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Piano Nazionale Energia e Clima: il futuro dell’energia secondo il governo Meloni è il ritorno al passato

10 Luglio 2023 12 min lettura

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Piano Nazionale Energia e Clima: il futuro dell’energia secondo il governo Meloni è il ritorno al passato

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PNIEC, RePowerEu, piano Mattei: per l’Italia l’estate 2023 potrebbe essere ricordata come la stagione in cui è stata disegnata l’energia del futuro. Prima la pandemia e poi la crisi dei prezzi del gas, la guerra in Ucraina e un forte aumento dell’inflazione hanno reso necessario un aggiornamento sistemico del modello energetico italiano. A tale complesso periodo storico vanno poi affiancati i nuovi obiettivi ambientali sanciti dall’Unione Europea negli ultimi anni, che vuole porsi alla testa della transizione ecologica

Così il governo Meloni si è ritrovato a dover preparare, sin dal suo insediamento a ottobre 2022, una serie di piani e progetti con i quali adeguarsi ai nuovi equilibri da qui al 2030, con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

“La transizione ecologica e la sostenibilità ambientale devono camminare di pari passo con la sostenibilità sociale ed economica”, ha ribadito ultimamente la presidente del Consiglio all’assemblea di Assolombarda per rassicurare il mondo imprenditoriale. Un monito ripetuto negli ultimi mesi a più riprese (e utilizzando le stesse parole) da vari esponenti del governo - dal ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, al ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, dal ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, al ministro degli Affari europei, Raffaele Fitto. Ed è proprio l’energia il settore più ampio e più importante da analizzare per comprendere la visione messa in campo dal governo. Una visione cui il futuro prossimo si costruisce attraverso la conservazione del presente. Ciò si evince dai tre strumenti attesi entro l’autunno e attualmente in fase di stesura: il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), le modifiche al PNRR alla luce del REPower Eu e il Piano Mattei.

A che punto siamo con il Piano Nazionale Integrato per l'Energia e il Clima

Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima è il documento con il quale il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica intende raggiungere gli obiettivi climatici al 2030. L’ultima versione del PNIEC risale al 2019 (fu poi pubblicato agli inizi del 2020): nel frattempo, però, attraverso il pacchetto di riforme Fit for 55 l’Unione europea ha stabilito la riduzione delle emissioni al 2030 del 55% rispetto ai livelli del 1990. Serviva, dunque, un aggiornamento del piano che però, come ricorda Luisiana Gaita su Il Fatto Quotidiano:

Per inciso, il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (Mase) non ha mai inviato ‘in tempo’ a Bruxelles, dato che tuttora non compare sul sito della Commissione Ue. Entro la fatidica data del 30 giugno, infatti, è stato inviato solo un executive summary di 24 pagine. Nel frattempo, sono diverse le versioni del documento integrale circolate in questi giorni: 415 pagine che, a questo punto, dovrebbero essere inviate entro la fine di luglio. Solo allora ci sarà l’ufficialità e si darà il via all’iter che condurrà all’approvazione definitiva del nuovo testo entro giugno 2024. Ergo: improbabile che il piano del Mase, che nei prossimi mesi sarà oggetto della Valutazione ambientale strategica (Vas), sia già “al vaglio dell’Europa”.

Anche noi di Valigia Blu ci rifaremo, in questa sede, alla bozza di 415 pagine che è stata diffusa in primis dall’agenzia Staffetta Quotidiana e resa poi accessibile sul sito QualEnergia. Al di là del piccolo giallo sulla bozza finale - il 30 giugno il ministero ha annunciato di aver “inviato a Bruxelles la proposta di Piano”, mentre il 4 luglio lo stesso ministro Fratin all’Ecoforum di Legambiente ha parlato di “sintesi di presentazione” con il documento finale che “è in una fase di drafting” - il MASE non ha smentito il documento che circola da qualche giorno e che andremo ad analizzare. Difficile farlo soprattutto perché contiene in maniera estesa gli annunci più volte fatti in questi mesi.

Nell’aggiornamento del PNIEC, il ministero ha effettuato una ricognizione dei principali indicatori energetici ed emissivi al 2021 e ne ha indicato una previsione al 2030, definendo uno scenario tendenziale al netto delle politiche attualmente in vigore. Basta analizzare i dati principali sulle fonti energetiche per rendersi conto che la proposta del governo non è per nulla ambiziosa: c’è chi l’ha giudicata col “freno a mano tirato”, chi un “regalo alle società del gas”, ma basterebbe citare le parole del ministro Fratin che l’ha definita “realistica e non velleitaria”. Di più: approfittando degli shock energetici di questi anni, il PNIEC attuale propone un passo indietro rispetto alla già criticata versione del 2019, tacciandola di “eccessivo ottimismo”, e lancia il cuore oltre l’ostacolo soltanto negli ambiti di interesse di Eni, come i biocarburanti e la cattura e lo stoccaggio della CO2 (ci torneremo).

Partiamo dal carbone, il combustibile fossile più “antico” (nell’utilizzo) e più inquinante. Il PNIEC del 2019 ne indicava il phase-out (l’eliminazione graduale) entro il 2025. A questo processo, che era già stato messo in discussione dal governo Draghi allo scoppio della guerra in Ucraina nel febbraio 2022, la versione del governo Meloni dedica un intero paragrafo. Le centrali a carbone attualmente funzionanti (Civitavecchia, Brindisi, Monfalcone, Sulcis, Fiumesanto) forniscono ancora un contributo importante per la generazione di energia elettrica - un totale di 5.5 gigawatt di cui 1 gigawatt in Sardegna.

Ecco perché il ministero ammette che “al netto degli aspetti legati alla massimizzazione, le azioni già messe in atto e pianificate sarebbero comunque adeguate per consentire il phase-out delle centrali a carbone ancora in esercizio sul Continente”; per le centrali in Sardegna, invece, il limite per la dismissione viene spostato al 2028. E non è tutto: la disponibilità alla messa fuori servizio definitiva degli impianti a carbone sarà comunque da confermare nei prossimi mesi, nel senso che il ministero indica una serie di condizioni che dovranno verificarsi (dal previsto rafforzamento della rete elettrica all’assenza di dismissioni di impianti di generazione a gas fino all’assenza di riduzioni dell’import di energia, come ad esempio dalla Francia e dalla generazione di energia elettrica dalle centrali nucleari). 

Se il carbone promette di resistere va ancora meglio ai prodotti petroliferi che, secondo il PNIEC, “seppur caratterizzati da una domanda in contrazione al 2030, rappresenteranno comunque una quota rilevante del totale del fabbisogno energetico nazionale, in particolare nei settori trasporti e petrolchimico”. Se è vero che i derivati del petrolio (benzina, cherosene, diesel) “rappresentano ancora la fonte di energia che soddisfa oltre l’80% della domanda di energia del settore dei trasporti, con punte prossime al 100% nel trasporto pesante stradale, nel settore marittimo e nell’aviazione”, il documento del ministero si limita a constatare che “la domanda di questi prodotti nei suddetti settori è destinata a ridursi in prospettiva 2030”, pur senza indicare quote precise. Anzi, “poiché la capacità di raffinazione nazionale è superiore alla domanda interna di prodotti petroliferi, l’Italia, oltre ad essere autosufficiente in termini di prodotti finiti, è anche un paese che esporta notevoli quantitativi di prodotti finiti”. 

Se ne deduce, dunque, che anche l’era del petrolio, almeno per il governo italiano, non accenna a esaurirsi. Pure la trentennale crisi della raffinazione, che lo stesso governo riconosce nel PNIEC, diventa l’occasione per ribadire il supporto alle aziende fossili:

La crisi della raffinazione ha comportato, in Italia, la riconversione di cinque importanti raffinerie: Mantova, Roma e Cremona sono state riconvertite in poli logistici, mentre Marghera e Gela sono state riconvertite in bioraffinerie. La riconversione delle due raffinerie assicura una produzione attuale di biocarburanti pari ad oltre 750.000 tonnellate che, in prospettiva futura, raggiungeranno 1,1 milioni di tonnellate, soprattutto di biocarburanti avanzati. In questo settore l’Italia vanta una leadership tecnologica importante a livello internazionale e su queste basi si fonderanno le future trasformazioni delle raffinerie italiane.

Quella dei biocarburanti, come abbiamo già raccontato, è una partita cruciale per il governo italiano. Lo è ancora di più nel PNIEC, dove addirittura si prevede (uno dei rari casi) di superare gli obiettivi fissati dall’Unione Europea: secondo la nascente direttiva RED III la quota dei biocarburanti di seconda generazione dovrebbe essere pari al 5,5% al 2030 per gli Stati membri mentre l’Italia prevede di raggiungere la quota del 10% (quasi il doppio).

Si tratta di un assist smaccato a ENI, titolare delle due bioraffinerie di Porto Marghera e Gela e in procinto di riconvertire anche quella di Livorno. Neppure l’unico, a dirla tutta. È infatti sul fronte del gas che il PNIEC rivela il conservatorismo dell’intero impianto. Affidandosi in toto ai due big del settore, cioè ENI e Snam. Anche in questo caso su Valigia Blu avevamo già affrontato l’argomento, analizzando l’intento di fare della penisola il cosiddetto “hub del gas”. Un intento che nel PNIEC viene così descritto:

Il potenziamento delle infrastrutture esistenti e lo sviluppo di nuove iniziative di importazione del gas naturale consentiranno all’Italia di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento e potenzialmente di rendere disponibili le nuove risorse anche a beneficio degli altri Paesi europei. A tal fine si sta procedendo: 

‐ a incrementare la capacità di trasporto dai punti di entrata del sud Italia mediante la realizzazione della “Linea Adriatica”; 

‐ a creare le condizioni per il potenziamento del corridoio sud tramite TAP favorendo un incremento di capacità dalla rotta di approvvigionamento dall’Azerbaijan, anche mediante la realizzazione del metanodotto Matagiola Massafra; 

‐ a ottimizzare l’uso della capacità di importazione di GNL nei terminali esistenti e a sviluppare nuova capacità di rigassificazione, che continuerà ad avere un ruolo strategico per favorire la partecipazione dell’Italia al mercato mediterraneo e globale del GNL in concorrenza con i terminali del nord Europa. Le iniziative descritte precedentemente porteranno il sistema italiano a diventare un riferimento per molti Stati membri dell’Unione e altri Paesi terzi vicini.

Per sintetizzare: per il 2030 l’Italia punta a mantenere inalterata la rete nazionale di gasdotti, potenziare il TAP, costruire la Linea Adriatica tra Abruzzo e Umbria, potenziare i tre rigassificatori esistenti, sfruttare al massimo il neonato rigassificatore di Piombino e realizzarne un altro a Ravenna. Per il gas, insomma, si prevede un ulteriore aumento degli investimenti nei prossimi anni. Tutto il contrario delle tendenze attuali e di ciò che da tempo chiedono organismi come l’Agenzia Internazionale dell’Energia e l’IPCC.

Perfino l’auspicato aumento delle energie rinnovabili nel settore elettrico, ritenuto “insufficiente” dal think thank per il clima ECCO e lontano dagli impegni assunti durante il recente G7 in Giappone, viene associato allo sviluppo del gas, invece di optare per la logica della sostituzione o, perlomeno, per il rovesciamento dei rapporti di forza. Per il PNIEC, infatti, il gas “continuerà a giocare un ruolo indispensabile per il sistema energetico nazionale durante il periodo di transizione e potrà divenire il perno del sistema energetico ibrido elettrico-gas, anche alla luce dello sviluppo dei volumi disponibili di gas rinnovabili (biometano, bioGPL, bioGNL, dimetiletere rinnovabile, idrogeno e metano sintetico) e della spinta per la diffusione di carburanti e combustibili alternativi nei settori energetici, compreso il settore dei trasporti”. È la riproposizione cioè della teoria del gas come combustibile di transizione, tanto cara alle aziende fossili.

Fino a qui abbiamo visto come il PNIEC disegna il potenziamento dell’esistente. Per quel che riguarda invece lo sviluppo di nuove filiere, nuovi ambiti tecnologici e nuove linee di azione, viene elaborata una lista:

  • stoccaggio energia elettrica (accumulatori innovativi); 
  • fonti rinnovabili (solare, geotermia, altre rinnovabili onshore e offshore)
  • idrogeno; 
  • combustibili rinnovabili diversi dall’idrogeno; 
  • nucleare; 
  • cattura, utilizzo e stoccaggio di CO2 (CCUS); 
  • tecnologie di rete e digitalizzazione; 
  • materie prime critiche e materiali avanzati per la transizione energetica e relative filiere nazionali

A sorprendere in questo caso è il notevole interesse verso la CCUS, una tecnologia di cui si discute da alcuni decenni, con risultati a dir poco modesti, e che viene promossa dalle aziende fossili. È lo stesso PNIEC a metterlo nero su bianco:

In Italia è stata recentemente rilasciata ad Eni la prima autorizzazione per svolgere un programma sperimentale - denominato “CCS Ravenna Fase 1” - di cattura, trasporto e stoccaggio geologico di anidride carbonica proveniente dalla centrale di Eni di Casalborsetti (RA), nel complesso di stoccaggio individuato nell’ambito di un’area di coltivazione di idrocarburi a gas offshore. La realizzazione del “progetto Ravenna” potrebbe rappresentare un primo passo per la replica di iniziative analoghe in giacimenti esauriti. In tale prospettiva, l’Italia ha condiviso con Francia e Grecia la volontà di promuovere una cooperazione transfrontaliera sul tema della cattura, del trasporto e dello stoccaggio della CO2, attraverso lo sviluppo di progetti comuni e l’elaborazione di piani comuni per la gestione congiunta transfrontaliera della CCS. Le richieste di collaborazione sono pervenute da società del settore, operanti nel territorio italiano, francese e greco, con progetti candidati per l’inserimento nell’elenco dei progetti di interesse comune (Projects of Common Interest – PCI) dell'Unione, ai sensi del Regolamento TEN-E 2022/869, nell'area tematica delle reti transfrontaliere di trasporto e stoccaggio di biossido di carbonio (CO2). Il potenziale italiano in tale settore è notevole, potendo contare su una vasta rete di giacimenti di gas esauriti o prossimi all’esaurimento, soprattutto nell’offshore dell’Adriatico, che potrebbero essere convertiti a stoccaggio di CO2 con l’utilizzo di gran parte delle infrastrutture esistenti (piattaforme di produzione, sealines e pozzi), consentendo di abbassare notevolmente i costi di stoccaggio geologico. 

Dopo l’hub del gas, l’hub della Co2? Tra verbi al condizionale e potenziali da verificare, quel che è certo è che l’Italia del 2030 somiglia parecchio a quella attuale. 

REPowerEu e piano Mattei

Se sul PNIEC, dopo ritardi e sollecitazioni, è stato possibile almeno consultare una bozza - seppur non diffusa dal governo e neppure discussa in Parlamento - sul REPower Eu e sul piano Mattei bisogna affidarsi a dichiarazioni, anticipazioni e retroscena. Sul REPowerEu, teoricamente, si sa qualcosa in più. La Commissione Europea lo descrive come la “risposta alle difficoltà e alle perturbazioni del mercato energetico mondiale causate dall'invasione russa dell'Ucraina”. Lanciato nel maggio 2022, il piano punta a risparmiare energia, produrre energia pulita e diversificare l'approvvigionamento attraverso un investimento economico da parte dell’Unione europea di quasi 300 miliardi di euro, di cui circa 72 miliardi di euro sono sovvenzioni e circa 225 miliardi di euro sono prestiti.  

In questo senso l’Italia è un osservato speciale perché dovrà modificare anche il PNRR alla luce del REPowerEu. Secondo IlSole24ore il governo Meloni potrà contare su 2,7 miliardi aggiuntivi per il REPowerEU ma in cambio di nuove misure e nuovi investimenti. Come è noto il governo Meloni è in affanno sull’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e da tempo medita di spostare alcuni fondi del Recovery Plan su progetti energetici, così come richiesto dal REPowerEu. Solo che di questi progetti al momento si sa ben poco: soltanto che dovranno essere presentati alla Commissione europea entro il 31 agosto. A fine giugno il Corriere scriveva che:

Più in dettaglio il Piano di cui il governo ha discusso con alcune grande aziende a partecipazione pubblica, che potrebbe contenere progetti di ampio di respiro di grandi player come Snam, Terna, Eni ed Enel, alla fine potrebbe in qualche modo «ospitare», se così di può dire, i fondi che non verrebbero spesi entro la scadenza naturale del Pnrr. In questo modo il Repower-Eu, che già può sommare ai 2,7 miliardi previsti altri fondi (dei Piani di Coesione) calcolati da 3 a 6 miliardi di euro, e dunque arrivare a un totale di 9 miliardi, potrebbe facilmente superare i 10. Anche se il target del governo sembra molto più alto. 

Ancora una volta, dunque, la parte del leone verrà esercitata dalle grandi aziende e dai loro grandi progetti calati dall’alto. Senza un reale coinvolgimento territoriale, senza un’adeguata trasparenza, senza neppure immaginare un sistema energetico (finalmente) decentralizzato e diffuso, in quella che invece appare la mera riproposizione del modello fin qui imperante sin dalla rivoluzione industriale di metà ‘800. 

È in fondo la stessa cornice sulla quale pare prendere forma il piano Mattei di cui, se possibile, si sa ancora meno. Figurarsi che la definizione più precisa resta quella pronunciata dalla premier Giorgia Meloni durante il discorso di insediamento alla Camera (ottobre 2022), cioè "un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub-sahariana. Ci piacerebbe così recuperare, dopo anni in cui si è preferito indietreggiare, il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo".

Nei mesi successivi si sono susseguite alcune visite di Meloni in Africa - Algeria, Tunisia, Libia, Etiopia - e l’annuncio che il piano verrà illustrato il prossimo ottobre. Da un governo capace di negare i crimini del colonialismo italiano in Africa, che neppure discute gli impatti e il senso della presenza di ENI in paesi come l’Algeria o la Libia, cosa è lecito attendersi? Ripescare il nome e le idee di Enrico Mattei, in un mondo che nel frattempo è cambiato enormemente, non è, ancora una volta, una pura tattica di conservazione? Già a gennaio Stefano Feltri su Domani andava dritto al sodo, parlando di colonialismo mascherato:

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L’idea della  “cooperazione non predatoria” sull’energia con il nord Africa è antistorica e un po’ razzista. Nel concreto, il piano Mattei si traduce nell’andare in paesi come l’Algeria, coprire il loro territorio di pannelli solari e portare poi l’energia in Europa, lasciando loro qualche briciola per il disturbo. Perché dovrebbero accettare?

Se è sempre più chiaro che sarà l’Africa il continente più importante per decarbonizzare il mondo, di certo non potrà esserlo continuando a insistere con lo stesso modello produttivo che ne ha causato finora sfruttamento e inquinamento, cambiando al massimo la fonte energetica a cui attingere.

Immagine in anteprima via Qualenergia

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