Viaggio tra gli sconvolgimenti climatici del Bangladesh
5 min letturaPer tutto il mese di giugno è successo di nuovo quel che i contadini della provincia di Sunamganj temevano. Il caldo eccessivo che ha colpito tutto il subcontinente indiano dalla primavera in poi ha incontrato il freddo dell’Himalaya, e le piogge torrenziali generate da questo incontro sono cominciate con più di un mese d’anticipo. I distretti di Sunamganj e di Sylhet, città tra le più ricche e ben organizzate, nota come la Londra del Bangladesh perché tutti hanno un parente a Londra, si sono allagati.
Rakib, un volontario ambientalista conosciuto sul posto, ci gira delle immagini via WhatsApp: “È una situazione spaventosa, alcuni dei nostri volontari vivono in case completamente allagate. Pregate per noi”, scrive. Una delle cose su cui si impegnano Rakib e i tanti volontari della sua organizzazione è spiegare le forme prese dal cambiamento climatico. C’è chi pensa che non stia succedendo nulla e chi ritiene che sia una posizione divina. “Io sono religioso, ma so che questa non è opera di Allah”. Allo stesso modo, il Po in secca o i ghiacciai dell’arco alpino che si smembrano non sono il frutto di quello che alcuni media continuano a chiamare “caldo record”.
Rakib è originario di una piccola isola fluviale come ce ne sono centinaia nel sud del Bangladesh, un paese prevalentemente in pianura, attraversato da decine di grandi e piccoli fiumi che finiscono tutti in un enorme delta sul Golfo del Bengala. “La scuola dove ho fatto le elementari e la moschea dove andavo non ci sono più, portate via dal fiume come decine di alberi di betel, che è la principale fonte di sostentamento della nostra isola”. Il betel è una noce che si mastica e non fa bene, ma è un’abitudine molto diffusa nel paese, qualcosa di simile alle sigarette altrove, ma ai contadini e altri che ne fanno uso costa molto meno. Il problema di Rakib e della sua isola non riguarda però le noci di betel, che potrebbero tranquillamente essere sostituite, ma l’erosione prodotta dalle piene del fiume. Sempre più frequenti e impetuose. Lungo tutta la costa della piccola isola e di quelle osservate nel viaggio in barca per arrivarci si osservano frane e alberi caduti di recente. La stagione delle piene, delle piogge e dei fenomeni climatici estremi non è ancora cominciata.
Il Bangladesh è un esempio di quel che ci attende se non ci decidiamo ad agire in fretta e con misure radicali contro il cambiamento climatico. A sud cresce il numero di cicloni e tempeste e l’avanzare del mare rende l’acqua dei fiumi salata e inutile per irrigare e mette a rischio le foreste di mangrovia che fungono da freno all’erosione della terra - le foreste del Sundarbans sono patrimonio UNESCO e santuario per le tigri. A nord e in tutto il resto del paese è l’acqua che scende dalle montagne a far crescere a dismisura la portata dei fiumi, generare alluvioni, distruggere raccolti.
Proprio quel che è successo a partire dalla scorsa primavera nella contea allagatasi a giugno, quella di Sunamganj, dove il problema, paradossalmente, è anche la siccità. Un gruppo di contadine che coltiva arachidi guarda al prossimo raccolto senza speranze, non ha piovuto abbastanza quando doveva e le piante non hanno dato frutti. Le strappano via per mostrarci i gusci piccoli e vuoti. Siamo in un villaggio accanto a zone di terra di proprietà pubblica concessa a chi ha dovuto lasciare i propri campi a causa delle inondazioni. “Ormai piove quando non deve e viceversa”, spiega Rehana una delle contadine che ci ha mostrato le piante “le arachidi non maturano mentre le risaie vengono inondate prima del tempo, il riso marcirà e sarà impossibile raccoglierlo”.
La maggioranza degli abitanti di questo villaggio sono donne, ogni famiglia ha almeno un membro che è partito, i maschi migrano stagionalmente verso la capitale Dhaka o vanno a lavorare come braccianti. La donne si raccolgono in gruppo per raccontare le loro storie: “C’è chi taglia il riso, chi lavora dove si raccoglie la sabbia dai fiumi o nelle fornaci a trasportare mattoni, chi lavora sui pescherecci… Se non guadagnassero qualcosa così non avremmo nulla da mangiare” spiega Dalia rimasta al villaggio con una bambina mentre il figlio maschio e il marito sono partiti.
Gli avvallamenti dove si coltiva il riso a valle dell’Himalaya - gli Haor - si allagano da sempre con una cadenza regolare, quando la stagione del raccolto è terminata. A qualche chilometro dal villaggio si trova un grande Haor, per attraversarlo però serve una barca perché gran parte della zona è inondata: sulle montagne ha piovuto di più e prima del solito a causa del caldo inusuale a valle, i fiumi si sono ingrossati e i campi allagati. Dall’acqua spuntano le chiome di decine di alberi. Accostiamo accanto a un terrapieno che funge da collegamento tra una serie di case, anch’esse sopraelevate per rimanere sopra il livello dell’acqua.
Una famiglia di contadini sta riposando sotto a un albero accanto a una balla di piante di riso appena raccolte. La figlia più grande cammina avanti e indietro sui chicchi stesi ad asciugare per separarli dalla pula (le bucce) e il capofamiglia Abdus, un uomo sulla quarantina magro con un’aria severa e dei gran baffi, ci spiega che hanno dovuto raccoglierli in fretta e prima del tempo. “Abbiamo piantato il riso che matura più velocemente, ci dà un raccolto più piccolo ma speravamo di fare in tempo. Invece anche quello è finito sott’acqua: qualche giorno fa c’è stato un nubifragio che ha trascinato giù pietre dalle montagne e anche quelle hanno distrutto una parte del raccolto. Ormai succede con frequenza, non si può prevedere nulla, siamo in grande difficoltà”.
Un anziano si avvicina e ci mostra una pianta, i chicchi non sono formati: “Non è buona, possiamo darla da mangiare alle bestie”. In tutta la regione i contadini si affrettano a raccogliere quel che possono, gli Haor sono protetti da terrapieni per contenere le acque, ma i fiumi ormai ne raggiungono il ciglio. “Quando l’India apre le dighe sulle montagne per evitare le inondazioni, i terrapieni vengono spazzati via” racconta ancora il contadino indicando dei punti nell’acqua dove le barriere hanno ceduto.
La comunità bengalese in Italia conta più di 150mila persone, il che la rende la seconda al mondo dopo quella residente nel Regno Unito, che però ha una storia coloniale nel subcontinente indiano. A causa del loro frequente arrivo via mare o per la rotta balcanica, si parla dei bengalesi come di migranti economici allo stato puro, ma le parole dei contadini o degli abitanti degli slum della capitale raccontano una storia più complicata.
Le stagioni che cambiano, le inondazioni più imponenti, frequenti e imprevedibili fanno crescere la spinta migratoria: si parte per l’Europa, e per la Penisola araba, i più poveri migrano stagionalmente per la capitale Dhaka, dove arrivano 1500 persone al giorno. Abdus non vorrebbe partire perché conosce le storie di altri: “A Dhaka spendi solo per camminare, magari subiremmo maltrattamenti senza poter reagire. A Dhaka non varremmo nulla. Se lavori nelle aree rurali hai un valore, sei rispettato, ti verrà riconosciuto il tuo valore. Se il governo ci passasse del veleno lo adopererei volentieri per ucciderci”.
Immagine in anteprima: Foto di Martino Mazzonis