dover rispondere a norme studiate per limitare Google e Facebook?

Sempre l’articolo del Corriere precisa che «l’obiettivo per la Commissione è "assicurarsi che gli europei possano avere accesso a un’offerta legale di contenuti ampia e diversificata" e "rafforzare la diversità culturale garantendo allo stesso tempo che autori e detentori di diritti siano protetti meglio e in modo più equo"». Basta andare a vedere cosa è accaduto in Spagna e Germania per verificare che l’unico risultato ottenuto con le Link Tax è la contrazione del mercato, dove le perdite maggiori sono state sopportate dai piccoli editori. Alcuni piccoli editori, specialmente locali, hanno dovuto chiudere. Il danno realizzato con la Link Tax all'informazione spagnola è devastante. Altro che offerta “ampia e diversificata”!.

Insomma, che sia un problema politico (e non di semplice concorrenza) è evidente, da anni. È sempre la solita vecchia storia del mercante di ghiaccio (gli editori) all’epoca dei frigoriferi (le piattaforme online). Ma la soluzione, ancora una volta, appare sbagliata: quella della Commissione è di riscrivere le regole e ristrutturare l’intera rete Internet, in modo da impedire l’inevitabile collasso dell’attuale modello di business, sacrificando l’innovazione, la creatività e la libertà di informazione. Il risultato sarà una contrazione del mercato delle news nel quale sopravvivranno solo pochi grandi editori, mentre i piccoli scompariranno del tutto.
Ai grandi editori conviene? Forse, sul breve periodo.

Cosa succede adesso

Il 21 settembre la Commissione dovrebbe presentare la bozza finale da sottoporre al Parlamento europeo e al Consiglio d’Europa. La speranza è che il Parlamento sappia fermare queste proposte retrograde.
Del resto, come ci ricorda Julia Reda, un membro dell’attuale Parlamento europeo nonché estensore della prima proposta di riforma veramente innovativa in materia di copyright, molti membri del Parlamento europeo hanno già criticato aspramente questo tipo di proposte, addirittura molti editori hanno sostenuto che tali proposte danneggiano l’editoria, una coalizione di start-up evidenzia l’impatto negativo sulla ricerca e l’innovazione, molti giuristi sono contrari, ed infine centinaia di migliaia di cittadini sostengono l'iniziativa Save the link contro questo tipo di proposte legislative.

Chi ha interesse ad un Internet che sia davvero pluralista, che ha a cuore la libertà di espressione, dovrebbe firmare la petizione.

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