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L’ascesa dell’estrema destra in Svezia

25 Settembre 2022 17 min lettura

L’ascesa dell’estrema destra in Svezia

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Domenica 11 settembre si sono tenute in Svezia le elezioni legislative. Oltre sei milioni e mezzo di uomini e donne (su 7,7 milioni di aventi diritto al voto) hanno eletto i 349 membri del riksdag, il parlamento monocamerale.

Il voto non ha smentito quanto i sondaggi prevedevano da fine agosto, e che molti in Svezia e nel resto d’Europa temevano: il grande successo dei Democratici svedesi (Sverigedemokraterna). Con il 20,54% dei voti questo partito populista di estrema destra, a lungo un paria della politica svedese, ha sorpassato i suoi alleati del blocco di destra, incluso il Partito moderato (Moderata samlingspartiet), dal 1991 pilastro liberalconservatore di ogni coalizione di centrodestra. 

Nel 2002 il sociologo Jens Rydgren si interrogava con acume sulle ragioni profonde dell’eccezionalismo svedese: nessun partito di destra radicale era allora all’orizzonte, e mentre in Francia il Front National toglieva il sonno all’Europa, e in Austria furoreggiava Jörg Haider, in Svezia i Socialdemocratici sfioravano il 40% dei suffragi, e al riksdag potevano contare su ben 144 seggi (e i Moderati solo su 55).  Vent’anni dopo il panorama politico è ben diverso. I Moderati hanno preso il 19,10% dei voti, e al Riksdag potranno contare solo su 68 seggi. Cinque in meno dei Democratici svedesi che, ironia della sorte, sono stati sdoganati nel 2019 proprio dai Moderati.

Proprio l’ottimo risultato dei Democratici svedesi (+3,01% rispetto alle legislative del 2018) ha permesso al blocco di destra di superare, seppur di pochissimo, il blocco rosso-verde: 49,59% dei voti contro 48,87%. Gli altri partiti di destra hanno visto un calo delle preferenze: -0,74% per i Moderati, -0,98% per i Cristiano-Democratici (Kristdemokraterna), -0,88% per i Liberali (Liberalerna). 

Gli stessi quattro partiti, nel complesso, nel 2018 raggiungevano il 49,18% dei voti. E il Partito socialdemocratico (Sveriges socialdemokratiska arbetareparti), resta la maggior forza politica svedese; con il 30,33% dei suffragi e 107 seggi al riksdag è persino in ripresa rispetto al misero risultato delle legislative del 2018 (28,26% dei voti, 100 seggi). Ma ciò che ha sgomentato milioni di svedesi, e attirato l’attenzione dei media di tutto l’Occidente, è che per la prima volta nella storia della democrazia svedese un partito di estrema destra sia arbitro dei destini di un governo.

In Svezia vige il cosiddetto parlamentarismo negativo. Uno Statsminister (primo ministro) cade solo se viene sfiduciato da almeno la metà dei parlamentari più uno. Il leader dei Moderati, Ulf Kristersson, che giusto lunedì 19 è stato indicato dal talman (presidente) del riksdag Andreas Norlén come il più plausibile candidato a statsminister, potrà costituire un governo di centrodestra (con i Cristiano-democratici, e magari anche i Liberali) solo se i Democratici svedesi gli garantiranno perlomeno una benevola astensione. O se lo faranno – ma è altamente improbabile – i Socialdemocratici. 

In realtà i Democratici svedesi vorrebbero essere parte del nuovo governo, ma anche questo è improbabile, e in base a ciò che filtra dai media sembra che persino i Democratici svedesi ne siano consapevoli. Con l’estrema destra nel governo i Liberali (che hanno già pagato un alto prezzo elettorale per un blocco di destra così di destra)  si spaccherebbero. Forse lo stesso Kristersson non vuole rischiare di rafforzare un partito più pesante del suo a livello elettorale. Per tale ragione sembra che i Democratici svedesi stiano negoziando con i Moderati e gli altri alleati un pacchetto; in cambio del sostegno al governo Kristersson vorrebbero contropartite sostanziose: politiche in linea con il loro programma elettorale (a partire da un giro di vite sull’immigrazione) e forse anche la carica di talman (sarà infatti il nuovo riksdag a eleggere il successore di Norlén).

«Il mio punto di partenza è ancora quello che la Svezia beneficerebbe grandemente da un governo di maggioranza», ha dichiarato il leader dei Democratici svedesi, Jimmie Åkesson. Che però ha aggiunto: «Per me, personalmente, e per il mio partito le politiche sono ciò che più conta». L’ennesima ostentazione di pragmatismo e “buon senso” da parte di uno dei più abili (e spregiudicati) politici della storia recente svedese.

La lunga marcia dell’estrema destra

Il successo dei Democratici svedesi alle legislative non è infatti un fulmine a ciel sereno. Già alle legislative del 2018 il loro ottimo risultato (62 seggi al riksdag; soltanto otto in meno dei Moderati) aveva fatto sensazione. E alterato consolidati equilibri parlamentari, contribuendo all’aumento della volatilità politica di un paese abituato alla stabilità (lo provano il collasso del secondo governo Löfven nel 2021 nonché la debolezza del governo Andersson). Ma con le elezioni dell’11 settembre Åkesson ha superato se stesso.

È lui il principale artefice di un vero capolavoro politico, per quanto controverso sul piano morale e pericoloso su quello dei diritti. Dal 2005 a oggi il quarantatreenne Åkesson e alcuni fedelissimi come Björn Söder o Richard Jomshof (tutti membri della “banda della Scania”, in quanto originari della contea più meridionale del paese) hanno trasformato un partito radicale ai margini della società, che nel 2010 valeva appena il 5,7% dei voti, nella seconda forza della Svezia. 

Un partito di estrema destra ma pop, che piace ai lavoratori, e che sa usare con astuzia i social media (anche troppo, forse). Ancora, un partito di cui giornali e TV non smettono di parlare, e che è riuscito a riorientare in profondità il discorso pubblico. Åkesson ha imparato senz’altro che la politica di massa è, per citare lo storico britannico Donald Sassoon, «un campo di battaglia in cui la mossa più importante è quella di decidere qual è il problema». E secondo Åkesson il problema è l’immigrazione. Un altro è la criminalità. 

Svezia, terra di accoglienza, multiculturalismo e… xenofobia 

La storia svedese è sempre stata legata a doppio filo con i flussi migratori. Nel XIX secolo (e agli albori del XX) oltre un milione di svedesi lasciarono il regno per farsi una nuova vita negli Stati Uniti. Ma con l’industrializzazione del paese, e l’ascesa del nazismo, la Svezia si trasformò lentamente in terra di immigrazione, e di accoglienza. Per esempio il grande autore satirico Kurt Tucholsky, berlinese dalla penna tagliente, abbandonò la Germania nazista per rifugiarsi in Svezia, dove morì nel 1935. Il socialdemocratico Willy Brandt, futuro cancelliere della Germania Ovest, riparò in Norvegia e poi, quando il paese fu invaso dai tedeschi, nella neutrale Svezia. 

Nel 1943 la resistenza danese riuscì a portare in salvo in Svezia la quasi totalità degli ebrei della Danimarca, allora occupata dai tedeschi. Sul finire della Seconda Guerra Mondiale i vita bussarna (bus bianchi) trasportarono in Svezia almeno 17mila donne e uomini strappati dai campi di concentramento nazisti.

Nel dopoguerra, grazie alla leadership di socialdemocratici come Olof Palme (non a caso ancora oggi disprezzato da molti razzisti svedesi), il paese nordico divenne la “superpotenza morale” pronta a inviare aiuti umanitari, e ad accogliere migranti, rifugiati e richiedenti asilo da ogni angolo del pianeta. Un’autorappresentazione utile a Stoccolma, senza dubbio, ma con solide basi nella realtà. In mezzo secolo la Svezia, più di ogni altro paese europeo, ha aperto le sue porte a baltici, ungheresi, cecoslovacchi, jugoslavi. A vietnamiti, cileni, tamil, curdi. A libanesi, iraniani, iracheni, palestinesi, etiopi, eritrei, somali, siriani. 

Ma nel XX secolo la Svezia non è stata solo una terra di accoglienza. Negli anni ’20 e ’30 nel paese nordico fiorirono piccoli partiti e gruppuscoli fascisti, intrisi di anticomunismo, odio contro i socialdemocratici, antisemitismo, razzismo, nazionalismo. Ebbero tutti scarso peso politico (pur godendo di un certo sostegno in ambienti dell’alta società simpatizzanti con la Germania di Hitler). Alcuni loro slogan però presero piede: il famigerato Svensk Socialistisk Samling (SSS), per esempio, coniò il grido di battaglia “Vogliamo una Svezia per gli svedesi”, che nelle sue diverse varianti sarebbe sopravvissuto a lungo. Molto a lungo.

La sconfitta del Terzo Reich e il trionfo della socialdemocrazia spazzò via il fascismo svedese, ma rimasugli di partitini e gruppuscoli fascisti sopravvissero. Soprattutto in Scania, nella città universitaria di Lund e a Malmö. Era originario della Scania il fondatore del partito neonazista Nordiska rikspartiet (Partito del Reich nordico). A Malmö, metropoli portuale tra le più vive e multietniche del Nordeuropa, negli anni ‘70 aveva il suo quartier generale il partito di destra radicale Svenska Folkets Väl (Benessere del popolo svedese), e negli anni ‘80 lo Skåne partiet (Partito della Scania), bizzarra forza populista anti-immigrazione e anti-Islam favorevole alla secessione della contea. 

Nel 1990 una chiesa ortodossa serba a Malmö veniva bruciata da cinque ragazzi che all’inizio intendevano dar fuoco a una croce. L’anno dopo degli skinhead aggredivano una giovane coppia. Ma l’odio verso i migranti e la violenza di estrema destra non erano confinati alla sola Svezia del sud. Tra l’estate del 1991 e l’inverno del 1992 imperversò, a Stoccolma e nella vicina Uppsala: Lasermannen (l’Uomo laser). Un estremista di destra di nome John Ausonius che, mosso dal razzismo, sparò a undici persone (soprattutto africani e mediorientali) rei di avere un aspetto non-svedese. Divenne l’incubo di milioni di svedesi. La vicenda di Ausonius è stata raccontata qualche anno fa, in modo magistrale, dal giornalista svedese Gellert Tamas in un bestseller, L’uomo laser (edito in Italia da Iperborea); parlando nel 2014 con chi scrive, Tamas ricordava che allora c’erano estremisti di destra che inneggiavano all’uomo laser e al suo furore omicida contro gli stranieri. 

Ausonius non è stato però l’unico assassino razzista della storia svedese. In Scania, a Malmö, nel 2003, e poi tra il 2009 e il 2010, ha operato il serial-killer Peter Mangs, colpevole almeno di tre omicidi e dodici tentativi di omicidio ai danni di svedesi di origine africana, “traditori della razza”, musulmani e rom. L’obiettivo di Mangs era acuire le tensioni razziali nella città, e scatenare una vera e propria guerra razziale. Affascinato dalla cultura tedesca (in particolare da Nietzsche), figlio di un antisocialdemocratico collezionista di cimeli nazisti, imbevuto di antisemitismo, idee razziste, neonazismo e teorie cospiratorie, Mangs uccideva con la convinzione che i media avrebbero fatto il suo gioco: sarebbero state incolpati degli omicidi gli immigrati e le gang della città, alimentando il clima di paura e ostilità nei confronti di africani e musulmani.

Anche se alla fine Mangs è stato arrestato (e condannato), i suoi delitti hanno contribuito a diffondere la leggenda nera di Malmö in balia della delinquenza, una Gomorra sul Baltico che ha ossessionato anche media dell’alt-right come Breitbart (che a Malmo/Malmö ha dedicato, dal 2015 a oggi, almeno un’ottantina di post…). Malmö, al pari di altre metropoli svedesi come Stoccolma e Göteborg, ha problemi di criminalità organizzata, e nel 2020 le proteste violente contro il rogo di un Corano da parte di estremisti di destra furono uno shock per molti svedesi. I media svedesi, soprattutto in passato, hanno rappresentato Malmö come una Gotham City scandinava, una città messa in ginocchio dalle gang e dalla deindustrializzazione. 

Chi scrive è stato molte volte a Malmö (“attento, in alcuni punti la città è una zona di guerra”, lo ammonivano le prime volte i conoscenti di Copenaghen), e può assicurare che un quartiere dalla pessima reputazione come Rosengård non ha un’aria così inquietante, anzi. Di sicuro Malmö non è Östermalm, il compassato quartiere bene di Stoccolma, ma come ricorda la polizia locale il numero di sparatorie fatali è sceso dalle dodici del 2018 alle tre del 2021.

A Malmö le cose stanno migliorando, e nell’aria salmastra della città non si respira solo timore per il futuro. Senz’altro la crisi della cantieristica e dell’industria del cemento negli anni ’90 è stata un duro colpo per questa roccaforte dei socialdemocratici (al potere del 1994). La città però, al pari di altri centri urbani della contea, si sta lentamente trasformando in un’economia della conoscenza. Si punta su istruzione superiore, innovazione tecnologica, arte, cultura e turismo di qualità. Già oggi la Scania è parte di un distretto scientifico-industriale imperniato sul biomedicale e sulle scienze della vita che arriva sino a Copenaghen, e oltre. E proprio la capitale danese è tra i motori dell’economia di Malmö, a cui è collegata attraverso il cosiddetto Ponte dell’Öresund (infrastruttura iconica, a cui è dedicata la celebre serie TV Broen). 

Certo, la disoccupazione è più alta che nel resto della Svezia. A Malmö è del 15,3%, contro il 7,8% di Lund o il 9% di Trelleborg: il dato più alto del regno (a Stoccolma la disoccupazione è pari all’8,1%). E la trasformazione è lenta, con luci e ombre. Però la città offre anche opportunità ai suoi abitanti. L’estrema destra, tuttavia, in Scania da anni sembra vedere solo le gang di Malmö, suo prediletto bersaglio polemico. E la sua retorica sembra pagare, da un punto di vista politico: alle legislative i Democratici svedesi hanno preso il 28,75% dei voti nella Scania occidentale, e il 32,21% in quella settentrionale e orientale, superando così i Socialdemocratici (è però interessante notare che in quella meridionale i Socialdemocratici riescono a prendere il 25,35% dei voti, contro il 23,36% dei Democratici svedesi, e che nel comune di Malmö il 29,57% dei voti va ai Socialdemocratici, il 17,87% ai Moderati, solo il 16,37% ai Democratici svedesi). 

Da paria a secondo partito del Regno 

In Svezia i partiti populisti e di estrema destra sono sempre esistiti, ma nessuno ha mai avuto il successo dei Democratici svedesi. E il merito va innanzitutto al loro leader, Åkesson. Con i suoi toni spesso pacati e la sua aria rassicurante, da simpatico tecnico informatico più che da demagogo radicale, Åkesson è riuscito a normalizzare (e modernizzare) un partito fondato alla fine degli anni ’80 nel sottobosco dell’ultradestra nativista, e che ai suoi esordi ricorreva a slogan quali Bevara Sverige Svenskt (manteniamo la Svezia svedese) e aveva come leader Anders Klarström, qui in un vecchio video (e precedentemente membro, per breve tempo, del Partito del Reich nordico, a detta dei media).

Nato nel 1979 nella Scania rurale, in quel microcosmo placido e operoso così “svedese” che per decenni film zuccherosi e i politici di centro e destra hanno santificato, da giovanissimo Åkesson guardava ai Moderati, ma presto svoltò a destra. Già allora era interessato soprattutto a due temi: l’immigrazione e l’Unione Europea (a cui la Svezia aderì con un referendum assai divisivo nel 1994). Anni dopo avrebbe raccontato ai media che già alla fine degli anni ’80, quando «tanti immigrati iniziarono a venire nella nostra piccola cittadina», gli era diventato chiaro che una rapida concentrazione di stranieri in poco tempo creava problemi. 

A sedici anni Åkesson si unisce alla Sverigedemokratisk Ungdom, l’organizzazione giovanile dei Democratici svedesi. Nel 1998 riesce a entrare nel consiglio comunale di Sölvesborg, in una contea confinante con quella della Scania. Uomo della comunicazione, piuttosto a suo agio con quelle che negli anni ‘90 venivano chiamate “nuove tecnologie” (e infatti ha lavorato pure come web designer), scala in fretta il partito, e nel 2005 ne divenne il leader.

Persino gli avversari hanno riconosciuto le abilità politiche di Åkesson, e la sua capacità di apparire uno svedese come tanti, in un paese dove sembrare normali è una priorità per i politici (anche a sinistra: lo statsminister socialdemocratico Stefan Löfven non aveva alcun problema a farsi riprendere dalle telecamere mentre mangiava di gusto un sontuoso prosciutto natalizio). Cresciuto a pane e politica, Åkesson ama il golf e il calcio, e adora il tipo di pizza che farebbe arricciare il naso a più di un gourmet (con patatine fritte, pancetta, carne gyros e peperoncini). Nel 2019 si è fatto intervistare con l’allora compagna, a casa, sorseggiando una bevanda e sorridendo, con alle spalle lo stemma del comune di Sölvesborg e dei quadretti: un’ordinaria coppietta della classe media, in un salottino come ce ne sono a milioni in Svezia.

Sembrare normali, anzi normalissimi: è stato questo uno dei principi guida di Åkesson. Non a caso una delle sue prime decisioni da leader dei Democratici svedesi è stata quella di sostituire il simbolo del partito: via la torcia dalla grande fiamma con i colori e la croce della bandiera svedese, al suo posto un innocuo fiorellino giallo e blu, il non ti scordar di me. Ma alle decisioni di natura simbolica sono seguite quelle pratiche. Åkesson ha dato un’accelerazione al processo che in Francia, con riferimento al Front national, è stato definito di dédiabolisation

I risultati gli danno ragione. Alle legislative del 2010 i Democratici svedesi ricevono il 5,70% dei voti. Alle legislative del 2014 il 12,86%. E a quelle 2018 il 17,53%. Per i “partiti borghesi” (cioè della destra liberale e conservatrice) i Democratici svedesi diventano troppo forti perché si possa continuare a ignorarli, a prescindere da origini e obiettivi. Soltanto un’intesa con l’estrema destra appare in grado di ridare alla Svezia uno statsminister moderato. Nel 2019 Ulf Kristersson rompe così il “cordone sanitario” intorno al partito di Åkesson: i Moderati si dichiarano disponibili a cooperare con i Democratici svedesi su temi come l’energia, l’immigrazione e la giustizia (anche se, a onore del vero, la prima ad avere aperto all’estrema destra era stata, pochi mesi prima, Ebba Busch dei Cristiano-democratici).

Ma nel mondo reale l’isolamento politico dei Democratici svedesi era già terminato da tempo. Nonostante la tanto ostentata normalità, nonostante i non ti scordar di me e il piglio gioviale del suo leader, l’estrema destra svedese aveva già da tempo imposto parole d’ordine e priorità nuove (e radicali) al dibattito pubblico, polarizzandolo

«L’immigrazione di massa è il problema numero uno del destino» dichiara Åkesson nel 2010, invocando flussi migratori molto più limitati, rimpatri dei rifugiati, e totale adattamento degli stranieri alla società svedese. Mentre il numero di richiedenti asilo passa dai 30mila del 2011 ai 163mila del 2015 (principalmente per effetto della guerra in Siria), la retorica dei Democratici svedesi diventa quasi apocalittica: non solo contro gli immigrati, ma anche contro i socialdemocratici, le élite liberali in generale (inclusi i Moderati dello statsminister Fredrik Reinfeldt, al potere sino al 2014) e lo Stato.

Nel 2011, con piglio da predicatore d’altri tempi, Åkesson afferma: «Vediamo, amici miei […] come la Svezia sia lacerata dalle ingiustizie, dalla segregazione e dai disaccordi, risultato di una ben specifica politica di frammentazione. E la colpa per questo non è solo dell’attuale governo. Tutti i governi, di sinistra e destra, nel corso degli ultimi decenni hanno guidato la Svezia nella stessa direzione distruttiva, verso la frammentazione e il disagio».

Questa retorica, che non disdegna accenti vittimistici («[il ministro] dice che tu sei un po’ stupido se voti noi anziché i Socialdemocratici») e un sarcasmo aggressivo contro i politici “lontani dal popolo”, consente ai Democratici svedesi di conquistare il voto e la fiducia, di una crescente fetta di lavoratori, sconcertati di fronte a un Partito socialdemocratico che si sposta rapidamente verso il centro, una Sinistra (Vänsterpartiet) focalizzata sui diritti dei migranti, e un Partito moderato troppo liberale.

Come succede in altre parti d’Europa il bersaglio diventa “l’invasione” di stranieri, colpevole di mandare in rovina il generoso welfare e la coesione nazionale, e di rendere pericolosissime città come Stoccolma, Malmö, Uppsala e Göteborg. Nel 2017 Åkesson dichiarava: «Ai criminali onesti che spaventano la gente onesta e perbene di questo paese è consentito di continuare senza nessuna conseguenza». Nel 2018 (anno di una clamorosa vittoria elettorale: 17,53% alle legislative) il leader dei Democratici svedesi tuonava: «il fatto è che i criminali stanno per vincere. È un fatto. Stanno per vincere perché Stefan Löfven e il suo governo, e i governi precedenti, non hanno preso questa cosa sul serio. Hanno fallito in modo colossale. Ed è il popolo, la gente comune onesta e obbediente di tutto il paese che dovrà pagare per questo fallimento». 

È bene sottolineare che in Svezia, nel 2018, i criminali non stavano per vincere. Né stanno vincendo adesso. Per esempio nel Global Peace Index il paese nordico registra una buona performance, superiore a quella di Spagna o Italia, per non parlare di quella di Regno Unito o Francia. Certamente il problema delle gang è reale, e senza dubbio si è verificato un aumento degli omicidi da arma da fuoco in Svezia, ma l’aumento ha riguardato quasi solo gli ambienti criminali: l’elettore medio dei Democratici svedesi, che vive nella quiete della campagna o di qualche piccolo centro, ha ben poco da temere. 

Tuttavia in questi anni la retorica dei Democratici svedesi ha contribuito a creare un fortissimo allarme sociale. Le loro furibonde invettive contro le gang e i criminali (unite al sensazionalismo dei tabloid, sempre pronti a dare spazio a ogni dichiarazione di Åkesson), e il loro crescente successo alle urne, hanno avuto un effetto prevedibile: generare emulazione, spingendo i “partiti borghesi” e persino i Socialdemocratici a chiedere una risposta molto più dura alla delinquenza (proprio il fatto che nel 2019 il governo socialdemocratico non aveva coinvolto l’estrema destra nei colloqui tra partiti su come affrontare le gang fu la scusa utilizzata da Kristersson per avviare il dialogo con Åkesson).

Ancora, la “società multiculturale”, la “rivoluzione inevitabile” di cui parlava Palme nel 1985 si trasformava nella retorica dei Democrati svedesi in un terribile, pericolosissimo mostro da abbattere. Per esempio nel 2021 Åkesson arriva a definire il multiculturalismo come una malvagia «estremistica iper-ideologia» con l’obiettivo esplicito di «spezzare una nazione, la nostra nazione». 

Il trionfo alle legislative dell’11 settembre non è dunque una sorpresa, se non per chi conosce poco la Svezia. È il coronamento della lunga marcia di Åkesson: una marcia che ha pienamente normalizzato non solo il partito, ma concetti e idee che un tempo avrebbero fatto gridare allo scandalo media, intellettuali e politici, e che avrebbero portato gli svedesi a riempire le piazze. 

Domenica 11 settembre il 20,54% dell’elettorato ha scelto l’estrema destra, voltando le spalle non solo ai Socialdemocratici ma ai vecchi “partiti borghesi”. La Svezia preoccupata dai rincari dell’energia, da un’emergenza criminalità “fortemente esagerata”, dalle minacce russe nel Mar Baltico (quest’anno si è seriamente temuta un’occupazione russa dell’isola strategica di Gotland), la Svezia più ansiosa insomma ha scelto il sogno di sicurezza prospettato da un partito super-reazionario e ultranazionalista che i Socialdemocratici talvolta imitano persino dal punto di vista lessicale, ad esempio quando hanno invocato in campagna elettorale una lotta skoningslös (senza pietà) contro il crimine

Paladini del Folkhemmet (la casa del popolo, letteralmente; un concetto politico che rinvia a una società efficiente ma accudente ed egualitaria), i Democratici svedesi si ergono a baluardo della svedesità, chiedono «una politica migratoria seria» e «una società sicura», e lodano i bei tempi andati, una presunta età dell’oro tra gli anni ’30 e ’50, quando la Svezia era un paese unito, compatto e omogeneo (anche a livello confessionale), e i Socialdemocratici pensavano davvero al benessere popolo. E del resto nel 1965 il potente statsminister Tage Erlander, socialdemocratico e predecessore di Palme, arrivava a dire: «Noi svedesi viviamo in una condizione infinitamente più felice [di quella statunitense]. La popolazione del nostro paese è omogenea, non solo riguardo alla razza ma in molti altri aspetti». Altri tempi, certo, però…

In poco più di quindici anni i Democratici svedesi hanno saputo costruire una narrazione intrisa di nostalgia per un passato immaginario. Non si battono solo contro l’immigrazione e una benzina meno cara (si tenga a mente che il paese è più vasto dell’Italia, e in certe aree periferiche e rurali l’auto è una necessità), ma per una Svezia fiera del suo passato e della sua identità, unita e che non si pieghi all’islamismo. 

Ecco perché difendono il welfare, quintessenza della Svezia novecentesca, e in alcuni ambiti si abbandonano al culto (anch’esso assai svedese) per la tecnica e l’oggettività. Addirittura cercano di impadronirsi del glorioso retaggio socialdemocratico, come in altre parti d’Europa l’estrema destra fa con Antonio Gramsci o Che Guevara: basti pensare che Åkesson ha scritto un libro, Det moderna folkhemmet, dedicato proprio allo statsminister socialdemocratico Per Albin Hansson (nato nel 1885 a Malmö).

Il messaggio dei Democratici svedesi è ormai collaudato e funziona, soprattutto tra gli elettori maschi, tendenzialmente dei piccoli centri e delle campagne; spesso estremamente pessimisti sul futuro della Svezia (ma fiduciosi verso Åkesson), considerano un fallimento le politiche migratorie e di integrazione dei Socialdemocratici, e dallo Stato esigono più protezione. Le trasformazioni della società li inquietano, al pari dei casi di cronaca nera e degli speciali dei TG sulle gang. Talvolta sono abbienti, ma gli alti prezzi dell’elettricità o i tagli alla sanità li mandano su tutte le furie. E pensano che i Socialdemocratici, con la loro ossessione per la lotta ai carburanti fossili, stiano tradendo la classe lavoratrice che va in fabbrica o ufficio in auto.

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Rispetto ai Moderati, i Democratici svedesi non sono i più amati dai giovani (o dai pensionati, come nel caso dei Socialdemocratici) ma riescono a piacere a tutte le fasce d’età, e stanno comunque crescendo anche tra le nuove generazioni. Ancora più degno di nota, il loro recente successo alle urne – secondo le prime costruzioni – sarebbe in parte dovuta alla capacità di sottrarre voti non solo ai Moderati, ma agli stessi Socialdemocratici: segno, secondo alcuni, del fatto che la retorica “legge e ordine” della Andersson e del segretario del partito Tobias Baudin avrebbe funzionato poco o nulla. 

I Democratici svedesi stanno pure contribuendo in modo decisivo alla polarizzazione della Svezia: da una parte le città, che votano le forze di sinistra o i “partiti borghesi”, dall’altro le campagne, dove l’estrema destra continua a crescere. In ogni caso non tutto è perduto per i Socialdemocratici. Rispetto alle legislative del 2018 il partito è in ripresa: dal 28,26% al 30,33%. Ma per loro riconquistare quel pezzo di Svezia che ormai crede solo in Åkesson non sarà facile.

Immagine in anteprima: frame video Guardian

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