Etiopia: tra stupri e violenze nel Tigray si sta consumando un’altra guerra sul corpo delle donne
8 min letturaAggiornamento 23 marzo 2021: Le violenze e gli stupri nel Tigray non resteranno impuniti. Almeno è quanto si spera. Il capo del Governo etiope, Abiy Ahmed ha rotto il silenzio delle ultime settimane, ha riconosciuto per la prima volta la presenza delle truppe eritree nella regione e ha fatto sapere che verranno presi provvedimenti verso coloro che saranno giudicati colpevoli di tali crimini. L’indignazione della comunità internazionale, così come le inchieste di alcune testate internazionali, e la richiesta di un’inchiesta da parte dell’ONU, hanno spinto il paese a prendere atto della grave situazione nella regione a Nord del paese dove dal novembre scorso è in corso un conflitto che sta sfuggendo di mano. Da settimane i cittadini, quei pochi che riescono a farlo visti i blackout dei social, cercano di fare arrivare al mondo notizie di quanto sta accadendo: distruzioni, civili giustiziati a sangue freddo, fosse comuni e donne violentate.
All’inizio il governo si è giustificato parlando di propaganda, ma ora video e testimonianze non si possono più negare. Seppure, in un tweet Abiy, fedele alla versione propaganda, abbia dichiarato: “Indipendentemente dalla propaganda esagerata del TPLF, qualsiasi militare responsabile dello stupro delle nostre donne e dei saccheggi avvenuti nelle nostre comunità dovrà risponderne poiché la loro missione è quella di proteggere”. La resistenza del popolo tigrino è concentrata a contrastare le truppe federali etiopi, le forze eritree venute in aiuto del governo etiope e i soldati delle forze speciali della regione Amhara.
Nel frattempo la Ethiopia Rights Commission ha confermato il massacro di civili ad Axum per mano dei soldati eritrei e chiede una inchiesta approfondita in Tigray.
Aggiornamento 26 marzo 2021: L'Etiopia, infine, ha annunciato che le truppe eritree lasceranno il paese.
Aggiornamento 2 aprile 2021: Quasi 2 mila persone uccise in più di 150 massacri perpetrati da soldati, paramilitari e ribelli nella regione del Tigray, in Etiopia, sono state identificate da ricercatori che si occupano del conflitto in atto nel nord del Paese iniziato lo scorso novembre tra le forze etiopi del primo ministro Abiy Ahmed e quelle del Fronte di liberazione della popolazione del Tigray, scrive il corrispondente per l'Africa del Guardian Jason Burke. Le identificazioni si sono basate sui rapporti di una rete di informatori nella provincia settentrionale dell'Etiopia gestita da un team dell'Università di Ghent in Belgio.
researchers in Belgium identified 1900 victims of 150 massacres in Tigray by name.
7000 others listed but unconfirmed as yet.
Killings mostly by Eritrean troops, around a third involving Ethiopian forces too tho.
Our report: https://t.co/QoZJyZN8Yh
— Jason Burke (@burke_jason) April 2, 2021
I ricercatori, riporta il giornalista, "hanno scoperto che solo il 3% delle vittime identificate era stato ucciso in attacchi aerei o dall'artiglieria. La maggior parte è morta per colpi di arma da fuoco per esecuzioni sommarie durante perquisizioni o in massacri organizzati come quello di Axum, in cui si pensa siano state uccise 800 persone, o nella città di Mai Kadra. Tra gli episodi in cui la colpa può essere determinata con sicurezza, i soldati etiopi sembrano essere stati responsabili del 14% delle uccisioni, le truppe eritree – che hanno combattuto a fianco delle forze federali – del 45% e i paramilitari irregolari della vicina provincia di Amhara del 5%. I testimoni hanno accusato i soldati etiopi ed eritrei che operavano insieme nel 18% dei casi".
Intanto funzionari umanitari hanno denunciato che nel Tigray un numero crescente di persone potrebbe morire di fame: «La situazione nelle zone rurali è la peggiore. Centri medici, scuole, ospedali, banche e hotel sono stati saccheggiati. Animali da fattoria e grano vengono bruciati o distrutti». Inoltre, ci sono continue denunce di diffuse violazioni dei diritti umani, inclusa un'ondata di aggressioni sessuali.
Non è una novità, ma è sempre assurdo e doloroso scoprire quanto lo stupro sia diventato parte esplicita e abituale delle guerre tra uomini. Le notizie che arrivano dal nord dell’Etiopia, dove dallo scorso novembre è in corso un conflitto tra le forze etiopi del primo ministro Abiy Ahmed e quelle del Fronte di liberazione della popolazione del Tigray, parlano di violenze - senza limiti e vergogna - contro le donne. Le cui testimonianze, raccolte dai pochi giornalisti presenti nella regione, fanno pensare a un vero e proprio piano genocidario. Pulizia etnica, insomma.
L’obiettivo di tali abusi sarebbe quello di “cambiare il sangue” delle donne tigrine, cancellare una discendenza, sostituendola con un’altra. Non si sa quante donne abbiano perso la vita a causa delle violenze, considerata la brutalità con la quale vengono perpetrate. Si racconta di oggetti inseriti in vagina, di gang di decine di uomini che abusano a turno di una donna, di violenze ripetute a giorni di distanza su ragazze tenute prigioniere. Un copione letto e riletto. Quello che si sa - secondo le testimonianze di donne che hanno subito violenza - è che a compiere gli stupri sono uomini in divisa: sia quella dell'esercito eritreo, che è andato da tempo ad aumentare le fila di quello nazionale; sia quella delle forze Amhara, sia - addirittura - quella dell'esercito etiope.
Una crisi che da militare e poi umanitaria, sta assumendo un altro aspetto. Aspetto che rientra in un crimine orrendo: genocidio. A essere vittime dell’odio e di quella che sembrerebbe anche una motivazione razziale (in questo caso etnica) sono le donne contro cui continua a essere messo in atto lo stupro come arma di guerra, arma che agisce sulla dignità della persona prima che su di un intero popolo.
Già il 5 febbraio scorso la responsabile dell’ONU sulla prevenzione del genocidio, Alice Wairimu Nderitu, aveva rilasciato un’allarmata dichiarazione che avvertiva dell’escalation di violenze etniche nella regione del Tigray. Sono solo quattro mesi - di questa guerra civile – ma pare che gli abusi siano stati perpetrati da subito. Come atto di vendetta, come atto di chi sembra certo dell’impunità. E solo negli ultimi due mesi almeno 108 sono stati i casi riportati in quattro ospedali della regione. A denunciarli sono soprattutto dottori e personale paramedico che operano nei nosocomi (o quello che ne rimane) del Tigray.
Racconti orrendi, che in più di un’occasione, sono stati affidati a un’altra donna. Questa donna è la presidente dell’Etiopia, Sahle-Work Zewde. È anche grazie a lei che il governo etiope è stato messo di fronte all’evidenza. Lo scorso febbraio la presidente, che aveva visitato alcune case-rifugio dove sono ospitate donne che hanno subito violenza (ma molte si sono rifiutate di incontrarla: inizialmente avrebbe liquidato le denunce come propaganda), ha rilasciato una dichiarazione, pubblicata anche su Twitter. Impossibile che il primo ministro non l’abbia letta.
La difficoltà di comunicazioni e i continui blackout di Internet non hanno dunque fermato le notizie su continui attacchi alla popolazione civile, testimonianze sempre più difficili da negare (anche l’ Ethiopian Human Rights Commission ha stilato un rapporto) mentre gli esperti avvertono: continuare così vuol dire rischiare di perdere totalmente il controllo della crisi che in questo caso non potrebbe che peggiorare.
Ancora una volta, dunque, il concetto di pace assume contorni strani. In questo caso i contorni sono quelli di un capo di Governo insignito del Nobel e che solo un anno dopo dalla cerimonia di Oslo inviava le truppe regolari a “ristabilire la legge e l’ordine” in una regione, Tigray appunto, accusata di essere troppo critica e volersi affrancare dal governo centrale. Ma secondo gli analisti a giocare un ruolo fondamentale in questi conflitti è anche il fattore etnia: oromo e tigrini, dove gli oromo sono il gruppo dominante, e poi gli amhara. Combattenti della regione Amhara sono stati richiamati da Abiy per rinforzare le truppe nazionali nel Tigray e anche nei loro confronti si scagliano le accuse della popolazione. Giorni fa il loro portavoce aveva negato il coinvolgimento dei soldati nelle violenze, dichiarandole – in linea con il governo centrale – mera propaganda.
Le agenzie umanitarie stimano che già oltre 200.000 persone abbiano dovuto lasciare le loro case e rifugiarsi in campi allestiti in tutta furia. E si tratta perlopiù di donne e bambini. L’amministrazione ad interim del Tigray parla di 4 milioni di persone in stato di bisogno e più di un milione di sfollati. La stima dell’ONU è di tre milioni di persone che hanno bisogno di assistenza. Mancanza di accesso all’acqua, al cibo e alle cure mediche potrebbero provocare una catastrofe umanitaria peggiore di quella che si sta svolgendo al momento. Una catastrofe di cui in passato il paese – in altre condizioni – ha già fatto esperienza. E che potrebbe anche incidere sulla sicurezza dei paesi confinanti.
Medici Senza Frontiere fornisce un quadro desolante in cui la furia di uomini armati, oltre che sulle donne, si scatena sulle strutture sanitarie. Solo una su dieci rimane funzionante. Secondo un recente rapporto su 106 strutture visitate nella Regione del Tigray, il 30% sono state danneggiate, il 73% saccheggiate, l’87% non sono più accessibili, praticamente distrutte. Molti ospedali sono addirittura occupati dai militari e le ambulanze sono state prese in consegna. Un’aperta violazione della legge internazionale umanitaria, denunciano i responsabili di MSF che ricordano quanto prima dello scoppio di questo conflitto proprio il Tigray fosse la regione che vantava il migliore sistema sanitario della nazione. Ora, tutto questo è al collasso. Distruzione di cose e vite umane.
Nelle settimane scorse Amnesty International aveva diffuso notizie di uccisioni di massa nell’area della città sacra, Axum, da parte delle truppe eritree. Non azioni militari, ma crimini contro l’umanità, secondo l’organizzazione non governativa, che aveva fatto riferimento a immagini satellitari che mostrerebbero fosse comuni neanche ben nascoste. Un’accusa smentita dal governo eritreo che ancora oggi tergiversa sul pesante coinvolgimento nel conflitto in corso.
Intanto, dal novembre scorso, quando è cominciata la tensione, la situazione è andata degenerando e proprio a partire da quel 28 novembre quando le forze federali avevano preso controllo della capitale della Regione, Mekelle, e dichiarato vittoria al paese e al mondo intero. Diventa difficile fare previsioni, soprattutto considerate forze in campo ed equilibri che non si riescono a gestire né controllare. Il Tigray People Liberation Front (TPLF) è stato per anni uno dei partiti principali della coalizione di governo etiope, ma l’ascesa al potere di Abiy, nel 2018, ha modificato gli assetti. È stato anche il timore di trovarsi in disparte nelle nuove politiche che – secondo gli osservatori – avrebbe spinto il TPLF, nel settembre 2020, a procedere a proprie elezioni regionali criticando di fatto la scelta del governo di rinviarle a causa della pandemia. Una decisione che il premier etiope non si è lasciato imporre. Ma l’intervento immediato delle truppe, i bombardamenti, le violenze gratuite non hanno fatto altro che acuire la crisi, che appena iniziata poteva essere risolta diversamente.
Così anche la macchina umanitaria - che come al solito prevede una grande quantità di denaro, accordi e mediazioni – si è messa in moto. Il World Food Programme (Agenzia delle Nazioni Unite) ha fatto sapere che occorrono 107 milioni di dollari per avviare il piano di emergenza nella regione del Tigray. Piano di emergenza che, ovviamente, non potrà essere messo in atto senza il consenso e la collaborazione, anche logistica, del governo etiope. È con questo che i responsabili del WFP stanno mediando per fare arrivare, e in sicurezza, gli aiuti a milioni di persone. Ma non è solo di fame e pallottole che si muore durante una guerra. Soprattutto durante guerre dove osservatori e stampa vengono tenuti lontano il più possibile. Non si sa quante donne siano state violate, non si sa quante parleranno, non si sa – ripetiamo – quante ne siano morte. E non si sa se qualcuno pagherà per questo crimine. Chi può, nel frattempo, trova una via di fuga oltre i confini, soprattutto in Sudan. Mentre l’Eritrea, che confina con il Tigray, per una parte della popolazione etiope torna ad essere un paese nemico. I tigrini, intanto, chiedono l’apertura di un’inchiesta. E la chiede anche l’ONU.
Non c’è dubbio che in questi casi sarebbe fondamentale agire in fretta, per fermare tale scempio, naturalmente, ma anche nella raccolta di testimonianze. Così come alcune ricerche hanno sottolineato, più tempo passa da un evento traumatico e la registrazione dei testimoni meno credibili le testimonianze stesse vengono considerate.
Immagine anteprima via video CNN