Elezioni regionali in Lazio e in Lombardia: avevo previsto un cappotto. È andata peggio
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Raramente, nella storia recente della politica italiana, si è assistito a una tornata elettorale i cui i risultati sono talmente tanto definiti da non poter essere piegati a interpretazioni di parte.
Attilio Fontana è stato riconfermato presidente della Regione Lombardia con una percentuale di quasi sette punti superiore rispetto alla precedente tornata (nel 2018) e superando di gran lunga la maggioranza assoluta dei consensi, superando il 56% delle preferenze dei suoi corregionali. È un risultato che nei primi mesi del 2020, nella fase più dura della pandemia, in cui il governo regionale lombardo è parso a molti osservatori come il responsabile di una gestione sconsiderata dell’emergenza, era semplicemente inimmaginabile; la stessa candidatura di Fontana sembrava traballante e problematica solo fino a pochi mesi fa.
Inoltre Fontana ha visto la candidatura a presidente di Regione della sua vicepresidente a Palazzo Lombardia, Letizia Moratti, che aveva anche gestito la sanità dopo la disastrosa esperienza di Giulio Gallera: la scelta di lasciare Fontana e il centrodestra e di correre con Azione e Italia Viva poteva indicare la presenza di un forte malcontento nei confronti di Fontana anche da parte di esponenti politici a lui molto vicini. Anche a causa di queste circostanze, l’ex sindaco di Varese può essere considerato tra i grandi vincitori di queste elezioni regionali. Il risultato di Letizia Moratti, invece, si è rivelato ben al di sotto della attese: la sua coalizione (il Terzo Polo) non ha superato il 10%, e Moratti non sarà presente nemmeno in consiglio regionale.
Il dato del Lazio è altrettanto clamoroso dal punto di vista politico, anche se per ragioni diverse. Sebbene Francesco Rocca, il candidato unitario del centrodestra, fosse considerato favorito anche a causa della forza (storica) di Fratelli d’Italia nella regione e alla concomitante decisione del Partito Democratico e del MoVimento5Stelle di fare corsa separata (il che, in un’elezione a turno secco come sono le regionali, corrisponde a sconfitta pressoché certa considerando gli attuali indici di gradimento della premier Meloni), nessun sondaggio pre-elettorale e ben pochi osservatori avevano immaginato che anch’egli, come Fontana, sarebbe riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta dei consensi.
Questo exploit è in buona parte connesso al risultato (per certi versi sorprendente) di Roma città, che ospita una percentuale consistente degli elettori laziali. Nonostante il capoluogo sia governato dal centrosinistra, con Roberto Gualtieri sindaco, il voto romano per le regionali ha premiato la coalizione di centrodestra che ha sopravanzato gli avversari di circa sette punti (46% a 39%). A Milano città, invece, il centrosinistra (che governa con Beppe Sala sindaco) ha conquistato più voti rispetto al centrodestra, con percentuali numericamente identiche ma di segno politico opposto rispetto a Roma.
Il centrosinistra laziale confidava in un effetto-Zingaretti che evidentemente non c’è stato. Il governatore uscente ed ex segretario del PD si era distinto in passato per essersi affermato in competizioni in cui era riuscito ad andare oltre le difficoltà della sua stessa coalizione (nel 2008 fu eletto presidente della Provincia di Roma nonostante la città, nella stessa tornata elettorale, premiasse Gianni Alemanno; nel 2018 fu riconfermato presidente della Regione Lazio nonostante la debacle del centrosinistra nelle concomitanti elezioni politiche).
Zingaretti, che comunque non sarebbe stato rieleggibile perché al termine del suo secondo mandato da governatore, si è dimesso dopo essere stato eletto parlamentare dopo le Politiche del 25 settembre 2022 causando tra l’altro un effetto-domino che ha poi portato all’anticipo della data delle elezioni non solo nel Lazio, ma anche in Lombardia (la breve durata della campagna elettorale ha tra le altre cose sfavorito la coalizione che doveva inseguire, e cioè quella di centrosinistra, come vedremo più avanti). Come suo ‘erede’ è stata indicata una persona a lui molto vicino politicamente, cioè Alessio D’Amato, vice di Zingaretti alla Regione e assessore alla Sanità, la cui gestione dell’emergenza-Covid è stata molto migliore rispetto a quella di Gallera in Lombardia. Tutto ciò non è bastato per dare una spinta a D’Amato, a dimostrazione che la trasmissione del consenso tra due soggetti sulla sola base dell’appartenenza o della vicinanza politica, semplicemente, non esiste più.
Questi due successi portano la coalizione che attualmente esprime la presidente del consiglio Giorgia Meloni al governo di tutte le regioni italiane eccetto Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Puglia.
Sebbene l’esito di entrambe le elezioni fosse da tempo scontato a vantaggio del centrodestra (ne parlavamo già poco prima dello scorso Natale all’interno della seconda puntata del podcast di Valigia Blu ‘Viaggio nella politica italiana’), sono le proporzioni, i numeri, gli ordini di grandezza a sorprendere, ma anche a restituire alcuni messaggi inequivocabili.
Viaggio nella politica italiana #2 – Conversazione con Dino Amenduni [podcast]
In verità alcuni di questi messaggi erano già stati lanciati dagli elettori negli scorsi anni, in particolare nei confronti degli attuali partiti di opposizione. Ma, evidentemente, non sono stati colti e ciò ha portato a un ulteriore allargamento delle falle già evidenti nella ‘connessione sentimentale’ tra gli elettori progressisti e i propri rappresentanti.
1. Perché l’affluenza è stata così bassa?
Il calo della partecipazione degli elettori aventi diritto al voto è, senza mezzi termini, drammatico. Nel Lazio l’affluenza è calata di quasi 30 punti percentuali (dal 66.5% del 2018 al 37.2% di quest’anno); in Lombardia la contrazione è stata ancora maggiore (dal 73.1% di cinque anni al 41.7% di oggi).
Per completezza è opportuno ricordare che si tratta della prima circostanza nella storia recente in cui il voto in queste due regioni non è stato ancorato a un election-day. Cinque anni fa la Lombardia e il Lazio scelsero il proprio presidente di regione nello stesso giorno in cui furono celebrate le elezioni politiche; in precedenza (nel 2015 e a ritroso) il voto di queste due regioni coincideva con lo stesso appuntamento in molte altre regioni italiane. È dunque mancato un effetto traino che in passato aveva favorito l’affluenza.
In secondo luogo è opportuno ricordare che, sebbene questo dato di affluenza sia il più basso della storia sia nel Lazio sia in Lombardia, non è un unicum nella storia recente delle elezioni regionali in Italia. Nel 2014 l’attuale presidente dell’Emilia-Romagna e candidato alla segreteria nazionale del PD, Stefano Bonaccini, vinse in una tornata che portò al voto solo il 37.7% degli aventi diritto. Quella campagna elettorale fu caratterizzata da un appesantimento dell’immagine dello stesso Bonaccini, che fu indagato per peculato a poco più di due mesi dal voto (l’indagine non portò poi ad alcun esito giudiziario) ma anche da un aspetto in comune con le elezioni del 12 e 13 febbraio 2023, e cioè la percezione della non contendibilità dell’esito finale del voto.
L’affluenza in Emilia-Romagna è poi risalita nelle successive elezioni regionali, quelle del 2020, in cui Bonaccini sconfisse Lucia Borgonzoni (Lega) dopo una campagna elettorale appassionante e in cui l’esito fu considerato a lungo incerto. L’affluenza era risalita al 67.6%, cioè 30 punti in più rispetto al 2015: un numero che coincide proprio col calo percentuale delle elezioni del Lazio e della Lombardia di quest’anno rispetto a quelle di cinque anni fa.
L’assenza di contendibilità fa diminuire l’interesse dei cittadini e dei media nei confronti delle elezioni, e dunque favorisce l’astensione; questa riflessione potrebbe essere valida anche per analizzare il brusco calo di affluenza delle politiche 2022, a loro volta mai realmente in discussione. L’assenza di un election-day contribuisce ulteriormente a questo disinteresse.
Questo aspetto contingente non può però rappresentare un alibi per la politica e in particolare per il centrosinistra che, dati alla mano, ha pagato maggiormente questo crollo della partecipazione sia in termini percentuali sia, naturalmente, rispetto ai voti assoluti. Il calo dell’affluenza è infatti pressoché inesorabile da almeno un paio di decenni nelle elezioni di ogni livello e collegare il proprio esercizio di voto in modo così forte a dinamiche competitive e non rappresentative (cioè considerare il proprio voto utile solo se si può battere il proprio avversario e non per eleggere i propri rappresentanti locali e nazionali) è la dimostrazione eclatante della rottura della cinghia di trasmissione tra partiti (nessuno escluso) e cittadini e dell’abdicazione degli stessi partiti al ruolo, definito dalla Costituzione, di collettori di istanze diffuse nella società.
2. Perché queste campagne elettorali non sono mai state in discussione?
Un’altra certezza che appariva inossidabile rispetto alle dinamiche di voto in Italia riguardava il rapporto tra calo dell’affluenza e l’emersione di un presunto vantaggio del centrosinistra in termini percentuali.
Storicamente si è sostenuto che l’elettorato più anziano attribuisce un maggior valore simbolico al diritto di voto, forse perché memore delle conquiste sociali necessarie per ottenerlo, e quindi è più incline a recarsi alle urne; in passato quel segmento demografico è apparso più vicino al centrosinistra. Per queste ragioni l’arrivo di dati estremamente preoccupanti sull’affluenza sin dalle prime ore di domenica 12 febbraio aveva offerto qualche ora di timore nel centrodestra e di illusione nel centrosinistra. Dati alla mano, però, è possibile archiviare quest’altra falsa convinzione: il calo dell’affluenza non avvantaggia automaticamente il centrosinistra e, anzi, in questa tornata elettorale è accaduto l’opposto.
Per questa ragione, oltre che naturalmente per motivi ben più nobili riguardanti l’importanza della partecipazione politica in sé, le attuali opposizioni parlamentari hanno il grave peso di non aver fatto tutto il possibile per rendere questa tornata interessante per i propri elettori.
Ciò è accaduto principalmente per due motivi. Il primo è disarmante perché denota l’incapacità (o peggio ancora, la mancanza di volontà) di fare tesoro delle esperienze del passato, anche molto recente. Le Politiche del 2022 non sono mai state in discussione anche a causa dell’estrema brevità della campagna elettorale, iniziata con uno svantaggio in termini di consenso rispetto alla coalizione di centrodestra che era impossibile da colmare in due mesi (di cui uno era agosto), persino in un’epoca di grande volatilità del consenso come quella attuale.
La debacle dello scorso settembre avrebbe dovuto perciò suggerire grandissima solerzia nell’individuazione dei candidati di centrosinistra di Lazio e Lombardia: partire con mesi di anticipo avrebbe permesso di creare un rapporto più stretto e proficuo tra candidati e cittadini a livello di territorio, indispensabile per contrastare l’onda del voto di opinione che invece è saldamente (e da anni) nelle mani del centrodestra. Invece così non è stato: D’Amato e Majorino hanno iniziato la campagna elettorale per le Regionali avendo meno di tre mesi a disposizione. E non a caso è andata proprio come alle scorse Politiche, se non peggio.
Il centrodestra aveva scontato le conseguenze dello stesso errore alle Amministrative del 2021, in cui ha perso in molte grandi città sebbene fosse avanti nei sondaggi a livello nazionale. Due anni fa il centrosinistra si era mosso con maggiore anticipo, in alcuni casi potendo contare sulla presenza di sindaci in carica che correvano per un secondo mandato, e aveva raccolto risultati apprezzabili. La dinamica si ripete, troppo simile a sé stessa per poter essere frutto di una coincidenza.
In assenza di un radicamento strutturato sul territorio da parte dei partiti (radicamento che la Lega continua a mantenere, seppur in forma residuale, in Lombardia, e che ha consentito al partito di Salvini di non capitolare, ottenendo il 16.5% dei consensi) emerge tra le altre cose la tendenza dei cittadini a considerare le elezioni regionali come qualcosa di più simile alle elezioni nazionali che a quelle amministrative, e questo chiaramente favorisce, in questa fase storica, il centrodestra.
Le Politiche del 2022 avrebbero dovuto insegnare alle attuali opposizioni anche l’importanza di non correre in ordine sparso quando la legge elettorale è a turno secco (e ciò avviene tanto nelle elezioni regionali quanto nelle Politiche). E invece non solo non c’è stata coesione tra le forze di opposizione (che non può essere nemmeno un obbligo in caso di proposte politicamente divergenti), ma si è riusciti a fare persino peggio rispetto allo scorso settembre, presentando due coalizioni di centrosinistra diverse tra Lazio e Lombardia. D’Amato è stato sostenuto da Azione e Italia Viva e non dal MoVimento5Stelle; Majorino al contrario è stato appoggiato dal M5S ma non dal Terzo Polo. Dall’altra parte, invece, il centrodestra è apparso sempre uguale a sé stesso: alle Politiche dell’anno scorso e in queste elezioni regionali. Offrire omogeneità politica, tra le due regioni, in elezioni già difficilissime in partenza sarebbe stata una precondizione indispensabile: invece è mancato anche questo.
Questo secondo elemento può apparire, considerando l’esito del voto, puramente speculativo: il centrodestra ha superato il 50% sia nel Lazio sia in Lombardia e quindi verosimilmente avrebbe vinto anche se le opposizioni fossero state unite o quantomeno coerenti nelle scelte fatte nelle due regioni. Allo stesso tempo questo scenario avrebbe reso le elezioni maggiormente contendibili, e questo nella peggiore delle ipotesi avrebbe portato a un crollo meno marcato dell’affluenza; in secondo luogo il fatto che il centrodestra, pur essendo al governo, non è stato comunque esente da un crollo (a sua volta) dei voti assoluti dimostra che in teoria il trio Meloni-Salvini-Berlusconi è battibile, a condizione di fare tutto nel migliore dei modi possibili e muovendosi con largo anticipo nell’indicazione dei candidati alla presidenza.
3. Il Covid non è più una variabile elettorale
Attilio Fontana è stato rieletto col 56% dei consensi in Lombardia. Non solo: nei Comuni lombardi maggiormente colpiti dal Covid in termini di mortalità, il suo consenso è addirittura salito rispetto al 2018. Giulio Gallera, assessore regionale alla Sanità in Lombardia durante la prima fase della pandemia, gestita in modo così deficitario da obbligarlo a lasciare l’incarico in corsa a favore di Letizia Moratti, non solo si è ricandidato al Consiglio regionale con Forza Italia (e dunque sostenendo Fontana), ma è andato vicinissimo alla rielezione. L'ex assessore alla Sanità è stato, infatti, il secondo più suffragato nelle liste di Forza Italia a Milano ed è il primo dei non eletti: potrebbe entrare in Consiglio regionale qualora chi lo precede, Comazzi, diventasse assessore. D’altro canto Alessio D’Amato, che aveva gestito la pandemia nel Lazio in modo ben più dignitoso rispetto alla coppia Fontana-Gallera, non ha ricevuto alcun effetto positivo apprezzabile in termini di consenso come conseguenza della sua gestione, tutto sommato virtuosa, nel suo ruolo di assessore alla Sanità.
Queste evidenze, apparentemente incomprensibili, ci dicono due cose: la prima, eclatante, è che il Covid è oramai un ricordo del passato a livello di scelte elettorali (e forse non solo quelle). È difficile stabilire se questo sia frutto di una specie di rimozione psicoanalitica a cielo aperto di un trauma, o al contrario di una deliberata riorganizzazione delle priorità percepita dagli elettori, una volta superata la fase di emergenza.
La seconda possibilità è che oggi il centrosinistra stia pagando le conseguenze di scelte piuttosto rigorose in termini di salute pubblica durante le fasi più acute della pandemia (dico ‘centrosinistra’ perché il Ministro della Salute di allora era Roberto Speranza, e quindi quelle scelte sono state sempre più connotate politicamente soprattutto da chi le osteggiava. Basta guardare lo storico delle prime pagine dei quotidiani nazionali di destra negli ultimi tre anni per rendersene conto), che però hanno generato malcontento in segmenti di popolazione ben più estesi rispetto ai no-vax.
Questa dinamica sembrerebbe essere simile, se verificata, a ciò che accade ai governi dopo che adottano misure draconiane in economia per salvare i propri paesi: spesso sono puniti alla prima occasione elettorale utile, anche se si sono comportati in modo virtuoso dal punto di vista della collettività (accadde persino a Winston Churchill dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e lo abbiamo visto più di recente con Alexis Tsipras in Grecia).
Infine, c’è da fare una considerazione un po’ fatalista: se le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia si fossero tenute due anni fa, invece che nel 2023, forse avremmo assistito a risultati (e probabilmente anche candidati) completamente diversi.
L’analisi degli sconfitti: perché è fallito l’assalto al PD
Il Partito Democratico ha retto in termini percentuali sia nel Lazio sia in Lombardia, stabilendosi su livelli percentuali in linea con le elezioni politiche del 2022 e confermandosi secondo partito dopo Fratelli d’Italia.
Chiaramente questo non riduce l'esito disastroso in termini di voti assoluti legati al brusco calo dell’affluenza, che allo stesso tempo è comune a quasi tutte le forze politiche; ma di sicuro rappresenta un elemento di interesse rispetto ad alcune dinamiche che irradiano (da troppo tempo) anche la discussione su quali decisioni strategiche debba prendere il PD dopo le numerose sconfitte patite negli ultimi anni.
Il risultato delle elezioni Politiche del 2022, l’assenza di una linea comprensibile (resa ancora più evidente dal vuoto di leadership nazionale) e il progressivo arretramento del consenso del partito certificato dai sondaggi di questi mesi ha fatto sembrare ineluttabile una sorta di cannibalizzazione del partito da parte sia del MoVimento5Stelle sia di Azione/Italia Viva, che dalla loro hanno invece il vantaggio di essere guidate da soggetti molto mediatizzati (e non appesantiti né dal fuoco amico né dall’eccesso di "correntismo" che invece affligge il PD), oltre che da un orizzonte politico e culturale teoricamente più definito rispetto a quello del Partito Democratico degli ultimi tempi. Questo quadro avrebbe dovuto restituire, così, un’affermazione di Conte e Calenda/Renzi a discapito della formazione guidata, per l’ultima volta in questa segreteria nazionale, da Enrico Letta.
Così invece, non è stato. Gli esperimenti solitari del M5S nel Lazio (con Donatella Bianchi) e del Terzo Polo in Lombardia (con Letizia Moratti) hanno fatto registrare percentuali molto al di sotto delle aspettative e con due ‘sconfitte in casa’ da parte di queste due forze politiche. Nel Lazio, infatti, il partito guidato da Giuseppe Conte è passato dal 15% delle Politiche 2022 all’8.8% di queste regionali; in Lombardia Azione e Italia Viva hanno più che dimezzato le loro percentuali (dal 10.3% delle Politiche 2022 al 4.2 di queste regionali). M5S e Terzo Polo non hanno però brillato nemmeno quando erano in coalizione col PD: Azione e Italia Viva si sono fermate al 4.75% nel Lazio; il MoVimento5Stelle non è andato oltre il 4% in Lombardia.
La tanto annunciata ‘Opa ostile’ di Conte, Calenda e Renzi al Partito Democratico, dunque, non c’è stata. Ciò mette in evidenza due elementi che potrebbero avere un valore anche al di là delle specifiche dinamiche politiche relative alle regioni in cui si è votato:
- M5S e Terzo Polo sono ‘partiti-ologramma’, in cui il consenso coincide con le capacità comunicative e in subordine politiche dei loro leader e in cui le dinamiche di voto d’opinione sono dunque tanto più determinanti quanto più l’esito del voto è scollegato dalle capacità (molto modeste) di radicamento di questi partiti sul territorio. Tradotto in soldoni: Conte, Calenda e Renzi hanno un problema di scarsa rappresentatività in termini di classe dirigente a livello locale. Per questo motivo il M5S va molto meglio alle elezioni politiche rispetto a quelle amministrative e regionali; lo stesso discorso sembra valere anche per Azione/Italia Viva.
- Il PD invece si trova nella situazione opposta. Se M5S e Terzo Polo hanno la testa ma non il resto del corpo, il PD non ha una testa (almeno per il momento) ma ha un radicamento territoriale ancora sufficiente, e questo gli consente di non solo di reggere l’impatto elettorale anche in tornate disastrose per il centrosinistra come quest’ultima, ma anche di non soccombere alle spinte competitive molto forti rappresentate dai ‘vicini di opposizione’. Fino a quando il PD continuerà ad avere classe dirigente di buon livello sul territorio e fino a quando Conte, Calenda e Renzi non riusciranno a fare passi in avanti su questo aspetto, il PD potrebbe riuscire a sopravvivere anche alla crisi più grave della sua storia, o quantomeno a reggere almeno fino al prossimo appuntamento politico nazionale, rappresentato dalle elezioni Europee del 2024.
Se questa analisi fosse confermata, il PD farebbe bene ad abbandonare quanto prima la sempiterna discussione sulle alleanze (che porta risultati risibili in termini di voti e disastrosi in termini di dibattito interno, autoreferenzialità e conseguente disinteresse da parte degli elettori) e a concentrarsi sulla più profonda auto-riforma possibile, nella speranza di riuscire a risalire la china. Considerando che mancano solo due settimane alle Primarie per la segreteria nazionale, c’è da sperare (per il PD) che Bonaccini e Schlein colgano il significato politico della ‘sconfitta meno sconfitta rispetto agli altri partiti di opposizione’ e si concentrino solo su questo da qui fino al 26 febbraio.
P.s.: Le prossime elezioni regionali si terranno il 2 e il 3 aprile nel Friuli Venezia Giulia. Anche lì (salvo sorprese) stravincerà il centrodestra, grazie al grande consenso del presidente in carica, Massimiliano Fedriga.
Immagine in anteprima via dire.it