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UE approva stop ai motori diesel, benzina, metano e GPL. La strada dell’Italia sui biocarburanti rischia di essere senza uscita

30 Marzo 2023 13 min lettura

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UE approva stop ai motori diesel, benzina, metano e GPL. La strada dell’Italia sui biocarburanti rischia di essere senza uscita

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“Siamo convinti che anche i biocarburanti possano rientrare nella categoria dei combustibili neutri in termini di bilanciamento complessivo di CO2 e contribuiscano alla progressiva decarbonizzazione del settore. Ci adopereremo pertanto, nell’ambito delle procedure di approvazione degli atti legislativi indicati dalla Commissione, a far considerare anche i biocarburanti tra i combustibili neutri in termini di CO2”. 

Il commento del ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin prova a mascherare la delusione del governo Meloni che sui biocarburanti deve incassare un altro boccone amaro europeo.

Il 28 marzo, infatti, il Consiglio Energia dell’Unione Europea, in cui erano presenti i rappresentanti governativi sul tema dei 27 Stati membri, ha approvato il regolamento che stabilisce standard di prestazione in materia di emissioni di CO2 più rigorosi per autovetture e furgoni nuovi. In applicazione del pacchetto di misure Fif for 55, con le quali l’Unione Europea intende ridurre le emissioni di gas serra di almeno il  55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, il regolamento approvato dal Consiglio prevede in una prima fase la riduzione delle emissioni di CO2 del 55% per le nuove auto e del 50% per i nuovi furgoni dal 2030 al 2034 rispetto ai livelli del 2021; e successivamente la la riduzione del 100% delle emissioni di CO2 sia per le nuove auto che per i furgoni a partire dal 2035. Se la Germania è riuscita in questo passaggio a far approvare un’eccezione per i cosiddetti e-fuels (i carburanti sintetici, ottenuti dall’estrazione dell’idrogeno dall’acqua e dal successivo mescolamento con l’anidride carbonica), la stessa operazione non è riuscita all’Italia con i biocarburanti (i carburanti ottenuti da materie prime di origine agricola). Entrambi gli Stati puntano infatti ad allungare la vita ai motori endotermici oltre il 2035, la data oltre la quale l'UE intende mettere al bando la produzione di veicoli con motori a benzina, diesel, metano e GPL.

Lo scopo era quello di replicare l’analoga operazione che si era svolta durante la tassonomia europea, cioè la classificazione delle attività economiche considerate sostenibili, nella quale la manovra a tenaglia degli Stati membri sulla Commissione Europea aveva consentito di inserire tra le fonti energetiche green il nucleare e, soprattutto, il gas naturale.

Ora, invece, l’Italia rischia di restare con il cerino in mano. Sul voto di martedì 28 marzo l’Italia si è astenuta insieme a Romania e Bulgaria, mentre la Polonia ha votato contro (era il proposito del governo Meloni fino a lunedì), e già l’elenco dei paesi che si sono opposti testimoniano che l’Italia sta giocando non solo una partita di retroguardia nel settore automotive ma lo sta facendo insieme ad alcuni degli Stati più deboli dell’Unione.

Il ruolo delle auto elettriche nella lotta al cambiamento climatico

Le nuove regole europee, che saranno attive dopo la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, prevedono la messa al bando a partire dal 2035 della produzione di motori endotermici - benzina, diesel, metano e GPL - con lo scopo, si legge nel comunicato stampa del Consiglio, di “ridurre le emissioni del trasporto su strada, che ha la quota più alta di emissioni da trasporto” e fornire “la giusta spinta all'industria automobilistica per passare alla mobilità a emissioni zero, garantendo al contempo una continua innovazione nel settore”. È vero che nel regolamento europeo è prevista una clausola di revisione nel 2026, con la quale la Commissione potrà valutare il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni del 100% entro il 2035 da parte di eventuali carburanti neutri, ma è altrettanto innegabile che difficilmente in tre anni i biocarburanti potranno ottenere uno standard tanto ambizioso. Perché i dubbi che aleggiano sui biocarburanti sono al momento molto più numerosi dei presunti pregi. A patto di non leggere i giornali. Dove la distinzione tra informazione e propaganda si fa sempre più complicata da individuare.

I dubbi sui biocarburanti

Nel corso del mese di marzo il governo italiano è passato dal trionfalismo del ministro Fratin (“Abbiamo dettato la linea all’Europa, oltre all’elettrico c’è il biocarburante”) al cauto ottimismo della premier Giorgia Meloni (“La partita sui biocarburanti non è affatto persa”) fino alla lettera congiunta inviata dai ministri Fratin, Urso e Salvini al vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans (“C’è la necessità di rispettare il principio della neutralità tecnologica per garantire una transizione economicamente sostenibile e socialmente equa"). 

Proprio a marzo, in mezzo a queste manovre poi rivelatesi infruttuose (almeno al momento), veniva diffuso un report che smontava una per una le tesi a favore dei biocarburanti. Come riporta Altreconomia:

“I biocarburanti vegetali sono probabilmente la cosa più stupida mai promossa in nome del clima”. Non ha usato mezzi termini Maik Marahrens, biofuels manager di Transport&Environment nel commentare il nuovo rapporto pubblicato il 9 marzo che la federazione europea per i trasporti e l’ambiente ha curato insieme all’ong Oxfam. Oggi l’Europa utilizza l’equivalente di circa 9,6 milioni di ettari di terre agricole (una superficie pari a quella dell’Irlanda) per coltivare colza, mais, soia, barbabietole da zucchero, grano e altre derrate alimentari che, invece di finire sulle nostre tavole, vengono utilizzati per produrre bioetanolo, biodiesel e biometano. “Stiamo cedendo vaste porzioni di terra per coltivazioni che poi bruciamo nelle nostre automobili - riprende Marahrens - È uno spreco scandaloso: questi terreni potrebbero sfamare milioni di persone o, se restituiti alla natura, potrebbero diventare serbatoi di carbonio ricchi di biodiversità”.

L’utilizzo di questi combustibili era stato introdotto a livello europeo con una direttiva del 2009 che mirava a ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili; ma poi si era scoperto che altrettanto dannosa era l’integrazione di quest’ultimi con i biocarburanti di origine alimentare, soprattutto con l’olio di palma e l’olio di soia, che ha portato negli anni a deforestazioni selvagge in Indonesia. In realtà il report di T&E e Oxfam si concentra esclusivamente sui biocarburanti di prima generazione, quelli appunto di  origine vegetale, e tralascia i biocarburanti di seconda generazione, ottenuti da colture marginali o con scarti alimentari. Come però ha fatto notare Nicola Armaroli, chimico e dirigente di ricerca del CNR nonché tra i più noti esperti energetici in Italia, “meno del 10% dei biocarburanti attualmente in circolazione è costituito da biocarburanti di seconda generazione”. 

Lo stesso Armaroli, tra l’altro, è uno degli autori di un report, consegnato ad aprile 2022 al ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile (oggi Trasporti) e recentemente ripreso e ampliato in un libro per le edizioni Il Mulino, che analizzava le varie opzioni di mobilità sostenibile. Con l’elettrico che veniva indicato la prima opzione per decarbonizzare i trasporti e le altre solo quando non c’erano alternative. In quel report si sottolineava che 

“La parziale sostituzione dei combustibili convenzionali con biocombustibili porta a vantaggi marginali in termini di riduzione delle emissioni, in quanto il profilo di emissioni dei biocombustibili, anche di seconda generazione, è comunque alto e comporta basse efficienze e notevoli costi energetici. Biometano, idrogeno, biocombustibili e combustibili sintetici saranno disponibili in quantità limitate, a causa dei vincoli di disponibilità di biomasse sostenibili o di energia rinnovabile a basso costo”.

Fonte: rapporto Stemi - Decarbonizzare i trasporti

Neanche un anno dopo, il governo Meloni sconfessa il report che il governo Draghi aveva promosso e vira in maniera decisa sui biocarburanti, senza fare più distinzioni. Un cambio che si può sintetizzare con una sola parola: ENI.

La propaganda ENI sui biocarburanti

A leggere i giornali di questi ultimi mesi il fatto che ENI sia il principale attore in campo nei biocarburanti, e il vero regista della manovra italiana in Europa, si evince in maniera indiretta. Basta guardare, infatti, le tonnellate di pubblicità con le quali l’azienda energetica ha invaso ogni organo di informazione. Tra settembre e ottobre 2022 si possono leggere numerosi annunci del genere, dove la distinzione tra informazione e pubblicità si fa fumosa:

Fonte: il Messaggero

Viene segnalato che da ottobre 2022 le due bioraffinerie italiane di Gela e Venezia smetteranno di utilizzare olio di palma proveniente dall’Indonesia. Nessuno però ricorda che tale scelta non è buona volontà di ENI ma soltanto un obbligo di legge. Ad aprile dello scorso anno, infatti, il Parlamento italiano, recependo la legge di delegazione europea, aveva stabilito il divieto di miscelazione dell’olio di palma (e dell’olio di soia) al combustibile diesel a partire dall’1 gennaio 2023. Dall’annuncio pubblicato su Il Messaggero (e su altre testate) si apprende che:

Lo scorso novembre è arrivato a Gela dal Kenya il primo carico di olio vegetale prodotto nell’agri-hub di Makueni, centro di raccolta e spremitura di sementi di ricino, di croton e di cotone che funge anche da polo di formazione e supporto tecnico per gli agricoltori. ENI è stata la prima azienda al mondo a certificare il ricino e il croton, permettendo a un cotonificio africano di raggiungere tali standard di garanzia e offrendo nuove opportunità di mercato agli agricoltori locali. L’iniziativa keniota non si ferma qui: prevede la costruzione di altri agri-hub (il secondo entrerà in esercizio nel 2023) e l’aumento della produzione col coinvolgimento di decine di migliaia di agricoltori, contribuendo in maniera significativa a promuovere lo sviluppo rurale del Paese. Inoltre, ENI sta esportando anche l’olio da cucina usato (UCO) raccolto in hotel, ristoranti e bar di Nairobi, tramite un progetto già avviato che promuove la cultura del riciclo e del reddito generato da un rifiuto.

All’assemblea degli azionisti 2022 l’associazione A Sud aveva chiesto maggiori delucidazioni all’azienda, partendo dall’assunto che:

Avremmo auspicato soluzioni più circolari e a filiera corta. E invece la nuova materia prima della “bioraffineria” sarà olio di ricino proveniente dall’Africa. Scrive ENI che “l’olio di ricino, durante la prima fase di produzione, che durerà un anno, sarà trasportato con flexibag che viaggeranno via mare e saranno scaricati nei porti di Palermo e Catania. Successivamente, all’incrementarsi dei volumi, il trasporto avverrà via nave”. Addirittura l’azienda spiega che “sono in fase di perfezionamento i calcoli emissivi associati” di tali trasporti. Di fronte a questa mancanza di valutazione, l’azienda poi prova a rimediare aggiungendo che si tratta in ogni caso di valori “comunque sensibilmente inferiori, lungo l’intera catena produttiva, rispetto ad altri feedstock di origine vegetale che saranno spiazzati da queste nuove disponibilità”. Ma come fanno a conoscerli se non li hanno calcolati?

In attesa di capire se i calcoli emissivi dell’intero ciclo di produzione dell’olio di ricino, necessario per i biocarburanti di seconda generazione, siano stati effettuati, i dubbi restano e si estendono anche agli oli esausti. Su Il Manifesto a maggio 2022 si leggeva che:

“L’olio vegetale esausto in Italia è pochissimo” spiega Ennio Fano, presidente del consorzio RenOils che, insieme al Conoe, si occupa della raccolta degli oli esausti in Italia. Secondo gli ultimi dati i due consorzi insieme raccolgono 80mila tonnellate annue. “Solo l’ENI avrebbe bisogno, per mischiarlo al diesel e ottenere i biocarburanti, di un milione di tonnellate nel 2022. Da poco l’azienda ci ha comunicato che dal 2025 questo bisogno raddoppierà, e dunque solo per ENI saranno necessarie due milioni di tonnellate”. Un’ampia fetta degli oli necessari per alimentare le bioraffinerie di Gela e Venezia, dunque, non verrà dagli oli esausti italiani e anzi verrà importata, da Cina e India che sono i principali fornitori. 

Proprio la stessa Cina che nella transizione all’elettrico viene agitata come uno spauracchio perché possiede risorse e competenze, mentre lo stesso discorso a quanto pare non vale per i biocarburanti. Almeno per il governo Meloni. 

La regia a sei zampe sulle manovre italiane in Europa viene efficacemente sintetizzata da Il Fatto Quotidiano:

Perché per Giorgia Meloni e Matteo Salvini è così cruciale la partita europea – al momento persa – sull’inclusione dei biocarburanti tra i combustibili utilizzabili dai motori termici anche dopo il 2035? La risposta è semplice: come è sempre accaduto, politica estera ed energetica sono legate a doppio filo ai piani dell’ENI. Basta leggere la memoria sul pacchetto Ue Fit for 55 presentata in Parlamento un anno fa dal cane a sei zampe, al centro in questi giorni del risiko per il rinnovo dei vertici delle partecipate pubbliche. Lì, a pagina 5, il gruppo del petrolio e del gas scriveva di ritenere necessario “correggere l’attuale approccio che non considera le minori emissioni dei biocarburanti ai fini del rispetto degli standard emissivi” e di auspicare che la Commissione “si esprima e si impegni a favore dello sviluppo di un quadro di policy in grado di supportare efficacemente la produzione di biocarburanti sostenibili utilizzabili in purezza”. 

A febbraio 2023, intanto, ENI avvia un’altra mastodontica campagna di comunicazione sul nuovo prodotto HVOlution: si tratta del nuovo biodiesel Hydrotreated Vegetable Oil, cioè olio vegetale idrogenato, che viene lanciato in 50 stazioni di servizio, le quali diventeranno 150 a fine marzo. Non proprio una grande notizia, se si pensa che l’azienda di Stato possiede in Italia 4.310 stazioni di servizio. Eppure basta cercare su un qualsiasi motore di ricerca per scoprire la massiccia copertura giornalistica. Addirittura Il Corriere della Sera pubblica la mappa delle 50 stazioni, con tanto di indirizzo per ciascuna, segnala le auto compatibili col nuovo biodiesel e fa notare che “costa dieci centesimi in più del diesel normale perché le materie prime hanno un prezzo maggiore e i costi di produzione sono più alti”.

Fonte: Il Corriere della Sera

Una storia d’amore, quella tra ENI e mondo dell’informazione, ultimamente interrotta dal quotidiano Domani, tra le poche testate capaci di restare critiche sull’operato del cane a sei zampe e di segnalare le influenze dell’azienda nella politica energetica nazionale, tanto da essersi beccata una piccata risposta da parte dell’ufficio stampa di ENI dopo un editoriale del direttore Stefano Feltri. La newsletter Charlie de Il Post, che si occupa dell’analisi delle dinamiche che muovono e reggono il sistema informativo italiano e internazionale, si è concentrata più volte sul “groviglio di interessi e priorità che limita l’autonomia dei maggiori quotidiani dal loro maggiore inserzionista pubblicitario – ENI”, raccontando nell’edizione del 26 marzo la predilezione dell’azienda, rivendicata dall’ufficio stampa, di denunciare i giornali in sede civile piuttosto che in sede penale quando ritiene di essere di fronte ad articoli accusatori privi di ogni fondamento”:

“I rischi di risarcimenti in questi casi (uniti ai costi comunque onerosi di ogni azione giudiziaria) sono quasi sempre molto più preoccupanti per giornali e giornalisti di quelli penali, e le grandi aziende che non hanno problemi di spese possono invece considerarli investimenti preziosi per la propria comunicazione (...) Domani è uno dei pochi quotidiani (assieme al Fatto e al Manifesto) a occuparsi con toni spesso critici della grande azienda energetica ENI (le cui complesse attività creano frequenti occasioni di possibile critica), con cui la maggior parte delle altre testate intrattiene invece relazioni molto accoglienti e dipendenti dai grandissimi investimenti pubblicitari di ENI stessa nei giornali”.

“Ascoltare l’automotive e non solo ENI”

Davvero la strada dei biocarburanti è l’unica che l’Italia possa provare a percorrere? Non ne è convinto Andrea Boraschi, direttore  di Transport & Environment Italia, una delle più note e accreditate ong europee nel campo della mobilità sostenibile. Che i biocarburanti possano essere utili nel settore del trasporto pesante, soprattutto l’aviazione e il marittimo, è un argomento fuori discussione, nel senso che su questo punto si ritrovano concordi anche le posizioni più scettiche. D’altra parte proprio a metà marzo il ministero dell'Ambiente ha rilasciato la VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) per l'investimento che consentirà a ENI di produrre presso la bioraffineria di Gela anche biocarburante per aerei (biojet), utilizzando cariche di seconda e terza generazione, ossia di origine biogenica (materiale organico in decomposizione). Quello che è in discussione è il tentativo di estendere l’uso dei biocarburanti al trasporto privato e, soprattutto, di farne lo strumento per salvare una tecnologia vecchia più di 100 anni come quella della combustione termica per le auto. Che, come ricordava ancora l’esperto Nicola Armaroli in una recente puntata di Radio3 Scienza, “è altamente inefficiente e l’uso dei biocombustibili non cambia nulla né dal punto di vista dell’efficienza né dal punto di vista dell’inquinamento atmosferico”. A chi conviene allora proseguire su questa strada?

“Io penso che il governo italiano dovrebbe innanzitutto trovare un momento per confrontarsi in maniera più approfondita con il mercato e con l’industria dell’automotive - osserva Boraschi a Valigia Blu - ENI, lo sappiamo, è una realtà produttiva con un peso specifico molto rilevante nel nostro Paese, è una società controllata dallo Stato e attraverso di essa passano una serie di questioni strategiche. Ma le battaglie fatte per garantire gli interessi dell’azienda dovrebbero passare in secondo piano rispetto agli orientamenti dell’industria dell’automotive, che sono chiarissimi e vanno verso l’elettrificazione del settore: perché si tratta della tecnologia più matura, più efficiente e più disponibile sul mercato”.

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Al contrario di quel che viene ripetuto dal governo e da alcuni apparati di potere, dunque, la transizione dell’automotive verso l’elettrico non è imposta dall’Unione europea e non è il modo per consegnarsi al predominio della Cina. O, meglio, entrambe le ipotesi rischiano di diventare reali se invece di subire questi processi, palesando resistenze innaturali e controproducenti, si cerca di governarli e di anticiparli.

“Ad oggi ci sono 1.200 miliardi di investimenti sull’auto elettrica e su tutta la catena di valore, ciò può essere una fonte importante per la creazione di posti di lavoro - dice ancora Boraschi - In Italia, già a partire da quest’anno secondo un’analisi di Motus-E, un’auto su cinque prodotta nel nostro Paese sarà elettrica. In più la parte dell’automotive dedicata alla componentistica oggi vende più all’estero più del 60% di quel che produce. Mentre tutti i gruppi industriali hanno piani di elettrificazione completa delle loro flotte che anticipano di fatto la scadenza del 2035. Ecco, il governo italiano secondo noi dovrebbe guardare a questa immagine più ampia e completa e adottare una linea in Europa che non sia necessariamente di retroguardia. Non credo che in prospettiva al nostro Paese faccia bene essere la trincea ultima del motore endotermico”.

Immagine in anteprima via itmotor

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