Repressione del dissenso e colpi di mano istituzionali: così Erdogan vuole farsi rieleggere presidente della Turchia
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La Turchia si prepara alle più storiche tra le sue elezioni, ma i dubbi da sciogliere sono ancora tanti. La stessa data delle urne non è stata ancora ufficializzata, così come non si conosce ancora il nome del principale sfidante del presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan. I sei partiti dell’opposizione, riunitisi nella cosiddetta Tavola dei sei, faticano a trovare un candidato comune, mentre Erdoğan continua a puntare sull’anticipazione delle elezioni, escamotage utile per potersi ripresentare senza violare la Costituzione. Il presidente in teoria non può ricandidarsi per un terzo mandato, a meno che il Parlamento non decida di sciogliersi e di convocare elezioni anticipate. Per riuscire nel suo intento, però, Erdoğan ha bisogno del sostegno di due terzi dei parlamentari, un numero raggiungibile solo con l’appoggio di 25 politici dell’opposizione. In caso di scioglimento imposto dallo stesso presidente, il leader dell’Akp non potrebbe infatti ripresentarsi, sempre che la Corte suprema non decida di escludere le cariche ricoperte prima della riforma costituzione del 2017 dal calcolo dei mandati già portati a termine da Erdoğan.
Ma i problemi del presidente non finiscono qui. Secondo i sondaggi Erdoğan resta il leader con il più alto livelli di gradimento, ma il consenso verso la sua figura e quella del suo partito ha subito un calo significativo a causa della crisi economica e dell’inflazione, pur avendo recuperato recentemente qualche punto con riforma delle pensioni. Ufficialmente la svalutazione della lira è ferma al 65%, ma il dato ufficiale è stato ancora una volta contestato dall’Inflation Research Group - istituto di ricercatori indipendenti - secondo cui l’inflazione sarebbe al 137%. Alla base della crisi economica e della svalutazione della moneta locale vi sono le politiche messe in campo dalla Banca centrale, che dietro pressioni di Erdoğan ha deciso di non alzare i tassi di interesse per gonfiare il PIL e favorire le esportazioni verso il mercato estero, finendo però con il danneggiare le fasce medio-basse della popolazione. Il costo della vita è infatti aumentato, mentre il potere di acquisto ha continuato a scendere, condannando sempre più persone all’indigenza.
Censura di media e repressione dei manifestanti
Raccontare quanto profonda sia la crisi economica, però, non è possibile. «Chi ci prova rischia di essere accusato di colpo di Stato economico e di diffusione di false informazioni», spiega Mümtaz Murat Kök del Media and Law Studies Association, un’organizzazione che dal 2018 monitora i processi contro la stampa. L’inasprirsi della crisi economica è andata di pari passo con l’aumento della repressione dei media, come dimostrano i dati raccolti dell’associazione. Tra settembre 2021 e luglio 2022, 210 giornalisti finiti sotto processo con l’accusa di terrorismo per i loro articoli e per i loro post personali pubblicati sui social. Sessantasette di loro sono stati già condannati, mentre molti altri preferiscono autocensurarsi o rispettare le regole imposte dai loro editori, in larga maggioranza alle dipendenze più o meno indirettamente del governo, come ha dimostrato un’inchiesta della Reuters.
Il controllo governativo non si limita alla libertà di stampa. Anche il diritto a manifestare, sancito dall’articolo 34 della Costituzione, è stato fortemente limitato grazie all’approvazione di una serie di leggi sull’ordine pubblico, come la n.2911. Sempre nel periodo di settembre 2021-luglio 2022, riporta MLSA, ben 800 persone sono finite sotto processo per aver preso parte a manifestazioni pacifiche nel paese. Tra queste vi sono gli studenti dell’Università Boğaziçi, che si sono opposti alla nomina governativa del loro rettore, e le Madri del Sabato, che dal 1995 si riuniscono per chiedere giustizia per i parenti “scomparsi” mentre erano in custodia di polizia. Reprimere con così tanta forza il dissenso pubblico è però segno di debolezza. «Hanno paura di non riuscire a controllare i cittadini, per questo mostrano tolleranza zero verso chi manifesta e criminalizzano ogni forma di dissenso», conclude Kök.
Vietati femminismo e ambientalismo
A dover fare i conti con i tentativi di criminalizzazione del proprio operato sono anche le attiviste della Piattaforma Contro i Femminicidi (Kadın Cinayetlerini Durduracağız Platformu), accusate di oltraggio alla moralità e di attacco alla famiglia. Secondo i giudici della Corte di Istanbul, la Piattaforma mette a repentaglio la tenuta dei legami familiari intesi in senso tradizionale, in cui la donna deve ricoprire unicamente il ruolo di moglie e madre. Un’interpretazione che rispecchia quella offerta dallo stesso Erdoğan, secondo cui le cittadine turche dovrebbero fare almeno tre figli a testa e occuparsi della famiglia.
La messa al bando per via giudiziaria della Piattaforma segnerebbe un grosso passo indietro per i diritti delle donne in Turchia, già ridottisi con l’uscita del paese dalla Convenzione di Istanbul. «Da quando il presidente Erdoğan ha deciso di abbandonare il trattato abbiamo registrato un incremento dei casi di abusi ed è diventato più difficile far valere i nostri diritti», spiega Melek Önder, portavoce del movimento. «Le donne sono state lasciate ancora una volta da sole ad affrontare la violenza di genere. Per il governo la nostra vita vale meno di quella degli uomini».
Un’affermazione confermata anche dai dati raccolti dalla Piattaforma. Nel 2022 ci sono stati 334 femminicidi e altre 245 morti sospette, un aumento significativo rispetto all’anno precedente, chiusosi con 280 femminicidi e 217 casi sospetti. La priorità del governo però è mettere a tacere il movimento femminista, consapevole che la chiusura della Piattaforma ridurrebbe anche il controllo sui dati dei femminicidi e degli abusi contro le donne. L’organizzazione infatti è nata anche allo scopo di tracciare le violenze di genere, sopperendo così alla mancanza di dati ufficiali. Le autorità hanno iniziato a raccogliere queste informazioni solo quattro anni fa dietro pressione della Piattaforma e della società civile, ma la chiusura della Piattaforma, unita all’uscita dalla Convenzione di Istanbul rischia di far aumentare i casi di violenze non denunciate. Ma la messa al bando del movimento femminista sarebbe anche un messaggio per tutti quei gruppi che si oppongono al governo. Compresi quelli ambientalisti, come sanno bene gli attivisti di Gezi Park.
Nel 2013, migliaia di persone sono scese piazza per proteggere il parco che sorge nel cuore di Istanbul, nei pressi di piazza Taksim, ma la protesta si è presto allargata anche al resto del paese e ha ampliato i suoi scopi, trasformandosi in una più generale critica nei confronti di Erdoğan. La risposta del governo è stata durissima: almeno 11 persone hanno perso la vita e altre 9 mila sono rimaste ferite a seguito della repressione della polizia, mentre in Parlamento iniziavano ad essere approvate nuove leggi per ridurre gli spazi di espressione del dissenso. Erdoğan ha anche colto l’occasione per criminalizzare i movimenti ecologisti, definendo «vandali» (in turco çapulcu) gli attivisti e attestandosi come unica figura realmente interessata alla difesa dell’ambiente. Nonostante la propaganda, Erdoğan ha portato avanti politiche urbanistiche, infrastrutturali ed energetiche che hanno tenuto ben poco in considerazione il rispetto e la tutela dell’ambiente, così come quella della salute dei cittadini, mettendo al primo posto il profitto, gli interessi dei circoli a lui più vicini e i suoi obiettivi in politica estera. Tutte politiche che hanno indebolito il paese e che hanno contribuito a rendere la Turchia particolarmente vulnerabile al cambiamento climatico. Negli ultimi anni si sono succeduti devastanti incendi nel sud-ovest, episodi di siccità e anche diverse alluvioni, ma dal Governo non sono arrivate risposte adeguate. A destare preoccupazione è soprattutto il futuro delle città costiere, maggiormente esposte agli effetti negativi del riscaldamento globale e tuttora impreparate ad affrontare situazioni di emergenza. «Istanbul non è preparata per il cambiamento climatico», spiega Yağız Eren Abanus del Center for Spatial Justice (Mad). «L’amministrazione locale ha messo a punto un piano di riforme, seppur non particolarmente ambizioso, ma la verità è che senza il sostegno del Governo centrale c’è ben poco da fare».
Niente spazio per l’opposizione politica
L’ambiente però è il grande assente della campagna politica turca, anche a causa dell’esclusione del Partito dei Verdi per un cavillo burocratico, almeno secondo la versione ufficiale.
«Abbiamo fornito al ministero dell’Interno i documenti necessari per essere riconosciuti come partito nel 2020, ma non abbiamo mai ricevuto un certificato che dimostrasse la consegna della documentazione presso gli uffici competenti», spiega Koray Doğan Urbarlı, co-presidente dei Verdi. Il caso è stato portato davanti al giudice, ma a causa dei lunghi tempi della giustizia il partito non potrà presentarsi alle elezioni, lasciando così un vuoto nel panorama politico. Eppure, sottolinea Urbarlı, i cittadini turchi sono sempre più sensibili alla questione ecologica, nonostante la crisi economica resti la loro preoccupazione primaria. A interessarsi del cambiamento climatico sono soprattutto i ragazzi e le ragazze della Generazione Z, ossia i nati dopo il 2000 che nel 2023 eserciteranno per la prima volta il proprio diritto di voto. Questo gruppo rappresenta il 13 percento dell’elettorato ed è pertanto un bacino elettorale importante per l’opposizione, considerando che quasi l’80 percento si è espresso contro il presidente uscente.
Anche i curdi rischiano di andare alle urne senza il loro principale rappresentate, il Partito democratico dei popoli. L’Hdp è da mesi sotto processo e rischia la chiusura definitiva nonché l’esclusione dalla vita politica di circa cinquecento dei suoi rappresentanti. Più recentemente, la Corte Costituzionale ha anche congelato i conti bancari del partito con l’accusa di finanziamento di attività terroristiche, minando di fatto la campagna elettorale dell’Hdp a pochi mesi dalle elezioni. Per İlknur Birol, co-presidente del distretto di Istanbul, gli attacchi contro il partito non sono una novità. «Da tempo minacciano di arrestarci e di metterci sotto processo, mentre cancellano continuamente l’immunità dei nostri parlamentari. La coalizione al governo non vuole perdere, per questo è disposta a tutto pur di vincere le prossime elezioni. Noi però non ci fermeremo». L’Hdp è il terzo partito più votato in Turchia e ha già pagato il successo alle elezioni locali del 2019 con l’arresto di 45 sindaci, tutti accusati di legami con associazioni terroristiche, ossia con il Partito dei lavoratori curdi (Pkk). Erdoğan però teme ancora di più i repubblicani, seconda forza del paese e reale minaccia al suo potere. Il Chp però si presenterà alle prossime elezioni senza la sua figura più carismatica, il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, condannato in primo grado per aveva definito «folli» i membri della Commissione elettorale che nel 2019 annullarono le elezioni amministrative dietro pressioni di Erdoğan.
La sua esclusione dalle urne è certamente un duro colpo per l’opposizione, ma in Turchia le speranze per un vero cambiamento restano poche. Dopo venti anni al potere, Erdoğan e il suo partito hanno trasformato profondamente la Turchia, incidendo sulla sua struttura non solo politica ma anche e soprattutto sociale, con inevitabili conseguenze anche nel lungo periodo. Nell’aria resta poi una domanda espressa con un misto di timore e rassegnazione: in caso di sconfitta, Erdoğan accetterebbe il risultato delle elezioni?
Immagine in anteprima: kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons