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Epic vs Apple, il processo che potrebbe cambiare tutto

29 Maggio 2021 12 min lettura

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Epic vs Apple, il processo che potrebbe cambiare tutto

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No one has a choice, everyone is petrified... and then I understood. If you’re a publicly traded company, you cannot afford this. You cannot afford to file your earnings and say, ‘Oh, we just lost 50 percent of revenue last quarter because we had a spat with Apple.’ And if you’re a small developer, you can’t afford this literally because you will go broke — you will lose your house if they kick you out of the App Store (David Heinemeier Hansson CTO di Basecamp)

Nessuno ha scelta, tutti sono pietrificati ... e poi ho capito. Se sei una società quotata in borsa, non puoi permetterti questo. Non puoi permetterti di presentare i tuoi guadagni e dire: “Oh, abbiamo appena perso il 50% delle entrate lo scorso trimestre perché abbiamo litigato con Apple”. E se sei un piccolo sviluppatore, letteralmente non puoi permettertelo perché andrai in rovina: perderai la tua casa se ti cacciano dall'App Store.

Fortnite

Il 13 agosto del 2020 Fortnite scompare dagli App Store di Apple e Google. Fortnite è uno dei giochi più scaricati al mondo. Rilasciato nel 2017, nella sua terza versione, Fortnite Battle Royale, è diventato un vero e proprio fenomeno culturale oltre che un successo travolgente, attirando più di 125 milioni di giocatori in meno di un anno, e portando guadagni per 9 miliardi in due anni alla sua casa madre: Epic Games. Numerose sono le celebrità che hanno citato o fatto riferimenti o giocato con Fortnite, e Epic Games ha organizzato vari eventi e competizioni.

Nell’agosto del 2020 Epic decide di smettere di pagare quella che viene definita la “tassa Apple”, cioè la commissione del 30% sugli acquisti digitali effettuati tramite l’App Store iOS, e aggiunge una nuova funzionalità consentendo agli utenti di bypassare il sistema di pagamento Apple. In questo modo può offrire uno sconto agli utenti (da 9,99$ a 7,99$).

Apple risponde immediatamente bloccando Fortnite per violazione dei termini di servizio dell’App Store. Ma in breve riceve una sorpresa, una citazione in giudizio di 65 pagine per violazioni antitrust e un video parodia dell’iconico spot pubblicitario “1984” di Apple. Nel video una mela dichiara: “Per anni ci hanno regalato le loro canzoni, il loro lavoro e i loro sogni, in cambio ci siamo presi i profitti e abbiamo ottenuto il controllo...”.

La mossa di Epic sembra studiata a tavolino, lo dice la stessa giudice Yvonne Gonzalez Rogers (“Epic ha scelto strategicamente di violare i suoi accordi con Apple”). Ma in sostanza è il tentativo di scardinare il sistema di business della distribuzione digitale in mano principalmente a due attori: Apple e Google. Nonostante alcune differenze (sono ammessi store concorrenti e il sideload), infatti, anche il sistema di Google prevede che gli acquisti avvengano tramite il Play Store con una commissione del 30%. Ed Epic fa la stessa cosa anche per il Google Play Store di Android, con le medesime conseguenze: rimozione di Fortnite e causa in tribunale.

Causa antitrust

Epic nella sua denuncia si basa sullo Sherman Antitrust Act del 1890, la legislazione utilizzata alla fine del XX secolo per rompere i monopoli e tutt'ora pilastro della normativa antitrust americana. Secondo Epic, Apple (ma anche Google) ha un monopolio illecito nel mercato di distribuzione delle App, che danneggia la concorrenza e causa danni ai consumatori, e viene mantenuto tramite atti anticoncorrenziali, imponendo restrizioni tecniche e contrattuali che impediscono la distribuzione delle App in maniera diversa. Insomma, per distribuire le App devi per forza passare per Apple, che si riserva sempre (sempre?) il 30% di commissione per questo. Gli sviluppatori non possono realizzare store concorrenti con quello di Apple, perché non sono ammessi da Apple.

Epic sostiene che il suo approccio, invece, effettivamente favorisce i consumatori, in quanto bypassando la “tassa Apple” è in grado di offrire un prezzo più basso, 7,99$ invece dei 9,99$ che sono necessari per compensare il 30% che prende Apple. In questo modo Epic cerca di allontanare le critiche che vedono il caso come un semplice gioco di potere tra grandi aziende.

Il CEO di Epic Tim Sweeney, la cui testimonianza ha aperto il dibattimento, da tempo sostiene come non sia più giustificabile la commissione del 30% imposta dai distributori digitali. Già nel 2017 Sweeney utilizzò come paragone gli intermediari di pagamento che prendono una commissione del 2-3%, a differenza dei distributori digitali che, secondo Sweeney, “intascano una quantità enorme dei nostri profitti e non fanno nulla per aiutarci”. Ovviamente Sweeney è ben conscio che vi sono differenze tra i processori di carte di credito e i distributori di App, sicuramente ci sono costi ulteriori da prendere in considerazione, come la consegna dei contenuti e il servizio clienti. Ma rimane dell’idea che i costi non siano superiori al 5-6%. Per questo nel 2018 Epic lancia il suo store per PC per vendere anche giochi di terze parti, imponendo una commissione solo del 12%, con ciò costringendo il concorrente Steam ad abbassare la sua commissione (che all’epoca era del 30%). Ma se nel settore dei PC la concorrenza è possibile, lo stesso discorso non è attuabile per quanto riguarda le App degli smartphone, la cui distribuzione alla fine è controllata quasi totalmente dagli sviluppatori dei sistemi operativi iOS e Android.

Ma per comprendere bene la problematica occorre fare un salto indietro nel passato. Una volta se volevi acquistare un gioco andavi al centro commerciale e prendevi una scatola di cartone con il gioco all’interno. Il negozio addebitava una commissione di circa il 50% o più che copriva il costo della confezione, la spedizione, e così via. La quota per gli sviluppatori alla fine era piuttosto bassa. Oggi se vuoi acquistare un gioco lo fai su un portale online come Steam, che di solito richiede il 30% di commissione. Essendo tutto digitale alla fine i costi sono molto più bassi. Questo cambiamento è in parte grazie anche ad Apple, che con l’App Store ha reso più facile ed economico per gli sviluppatori svolgere il loro lavoro. Secondo Tim Cook questa funzionalità vale, appunto, il 30% di commissione e, ha precisato, abbiamo portato la commissione dal 70-50% come era prima, appunto a questo livello del 30%. Però, gli contesta Epic, oggi l’unica vera spesa per l’App Store è controllare i giochi e mantenere in esecuzione i server, se valutiamo che nel solo 2019 Apple ha generato entrate per 15 miliardi (su 50 miliardi di vendite tramite App), sembra ovvio che la commissione appare decisamente eccessiva.

Il problema è ancora più serio oggi, visto che la maggior parte dei videogame (ma non solo, anche Photoshop lo paghi mensilmente) genera profitti dagli acquisiti in-app. Fortnite è un free-to-play, cioè è gratuito scaricarlo, poi paghi eventualmente delle ulteriori funzionalità offerte all’interno del gioco. E su ognuno di questi pagamenti c’è la commissione del 30%, cosa che porta enormi profitti per gli App Store (Apple ormai guadagna più dai servizi che dall’hardware). In questo modo Apple (e Google) si trova in una posizione di enorme vantaggio, potendo ottenere profitti in maniera continuativa. E siccome sono loro che decidono cosa è lecito e cosa non lo è sui loro App Store, si trovano in una posizione estremamente potente. Forse troppo.

In tal senso è sintomatica l’esperienza di David Heinemeier Hansson, CTO di Basecamp e del nuovo servizio di posta elettronica Hey (che normalmente si acquista sul web per cui Apple non ci guadagna nulla), che ha sostenuto che Apple gli avrebbe chiesto di aggiungere un abbonamento in-app per evitare che la App fosse rimossa dallo store. E questo nonostante altre App simili a Hey e con lo stesso modello di business (senza acquisti in-app) esistano sull’App Store.

La commissione del 30% appare sempre più come una sorta di privilegio per poter essere distribuiti tramite gli Apple Store, ma sempre più aziende cercano di saltare questa “tassa”. Ad esempio non è possibile acquistare un libro tramite la App Kindle, ma solo sul web, per poi leggerlo sul Kindle. Amazon così evita di dover pagare la fetta extra a Apple. Lo stesso vale per Spotify, altra azienda che già nel 2016 criticava Apple per le sue pratiche ritenute anticoncorrenziali. Gli sviluppatori stanno spostando sempre più la vendita dai dispositivi Apple al web per poter evitare la salata commissione di Apple.

Si potrebbe sostenere che Apple ha queste regole, si possono non accettare e rivolgersi altrove (la definizione di “mercato” è stata al centro dell’intero dibattimento). Ma il punto è, appunto, che se non si sta sull’App Store di Apple alla lunga la scelta diventa perdente. Il problema è che se sei all’interno della App diventa scomodo per l’utente dover spostarsi sul web per comprare qualcosa per poi rientrare nell’App (Netflix lo scrive addirittura: “We know it’s a hassle”, sappiamo che è una seccatura). Questo determina una “frizione” tale da scoraggiare molti utenti. In realtà la giudice Rogers ha sostenuto che non sarebbe necessariamente una cattiva cosa inserire una “frizione” per gli acquisti d’impulso, in considerazione che il gioco è rivolto principalmente a ragazzi, e qui Sweeney ha dovuto ammettere che sarebbe un problema per i profitti dell’azienda.

A questo proposito l’ingegnere Alex Russell ha di recente pubblicato un elenco molto completo di tutte le funzionalità che Safari su iOS non supporta ancora. Tra queste le limitazioni per gli sviluppatori di browser, i quali sono costretti comunque a utilizzare il webkit di Safari. Cioè anche se installi Chrome, Firefox o un altro browser, sono solo skin sul motore Webkit di Apple, per cui le funzionalità del browser, di qualsiasi browser, alla fine sono decise sempre da Apple. Si potrebbe anche ipotizzare che i ritardi nella fornitura di funzionalità rendono il web non una alternativa credibile rispetto all’App Store.

In conclusione, secondo Epic, la posizione di Apple determina un monopolio illecito nel mercato delle distribuzioni delle App iOS che consente a Apple di drenare profitti ulteriori agli sviluppatori. Nel corso della causa, infatti, è emerso che oltre il 39% degli sviluppatori si lamenta degli elevati costi di commissione. Inoltre Apple non applica questa regola a tutti, ma favorisce alcune aziende, ad esempio come Amazon che può noleggiare video tramite il proprio sistema di pagamento senza pagare commissioni a Apple, e cioè esattamente ciò che chiede Epic. Evidentemente Amazon è più potente di Epic, e quindi Apple deve concedergli maggiori vantaggi. Allo stesso modo si è comportata con Netflix e con Uber. Perché, si è chiesto il senatore Lee in un’audizione al Senato, Epic o Spotify sarebbero diverse da Uber? Perché addebitare una commissione alle prime due e non a Uber?

Monopolio?

Il dibattimento è terminato il 22 maggio. Adesso si attende la sentenza per la quale potrebbero occorrere settimane, forse mesi. Il succo del processo è se l’App Store è una sorta di monopolio che danneggia i concorrenti e i consumatori, e quindi se iOS deve aprire a store di terze parti. Apple sostiene che il controllo della distribuzione tramite l’unico store consente di mantenere sicurezza e privacy nell’ecosistema Apple. Secondo Cook le persone scelgono iOS perché vogliono sicurezza, per non dover prendere decisioni rischiose per i propri dati.

La giudice Rogers non è sembrata molto interessata ad approfondire gli aspetti relativi a una apertura a store di terze parti, quanto piuttosto ha incalzato Apple sugli acquisti in-app. Nel processo ha partecipato anche Tim Cook che, in una testimonianza piuttosto tesa ha ammesso che la maggior parte delle entrate dell’App Store derivano dai giochi. Cook è stato molto vago nelle risposte, sostenendo tra l’altro incredibilmente che Apple non è in grado di stimare quanto guadagna dall’App Store. In questo modo probabilmente cercava di accreditare l’idea che lo store non è separabile dal resto del sistema, e nel contempo non voleva cedere il punto alla Epic, il cui esperto ha detto che il margine di profitti dello store sarebbe del 79%. Alla domanda di Rogers sul perché gli sviluppatori non possono utilizzare altri metodi di pagamento per gli acquisti in-app, invece di trincerarsi dietro sicurezza e privacy Cook è stato decisamente categorico: la commissione serve a compensare la nostra proprietà intellettuale. Un punto importante, perché sicurezza e privacy favoriscono i consumatori, profitti più elevati no. Rogers lo ha ulteriormente incalzato, evidenziando che alla fine il settore giochi sembra che generi una quantità sproporzionata di denaro rispetto agli altri, un po’ come se quel settore sovvenzionasse gli altri settori, come se gli acquisti di giochi in-app (es. Fortnite V-Bucks e Candy Crush gold) stessero effettivamente sovvenzionando il resto dell'App Store.

“You don’t charge Wells Fargo, right? Or Bank of America? But you’re charging the gamers to subsidize Wells Fargo.”

La giudice Rogers incalza ulteriormente Cook sulla concorrenza. Cook ritiene la concorrenza un’ottima cosa, infatti i giocatori possono comprare anche su Sony PlayStation, Microsoft Xbox o Nintendo Switch (però Apple vieta agli sviluppatori di informare gli utenti delle App della possibilità di comprare anche al di fuori dello store di Apple). Ma, ribadisce Rogers, nel caso specifico non esiste concorrenza in-app. C’è solo Apple.

Cosa accadrà?

Una vittoria di Epic non significherebbe solo ritornare sull’App Store, quanto piuttosto che Apple potrebbe essere costretta a modificare le regole dello Store qualora il giudice decidesse che Apple non può richiedere a tutti gli sviluppatori iOS di utilizzare l’App Store (qualcosa di simile a quello che accadde alla Microsoft circa 20 anni fa per i browser), così colpendo uno dei principi fondamentali della piattaforma. Diversamente il giudice potrebbe anche decidere per il mantenimento dell’esclusività dello Store, ma impedendo ad Apple di costringere gli sviluppatori di utilizzare il sistema Apple di acquisti in-app. Sarebbe comunque un serio problema perché taglierebbe una grossa fetta dei profitti di Apple.

Se vincesse Apple, invece, non è detto che non cambierebbe nulla. Questo processo appare solo un pezzo di una più vasta campagna antitrust contro le piattaforme dominanti. Con l’elezione di Biden alla Casa Bianca si sono avvicendati nelle commissioni antitrust persone più critiche rispetto alla posizione di monopolio delle grandi aziende, in particolare Apple e Google. La legislazione antitrust americana è risalente nel tempo, e fondamentalmente si basa sulla dimostrazione di un effettivo danno per i consumatori. In un’era in cui molti servizi digitali sono gratuiti tale prova risulta difficile. Adesso, però, la situazione appare favorevole a una modifica della normativa che, secondo la senatrice Klobuchar, ormai è sempre più necessaria. Il deputato David Cicilline, presidente del sottocomitato antitrust della Camera, ha detto: “Sfruttando il suo potere di mercato, Apple sta addebitando commissioni esorbitanti – una rapina fondamentalmente - costringendo le persone a pagare il 30% o negando l'accesso al loro mercato. In questo modo schiaccia i piccoli sviluppatori che semplicemente non possono sopravvivere con questo tipo di pagamenti. Se ci fosse una vera concorrenza in questo mercato, questo non accadrebbe”.

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Oggi gli abusi di posizione dominante non si realizzano solo facendo aumentare i prezzi, anzi spesso ottengono l’effetto opposto, quando un’azienda riesce ad acquisire uno a uno tutti i possibili concorrenti (Apple ha acquistato circa 100 aziende negli ultimi 6 anni), limitando l’accesso al mercato da parte di nuovi attori. Epic potrebbe essere stato il primo passo in una manovra di accerchiamento a lungo termine. Insomma il problema ormai è sul tavolo, e non si può più ignorare. Paradossalmente se vincesse Epic si riterrebbe che il problema è risolvibile nelle aule dei tribunali, ma se vincesse Apple allora ci si renderebbe conto che occorre una nuova normativa.

Il 30 aprile 2021 la Commissione europea ha depositato le conclusioni dell’istruttoria contro Apple per abuso di posizione dominante a seguito di un ricorso del 2019 da parte di Spotify. Le accuse riguardano l'uso obbligatorio del sistema di acquisto in-app di Apple, per il quale Apple addebita una commissione del 30%, e la regola che vieta agli sviluppatori di app di informare gli utenti di altre opzioni di acquisto al di fuori delle app. Secondo la Commissione questa politica da parte di Apple avrebbe comportato prezzi più elevati per i consumatori. Apple ha 12 settimane per rispondere alle accuse. Nel frattempo la Commissione prepara una nuova istruttoria contro Apple, per i giochi su App. Poi ci sono altri reclami contro il presunto monopolio di Apple, da parte di Rakuten, Match Group e Microsoft. Insomma, comunque vada questo processo, la storia non finirà qui.

Credits immagine di anteprima by Epic

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