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Elezioni in Ungheria e Serbia: le conseguenze delle vittorie di Orban e Vučić sugli equilibri geopolitici in Europa

7 Aprile 2022 7 min lettura

Elezioni in Ungheria e Serbia: le conseguenze delle vittorie di Orban e Vučić sugli equilibri geopolitici in Europa

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Lo scorso 3 aprile si sono tenute le elezioni in due paesi europei accomunati da una lunga deriva autoritaria: la Serbia del presidente Aleksandar Vucic e l’Ungheria del premier Viktor Orban. Il voto ha visto la vittoria netta dei due leader, con Vucic riconfermato al primo turno alla presidenza e il suo Partito progressista serbo (SNS) che ha ricevuto il 43% al voto parlamentare, mentre Orban ha ottenuto il suo quarto mandato consecutivo, grazie al 53% del suo partito Fidesz. Si tratta di risultati dalle molteplici conseguenze, innanzitutto per la democrazia dei due paesi ma anche per i futuri assetti geopolitici europei, trattandosi di due alleati della Russia che hanno sin qui mostrato una maggior equidistanza diplomatica nella crisi in corso in Ucraina.

Regressione democratica

Il primo dato emerso dalle elezioni in Serbia e in Ungheria riguarda la longevità dei due autocrati al governo. Con il nuovo mandato – il quinto, includendo quello tra il 1998 e il 2002 – Orban diventa il premier che più a lungo ha governato un paese membro dell’Unione Europea. I dodici anni di governo ininterrotto hanno trasformato l’Ungheria in un regime ibrido, dove il pluralismo politico non è più garantito, e in cui l’erosione dello stato di diritto ha portato allo scontro aperto con l’Unione Europea. Similmente, anche per la Serbia il numero dodici ha un’importanza storica: rappresenta la soglia a cui si fermarono sia Slobodan Milosevic che i democratici dopo di lui e che ora sarà superata dal partito di Vucic. Nei dieci anni di governo dell’SNS, la democrazia serba ha fatto preoccupanti passi indietro, fino a raggiungere con Budapest lo status di regime ibrido. 

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Il risultato dello scorso 3 aprile rappresenta quindi un campanello d’allarme per le democrazie ungherese e serba, le cui derive autoritarie hanno almeno tre elementi in comune. In primis, la minaccia allo stato di diritto e in particolare all’autonomia dei poteri esecutivo e giudiziario. Come denuncia anche l’Helsinki Committee ungherese, da quando Fidesz è al governo è aumentata l’intromissione nel sistema di giustizia da parte delle autorità, che hanno mancato di dare esecuzione a diverse sentenze, sia di tribunali domestici che internazionali. Inoltre, si registra un ricorso strumentale alla corte costituzionale. È il caso, per esempio, del controverso referendum che discrimina le persone LGBT, fatto convalidare dalla consulta ignorando una precedente sentenza di senso opposto e infine reso nullo per non aver raggiunto il quorum. Quanto a Belgrado, la divisione dei poteri è stata messa in pericolo dallo state capture, ovvero dalla supremazia del ruolo del partito di governo sulle istituzioni statali, ormai esautorate dei propri poteri. Un esempio in tale senso è arrivato anche a poche ore dalla chiusura dei seggi, quando la Commissione elettorale ha smesso di riportare l’affluenza e di comunicare i risultati. Una mansione svolta invece proprio da Vucic che, nonostante fosse egli stesso un candidato presidenziale, ha comunicato i risultati elettorali dal quartier generale del partito di cui è presidente, carica che gli consentirà anche di plasmare il futuro esecutivo.

Il secondo elemento che accomuna l’autoritarismo di Serbia e Ungheria è il crescente controllo sulla stampa. Lo si è visto anche a quest’ultime elezioni. Il rivale di Orban, Peter Marki-Zay, ha avuto appena cinque minuti di tempo per presentare il proprio programma sulle emittenti nazionali. Un sistema iniquo, in cui sono oltre 500 i media controllati da imprenditori vicini a Fidesz, che – secondo alcune inchieste – ricorrerebbe a ingenti fondi pubblici per il mantenimento della macchina propagandistica orbaniana. Quanto a Vucic, anche in questa campagna elettorale il presidente non ha avuto alcun confronto o dibattito pubblico coi membri dell’opposizione. Il suo controllo sulla stampa ha caratteristiche simili a quello del vicino ungherese e avviene attraverso strumenti legali, come le pressioni fiscali su quei giornali che criticano il governo e sovvenzioni-premio, con denaro pubblico, per i tabloid e le emittenti private vicine al governo.

Infine, sia l’autocrazia ungherese che quella serba condividono il ricorso ossessivo alla retorica nazionalista. Negli anni di governo, la propaganda di Fidesz e dell’SNS ha plasmato una narrazione collettiva che li erge ad unici difensori dell’interesse nazionale. Narrazione che, per alimentarsi, necessita costantemente della creazione artificiale di nemici, sia endogeni che esogeni, siano essi membri dell’opposizione, paesi vicini o organizzazioni internazionali.

Ma quello di Budapest e Belgrado non è un modello politico autoctono. È un modello che i leader ungherese e serbo hanno adottato emulando un loro alleato strategico: la Russia di Vladimir Putin.

Teste di ponte del Cremlino?

Mentre era in corso lo spoglio che confermava le vittorie di Orban e Vucic, le notizie da Kiev riportavano lo spostamento delle truppe russe su altri fronti. A voler forzare una lettura della combinazione di questi eventi si potrebbe quasi dire che Putin arretra in Ucraina ma avanza in Ungheria e Serbia. Considerati gli allineamenti diplomatici internazionali, Orban e Vucic possono infatti essere intesi come teste di ponte della Russia in Europa. O, per lo meno, due protegé del Cremlino.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, l’Ungheria ha assunto una posizione via via più equidistante, ovvero una neutralità di facciata. Nel discorso con cui Orban ha festeggiato il successo elettorale è stato citato anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky tra i nemici della sua democrazia illiberale: “La sinistra in patria, la sinistra internazionale, i burocrati di Bruxelles, le organizzazioni dell’impero di Soros, i media stranieri e alla fine anche il presidente ucraino”. Una rivincita retorica alle imbeccate di Zelensky, che nel suo appello all’Europa aveva condannato l’equidistanza di Orban viziata dai legami con Putin.

Infatti, nonostante l’Ungheria abbia aderito al pacchetto di sanzioni contro Mosca, si è espressa contrariamente all’invio di armi sostenuto dagli alleati UE e NATO, nonché al loro transito su territorio ungherese. Inoltre, Budapest ha posto un veto all’embargo su gas e petrolio dalla Russia. Una posizione ambigua che, alla vigilia delle elezioni, ha fatto oscillare persino le stabili relazioni con la Polonia e con gli altri del Gruppo di Visegrad. Il vertice dei ministri della Difesa di questi quattro paesi previsto per il 30 marzo è saltato per la posizione di Budapest sulla crisi in corso: “Sono veramente dispiaciuta che per i politici ungheresi sia più importante il petrolio a buon mercato russo del sangue degli ucraini”, aveva commentato la ministra della Difesa ceca Jana Cernochova. L’Ungheria è infatti altamente dipendente dalle importazioni energetiche dalla Russia, al punto da essere il paese UE più vulnerabile a un’eventuale interruzione delle riforniture. Una dipendenza blindata poche settimane prima dell’inizio della guerra, quando Orban ha incontrato Putin per chiedere un aumento delle riforniture di gas, potenziando il contratto sottoscritto lo scorso settembre con Gazprom. L’ambiguità ungherese si fonda quindi su calcoli opportunistici e sulla necessità di garantire al paese una sicurezza energetica di lungo periodo. Il premier ungherese ha impostato la sua campagna elettorale sulla promessa di tenere la guerra lontana dalla vita degli ungheresi, sacrificando il concerto d’azioni europee in favore del fabbisogno energetico nazionale.

A guadagnarci sarà soprattutto la Russia di Putin. Oltre a tutelare le esportazioni energetiche verso Budapest, Mosca trova così una pecora nera dentro l’UE e la NATO, in grado di minare quell’inedita compattezza occidentale delle prime settimane di conflitto.

Discorso diverso per la Serbia, i cui rapporti con la Russia si radicano su altre premesse. Anche qui le importazioni energetiche sono di fondamentale importanza, dal momento che il paese balcanico dipende all’89% dal gas e dal petrolio russo, che acquista a prezzi di favore, ma ci sono considerazioni soprattutto di natura politica. L’equidistanza di Belgrado sull’invasione russa segue la sua tradizionale politica di sedere su due poltrone: condanna l’invasione dell’Ucraina, in linea con i partner occidentali, ma senza sanzionare Mosca. Una posizione giustificata sia dal voler continuare a usufruire del sostegno russo, e del suo veto al Consiglio di Sicurezza, contro l’indipendenza del Kosovo, sia dalla necessità politica di capitalizzare il filo-russismo, che in Serbia ha un grosso capitale elettorale.

Tuttavia, la neutralità di Belgrado potrebbe avere i giorni contati. Per anni, il paese ha cercato di fruttare il più possibile da quelli che sono diventati due fronti geopoliticamente agli antipodi: da un lato, relazioni commerciali indispensabili per l’economia serba coi paesi membri UE, dall’altro un’alleanza politica strategica per difendere gli interessi nazionali. La Serbia, candidata all’adesione da dieci anni, potrebbe essere ora costretta a prendere una posizione netta. Se non altro, per decidere in quale modello politico si riconosce.

Le conseguenze per l’Europa

Il risultato delle elezioni dello scorso 3 aprile pone, infine, due, complementari sfide per l’Unione Europea. La prima riguarda la tutela degli standard democratici. Serbia e Ungheria sono due paesi autoritari, uno dentro e uno appena fuori l’UE. Negli anni, attorno a Budapest si è creato il cosiddetto blocco sovranista, un allineamento tra leader nazionalisti e conservatori che include la Polonia e la Slovenia di Janez Jansa. Dentro l’UE, il pericolo è che la deriva autoritaria possa espandersi e contagiare trasversalmente quei paesi in cui i partiti nazionalisti riscuotono maggior successo. Pericolo che non farebbe che accentuare le divergenze sulle politiche comunitarie, come in materia di immigrazione, così come minacciare la salvaguardia delle libertà fondamentali e dello stato di diritto. E se per far rispettare quest’ultimo Bruxelles è corsa ai ripari rendendolo condizione necessaria per accedere ai fondi del budget, con la Serbia non si è comportata allo stesso modo. Il decadimento della democrazia serba è avvenuto anche con la complicità UE, che in questi dieci anni ha garantito supporto e legittimazione politica al governo Vucic in cambio dell’offerta di una stabilità politica che, però, è equivalsa all’assenza di cambi di vertice. Un trend confermato anche alle ultime elezioni.

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Ma la sfida sarà anche di carattere geopolitico e riguarda il rilancio del processo di allargamento europeo. La lunga attesa alle porte dell’UE ha infatti aumentato l’instabilità nella regione balcanica, sempre più in balia di contrapposte superpotenze. L’integrazione dei Balcani diventa ora un processo decisivo per l’UE, che per garantire stabilità di lungo termine dovrà innanzitutto porre la tutela dello stato di diritto al centro della strategia di allargamento.

Immagine in anteprima: il premier ungherese Viktor Orban e il presidente della Serbia Aleksandar Vucic, via newsby.it

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